Settembre è stato un mese in cui, non so bene perché, forse perché mi sono capitati tra le mani libri parecchio svelti, ho letto parecchio. Per questo ci ho messo un po’ a finire il post. Ma ce l’ho fatta.
Intanto, ho finito The Stand, di Stephen King, il romanzo in Italia noto come “L’ombra dello scorpione”. Un titolo enigmatico, quello italiano, che chissà da dove è saltato fuori (il titolo inglese significa più o meno “La resistenza”; in spagnolo e portoghese si chiama “La danza della morte”, in francese “L’epidemia” e in tedesco “The stand”) e che batte persino “Una splendida festa di morte” (titolo italiano della prima edizione di “The Shining”) come traduzione più casuale di un titolo kinghiano, visto che se non altro in Shining si fa cenno alle feste dell’Overlook e di morte ce n’è quanta se ne vuole. Di scorpioni e di ombre, invece, qui non ne ricordo.
Comunque, la storia la sanno pure i sassi, oggi: i militari sviluppano un super-virus, per un errore il virus sfugge di mano e stermina praticamente tutta la popolazione mondiale. In America, si fronteggiano due gruppi di sopravvissuti: i Buoni e i Kattivi. Benché il romanzo sia famoso per la presenza di Randall Flagg, il cattivo kinghiano per antonomasia, la parte davvero imperdibile è quella iniziale, in cui King avvolge le storie dei suoi personaggi attorno al diffondersi dell’epidemia e in cui descrive il progressivo sfascio della civiltà e della società così come le conosciamo. È un King pienamente a suo agio nel fare quello che sa fare meglio: raccontare le vite di gente normale, costruire personaggi un pezzettino alla volta, creare scene apparentemente normali in cui si inseriscono piccoli elementi disturbanti. Una menzione particolare per l’heinleiniano professor Bateman. Anche il capitolo in cui entra in scena Flagg è un capolavoro di scrittura e narrazione.
Poi, però, si formano queste due benedette comunità, i Buoni e i Kattivi, e la noia inizia a scorrere sovrana. Tra l’altro il finale è (letteralmente) un terrificante deus ex machina, e non ci capisce nemmeno bene che utilità abbia la spedizione della delegazione dei buoni a Las Vegas, visto che è del tutto ininfluente su quanto succede (nonostante sia stata “ordinata” dall’alto). E purtroppo Flagg, alla fine dei conti, è un super-cattivo allo stesso livello di inettitudine di Voldemort.
Boh, davvero boh. Se fosse tutto bello come la prima parte, sarebbe un capolavoro assurdo. Lo scontro tra il Bene e il Male (nei termini in cui è raccontato, poi!) lo rende invece un mattonazzo pazzesco nella seconda metà. Tra l’altro, la versione attuale è un’espansione pubblicata alla fine degli anni 80 dell’originale pubblicato dieci anni prima (che a quanto ho capito si dilungava meno sull’espansione dell’epidemia – che è appunto la parte migliore) e la vicenda che prima si svolgeva all’inizio degli anni 80 adesso si svolge all’inizio degli anni 90. Purtroppo il lavoro di aggiornamento dei riferimenti culturali e temporali non è stato particolarmente curato e i personaggi escono da degli anni 80 che assomigliano terribilmente agli anni 70.
Mentre leggevo mi domandavo come suonasse “Baby can you dig your man?”, il successo di Larry Underwood. Ho scoperto che è stata registrata da Al Kooper per una miniserie tv tratta dal libro:
(ah, per chi non lo sapesse, The Stand è stata una delle fonti di ispirazione per diversi elementi di Lost; purtroppo anche nell’avere un finale non all’altezza di tutto ciò che è stato costruito prima)
Nella prefazione, King dice tra l’altro che Larry Underwood se lo immagina interpretato da Bruce Springsteen. Poi come epigrafe ci sono dei versi di “Jungleland”.
La cosa non mi sorprende più di tanto, perché ho sempre pensato che tra King e Springsteen ci sia una qualche forma di affinità, al di là del fatto che lo scrittore sia dichiaratamente un fan del musicista. Mi sembra infatti che in qualche modo raccontino delle storie simili, abbiano uno sguardo simile sull’America, anche se declinato in forme diverse.
