La guerra non era finita – recensione

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“Non c’è nessun dopoguerra”.
È l’incipit di uno dei miei romanzi preferiti di Wu Ming, 54, in cui si raccontano tra le (molte) altre cose le vicissitudini dei partigiani al termine della guerra.
“Non c’è nessun dopoguerra” potrebbe essere anche il titolo del saggio di Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante Rossa, uscito a febbraio per Laterza, che risponde idealmente alla retorica di Giampaolo Pansa sul “sangue dei vinti”, raccontando le gesta di un gruppo di ex partigiani con base a Lambrate che, a guerra finita, non depose le armi e continuò ad agire uccidendo fascisti.
Dice: “eh, ma allora gli dà ragione, a Pansa: i partigiani ammazzavano anche a guerra finita”.
No.
Il punto è che l’immediato dopoguerra è un periodo di cui di solito si sa abbastanza poco. Sembra che ci si immagini che dal 26 aprile 1945 di colpo ci siano stati tarallucci e vino ovunque, salvo che da parte dei perfidi partigiani che non hanno mollato le armi. In realtà il dopoguerra è stato una landa selvaggia, quasi quanto la guerra propriamente detta, e chi temeva che il fascismo non fosse stato sconfitto se non nominalmente non era necessariamente un paranoico o un esaltato. Gruppi di fascisti organizzati (ce n’era uno che si chiamava Partito Democratico Fascista*, tra gli altri)  compiono attentati e altre azioni. L’epurazione dei funzionari di Stato compromessi con il fascismo si è rivelata una farsa, visto che è affidata a una magistratura formatasi nel Ventennio e rimasta al suo posto. I partigiani vengono invece epurati dalla polizia, un’amnistia di Togliatti svuota le carceri dai fascisti ma tiene dentro chi era arrestato per azioni commesse durante la Resistenza e giudicate, dopo la guerra, sulla base dei rapporti della polizia fascista. C’è chi deve fuggire all’est per evitare la galera.
Insomma, per citare un’espressione cara al fascismo, quella nella guerra di liberazione è una vittoria mutilata.
In questo quadro, diventa facile comprendere perché in diverse parti d’Italia qualcuno possa avere pensato che non fosse ancora il momento di mettere giù le armi. Anche perché non bisogna dimenticare che non c’era solo un anno e mezzo di guerra, ma anche vent’anni di regime fascista da buttare nel conto.

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I membri della Volante Rossa, con un appoggio molto cauto del PCI (per il quale dal 1947 fanno servizio d’ordine in manifestazione), fanno questo: si procurano un camion, divise dell’esercito, armi e uccidono fascisti.
La fine arriva nel 1949, quando la maggior parte dei membri vennero arrestati. Il processo si concluse nel 1953 con una serie di condanne. Nel frattempo però Giulio Paggio, il capo della formazione, era fuggito a Praga, dove ha trascorso il resto della vita. Paggio e altri due membri della Volante sono stati graziati da Pertini nel 1978.