Ma questo è un argomento su cui sicuramente potrebbe dire qualcosa di sensato, prima o poi, Gianluca Morozzi, che non solo è uno scrittore di evidente fede kinghiana, ma è anche un enorme fan di Springsteen, come racconta in Nato per rincorre (Castelvecchi), dove ricostruisce gli avvenimenti legati ai cinquanta concerti del Boss a cui ha assistito. Che il mondo degli springsteeniani fosse popolato di personaggi al limite della monomania lo sospettavo; ma in realtà è commovente pensare a questa gente che si fa dei mazzi tanti per andare a seguire a volte anche interi tour in giro per mezza Europa. E in fondo, da quello che si vede dai vede e si sente dire in giro, il gioco vale decisamente la candela e solitamente Bruce non è uno di quelli che fa rimpiangere il prezzo del biglietto (quando suonò a Genova, allo stadio di Marassi, un amico mi raccontò così il concerto: “sembrava che avessero preso uno che stava nel carcere lì di fianco da vent’anni e gli avessero detto che aveva tre ore per fare un concerto e poi lo risbattevano dentro per tutta la vita”). Morozzi, con la scusa dei concerti, un po’ ricostruisce la carriera di Springsteen e un po’ racconta la sua, variando forme e stili (c’è anche una scaletta da ricostruire indovinando le canzoni dall’argomento del testo) e riuscendo nella non semplice impresa di non annoiare anche chi come me non è che conosca a menadito l’opera omnia del Boss.
È riuscito invece non solo ad annoiarmi fa a farmi pensare più di una volta “ma come diavolo hanno fatto a pubblicare una roba del genere?” Il ragazzo dai capelli rossi, di Piergiorgio Di Cara (Perdisa), credo uno dei libri più brutti che mi siano capitati tra le mani negli ultimi anni. Di Cara me lo ricordavo per un bel poliziesco, “Isola nera” (e/0), in cui a un certo punto due personaggi, il poliziotto “buono” e quello più spiccio spiegavano le loro differenze dicendo che uno preferiva Ken Parker e l’altro Tex. Così quando ho visto che aveva scritto questo libriccino western mi sono detto che doveva essere uno che comunque il genere lo frequentava e poteva essere divertente.
I was wrong.
I was oh so fuckin’ wrong.
La storia è di quelle da manuale: un ragazzo orfano (incredibilmente buono e tanto bravo a sparare) abbandona il paesello natale dove ha vissuto amato da tutti e va nella città più grande a fare non si sa bene cosa. Là incontra tutta una serie di funzioni narrative con attaccati dei nomi, fino a che non si invischia in un casino con un tizio malvagio che è amico di quello che ha ucciso il padre. Lo uccide e torna a vivere nel paesello natale.
Detta così, potrebbe anche funzionare. Il problema è che tutto il libro ha un’ingenuità che poteva essere giustificabile in un fumetto per ragazzi del 1956, ma che oggi sembra solo sciatteria. I dialoghi, per esempio, che oscillano tra riferimenti western ISO9000 (“Quel bastardo mi ha preso alla sprovvista! Se non fosse stato così ora sarebbe sotto un metro alla Boot Hill!” … “Questa è la mia città e non accetto ordini da nessuno”) e Maccio Capatonda (“Non dire niente, hai il cuore gravato da un malessere” … “Il giorno in cui mio padre fu ucciso, il fratellastro si presentò alla fattoria. Mi legò in una stanza e mia mamma… mia mamma fu violentata. Io però riuscii a liberarmi e lo uccisi. Gli tagliai la gola con il rasoio di papà” “Caspita, sei un vero pericolo ragazzo mio!”), quando non sono scuse per rigugirgitare sul lettore informazioni che potevano essere passate in altro modo.
Se non altro, è un libro breve, quello sì. Ma sembra un’esercitazione da corso di editing, di quelle in cui ti danno un testo su cui lavorare.
Vabbeh, amen, è un libro brutto. Succede.
Però, tanto per restare sul “ma chi me l’ha fatto fare”, Il cimitero di Praga (Bompiani) è il primo romanzo di Umberto Eco che non mi piace neanche un po’. E lo dice uno che ha trovato molto bello “L’isola del giorno prima”. Ma questo no. Inizia che è già mediamente noioso, però con i romanzi di Eco sai che le prime 100 pagine sono “whimps and posers leave the hall”, sono sempre un ostacolo. Ma invece la storia di questo über-falsario ottocentesco implicato in tutti i complotti del mondo occidentale dell’epoca è solo una lunga messa in fila di scenette, nozioni ed eventi di cui mentre scrivo fatico a ricordare qualcosa. Aneddoti buoni per fare conversazione, ma comunque niente di troppo nuovo se si bazzica il genere. Mentre leggevo mi veniva da pensare che invece che un romanzo avrebbe potuto scrivere un bel saggio divulgativo sul tema dei falsi e sulla loro capacità di influenzare il reale e diventare qualcosa di diverso. Poi però mi sono reso conto che è un libro che qualcuno ha già scritto e che ho già letto tempo fa: si chiama “Sarà vero“, l’autore è Errico Buonanno e l’ha pubblicato Einaudi. È tempo speso decisamente meglio del libro di Eco.
Gioca in qualche modo con il tema dell’impostura e della costruzione del reale anche I.N.R.I. di Michael Moorcock (Urania Collezione), in cui grazie a una macchina del tempo uno studioso del ventesimo secolo finisce in Palestina alla ricerca di Gesù Cristo. È una storia che si può raccontare in tanti modi, con sensibilità diverse, e Moorcock ha usato il pretesto fantastico per avere modo di approfondire il discorso sulla religione e il suo ruolo nella vita delle persone e nella società. Il suo protagonista infatti è uno psicotico, afflitto da sensi di colpa che trova innati nel suo essere ebreo, e molte pagine raccontano della sua vita, alternata al suo soggiorno presso la setta degli Esseni e al suo incontro con Giovanni Battista. La quarta di copertina racconta senza remore come finisce il libro, ma forse in effetti non è tanto importante sapere che sarà il viaggiatore del tempo a finire crocifisso al posto di Gesù, quanto piuttosto capire perché questi lasci che accada.
Solo una nota sull’edizione: Urania Collezione era nata come collana che ripubblicava testi storici apparsi su Urania o in altre collane di fantascienza in edizioni aggiornate, eventualmente reintegrate di parti all’epoca tagliate (succedeva per questioni di foliazione e succede ancora) e con traduzioni se non nuove quanto meno “rinfrescate”, come si dice in gergo. Da un lato quindi è stata un’ottima cosa avere recuperato questo testo poco conosciuto e pubblicato in Italia; dall’altro la traduzione, polverosissima, ha tutta l’aria di essere la stessa uscita nel 1976, firmata da un misterioso “Tebaldo del Tanaro”.
Piccolo intervallo dedicato alla saggistica.
Ho letto, ormai tardissimo, La coda lunga di Chris Anderson (Codice), il saggio che ha coniato la fortunata espressione con cui ci si riferisce al fenomeno per cui i negozi on line come Amazon o iTunes riescono a trarre profitti non solo dai (pochi) prodotti che vendono di più ma anche dai (tanti) prodotti che vendono di meno. È un fenomeno che, in brutale sintesi, si spiega con la riduzione, quasi l’eliminazione nel caso di file, dei costi di stoccaggio che permettono così di lavorare con cataloghi impensabili per negozi fisici (nel caso di Amazon, si spiega anche con il fatto che molti editori piccoli lavorano con il print on demand – e anche che pare tendano a risparmiare sulla gestione dei magazzini). Anderson spiega il tutto avvalendosi di un bel po’ di documentazione, dati e tabelle, tracciando un’affascinante storia del commercio digitale; forse la tira un po’ troppo per le lunghe, accumulando esempi e case history anche dopo che la sua teoria è chiara, ma questo è un difetto che ho trovato in molti testi americani del genere, che applicano un approccio molto show don’t tell. Letto oggi, quando i concetti che esprime sono ormai dati per scontati, finisce per essere un po’ noioso. Però resta un testo importante per capire le dinamiche dell’industria culturale di questi anni.
Se Anderson parla di qualcosa in divenire, La ferita, di Marco Imarisio (Feltrinelli) racconta la storia di qualcosa che è nato, sembrava destinato a grandi cose, e poi è andato a gambe all’aria, vale a dire il movimento “no global” italiano. Non è strettamente un libro sul G8 genovese, anche se ovviamente le vicende del luglio del 2001 e i loro risvolti giudiziari hanno un ruolo molto importante, ma parte da prima e si ferma praticamente alle soglie della Val di Susa, passando per tutti i grandi eventi che hanno segnato la storia dei movimenti e il loro rapporto con la sinistra dopo il 2001. Imarisio, inviato del Corriere della Sera, ha ovviamente una posizione “moderata” e pur riconoscendo la gravità del comportamento di Stato e forze dell’ordine a Genova (con pagine anche piuttosto dure, in cui si chiede per esempio perché nessuno abbia mai sentito di dover indagare sul perché il famoso battaglione di Carabinieri caricò il corteo in via Tolemaide senza aver ricevuto alcun ordine o senza che il corteo avesse deviato dal percorso), ma allo stesso è molto critico e severo con diverse scelte del movimento e dei suoi esponenti (dalla “dichiarazione di guerra ai potenti della terra” prima del G8 al letame scaricato davanti alla casa romana di Berlusconi). Dalla sua, ha una buona documentazione e anni di frequentazione da cronista dell’ambiente, che rendono il suo resoconto interessante anche nelle parti dove la presa di distanza dalle cose narrate l’ho trovata poco condivisibile. E comunque è interessante leggere un punto di vista non “militante”, perché un punto di vista differente sulle cose non fa mai male.