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Una delle cose più trite e banali che si possono dire di un saggio è che “si legge come un romanzo”. La guerra non era finita non si legge come un romanzo, si legge come un grumo di potenziali romanzi: in appena 160 pagine, Trento ha stipato decine e decine di storie che meriterebbero di avere un racconto più esteso. Una è proprio all’inizio: Giuseppe Bonfatti (“Remo”), ex partigiano, nel 1990, tornato in Italia dal Brasile dove aveva trascorso molti anni dopo la guerra, riconosce in un bar uno dei responsabili dell’incendio per rappresaglia della casa della sua famiglia. Lo aspetta fuori e lo uccide a picconate. Poi si consegna ai carabinieri. Al processo dichiarerà che è stata la cosa più bella che abbia mai fatto. Una vicenda tremenda e a suo modo straordinaria (onestamente mi stupisco, nel bene e nel male, che non sia successo più spesso).
Ma ci sono anche vicende che mai avrei immaginato possibili, come “la guerra di Troilo”. Ettore Troilo era il prefetto di Milano, ex partigiano in Abruzzo. A fine novembre del 1947 De Gasperi lo vuole sostituire con il prefetto di Torino, più vicino al governo. Gian Carlo Pajetta (già capo di stato maggiore partigiano) organizza una manifestazione sotto la prefettura che si conclude con l’occupazione della suddetta. Pare che a un certo punto Scelba (ministro dell’interno) abbia telefono a Troilo e gli abbia risposto Pajetta.
La situazione si fa vagamente tesa, perché il controllo delle operazioni di polizia passa all’esercito e per una notte c’è davvero il rischio che a Milano scoppi la guerra civile. Intanto Pajetta scopre che a Roma la sua mossa non è stata ben accolta: telefona a Togliatti e annuncia “abbiamo una prefettura” (ricorda qualcosa?), al che l’altro gli risponde: “Bravo, e ora che te ne fai?”.
Durante una discussione in un bar, scoppia una rissa. Un operaio comunista colpisce un uomo con un pugno, quello va giù svenuto. Preoccupati, altri due operai lo portano al pronto soccorso. Ma quando gli tirano fuori i documenti scoprono che era uno della Muti (la polizia della RSI a Milano) e se lo riportano via. Verrà ritrovato con un foro nella nuca nei pressi di Monza, due giorni dopo.
Comunque alla fine nessuno vuole una guerra, né il PCI né il governo, che manda a trattare un democristiano ex partigiano. Finisce che Pajetta e i suoi perdono su tutta la linea, perché riescono solo a ritardare di un paio di giorni la sostituzione di Troilo, a cui succederà prima il prefetto di Pavia e poi quello già designato dal governo, che rispolvera un anticomunismo da Ventennio nelle attività della prefettura. Sembra che, per questa faccenda, Pajetta sia stato prima cazziato brutalmente da Togliatti e poi, per anni, pubblicamente sfottuto a ogni occasione.
È anche a suo modo divertente il racconto della reazione all’attentato a Togliatti del 1948, quando con il Capo fuori dai giochi i militanti più impazienti del PCI sembrano agire con un automatismo che lascia pensare alla maggioranza silenziosa che la minaccia di una rivoluzione comunista non sia un’invenzione della propaganda governativa. Ma di nuovo, è la stessa dirigenza del PCI a frenare e rimandare a casa i rivoltosi pronti a combattere per vendicare Togliatti (no, Bartali che vince il Tour De France non c’entra nulla).
Questo è anche l’episodio che chiude in un certo senso il racconto, perché convincerà molti nella Volante che non c’è speranza di cambiare le cose (in generale, sembra che dopo il luglio del 1948 molti ex partigiani, demoralizzati, fecero ritrovare le armi nascoste o le consegnarono). Ci sono ancora omicidi ascrivibili alla Volante Rossa dopo questo episodio, ma sono azioni pensate male e condotte ancora peggio, che porteranno agli arresti e al processo.

Trento, anche se è facile capire da che parte sta nella storia, si tiene sempre un passo indietro rispetto a ciò di cui racconta. Non cerca di fare della letteratura: il suo è un saggio dalla forma rigorosa, che lascia che sia l’esplosività delle cose narrate a fare effetto sul lettore, a rendere l’idea di un periodo storico confuso, in cui alcuni cercavano di afferrare la coda di un sogno che sembrava così vicino e che invece stava sfuggendo via.

* La voce ha tra i suoi principali autori quel tizio che pensa che “Piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale” come citazione in esergo alla pagina wiki su Porco Rosso potrebbe offendere qualcuno (in effetti sì: i fascisti. Ma anche i maiali). Lo stesso utente infesta un po’ tutte le voci legate ai personaggi di queste vicende. 

2 commenti

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2 risposte a “La guerra non era finita – recensione

  1. torgul

    Non tutte le armi furono consegnate.
    Ricorda la camionetta sotto la chiesa…
    :D

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