Le parti dedicate a Genova 2001 sono ovviamente le più potenti del libro: fanno paura e rabbia e ribrezzo. Anche dieci anni dopo, anche dopo che ormai hai letto mille volte delle cariche, dei pestaggi, delle umiliazioni. È quella la ferita che, anche per chi ha avuto la fortuna di non essere lì, non si richiuderà mai.
Ok, fine del momento serio.
Ma fine sul serio. Non so se avete mai visto “The Gamers“: è un film amatoriale (anzi due, c’è anche il seguito) che racconta un’avventura a Dungeons&Dragons mostrando sia i giocatori attorno al tavolo sia i loro personaggi in azione. Ecco l’inizio, con i sottotitoli:
The Gamers di solito fa abbastanza ridere i giocatori di ruolo perché è praticamente un documentario di sir David Attenborough – c’è un mio amico che lo sa tipo a memoria e credo che non abbia dovuto fare un grande sforzo perché per esempio abbiamo fatto o visto fare più o meno tutto quello che succede nel film, giocando.
A me è tornato in mente dopo aver letto The Kobold Wizard’s Dildo of Enlightment +2 di Carlton Mellick III (Eraserhead Press), che racconta di un gruppo di avventurieri che scopre di essere solamente dei personaggi controllati da dei ragazzini che stanno giocando a Dungeons&Dragons (il titolo fornisce un indizio su come lo scoprono); ragazzini che, avendo tipo 12-13 anni, usano il gioco di ruolo per raccontarsi un sacco di porcate (conosco il problema: ricordo che attorno attorno a quell’età durante una partita si era decretato che i goblin avessero tre cazzi). Il romanzo è gioiosamente volgare, pieno di mostri con erezioni spaventose, avventuriere nude senza alcun motivo, scene di sesso interspecie tra più o meno qualsiasi cosa possiate trovare nel Monster Manual e trovate cretinissime come il beholder che usa i suoi numerosi occhi per guardare più film porno contemporaneamente ma non avendo le mani non può masturbarsi. Ci sono anche degli orchetti che ascoltano death metal. E le schede dei personaggi, giocanti e non. E le mappe del dungeon (una viene dal modulo B3, “Il castello della principessa d’argento“, la prima a cui abbia mai giocato). E i disegnini fatti dai giocatori durante la partita che aiutano a visualizzare meglio certi dettagli. E la copertina è fatta come quelle dei vecchi moduli di D&D. Insomma, è un romanzo per giocatori di ruolo. Giocatori di ruolo che hanno voglia di un po’ di umorismo becero ed efficace (poi in realtà c’è pure una sottotrama sentimentale che non è nemmeno gestita male, ma nel contesto generale può perdersi un pochino), che non rimarranno certo delusi. Tutti gli altri magari prima ci pensino bene.
Un altro libro “strano” è B come birra, l’ultima fatica di Tom Robbins (Baldini & Castoldi Dalai), uno strano esempio di libro per bambini che si propone di spiegare loro che cosa è la birra e perché ai grandi piace tanto. In realtà, è anche un libro per adulti che spiega la birra come si spiegherebbe ai bambini. Comunque, è un libro che parla della birra scritto da Robbins e questo dovrebbe bastare. Non è che sia un’opera trascendentale: il proverbiale stile pirotecnico di Robbins è tenuto a freno e si limita a qualche zampata qua e là. Ed è un libro molto corto, che l’edizione italiana ha “gonfiato” mettendo una riga bianca tra ogni paragrafo (tipo dell’HTML formattato male). È un po’ come una birra chiara piccola: è buona, rinfrescante ma finisce troppo in fretta e ti fa venire voglia di altra birra.
Altra birra che, in questo caso, è Natura morta con picchio, romanzo sempre di Robbins, sempre BCD, ma pubblicato nel 1980. Qui il famoso stile pirotecnico di Robbins c’è. Anzi. C’è persino troppo. Mentre “Coscine di pollo” mi è sembrato un meraviglioso spettacolo di fuochi, colorato, rumoroso e costruito con un ritmo impeccabile, qui è come se il camion che trasportava i razzi si fosse ribaltato per strada e fosse esploso tutto allo stesso tempo. La storia d’amore di Picchio (bombarolo) e la principessa di una casata decaduta è raccontata in mezzo a un tripudio di immagini verbali che assediano e soffocano la storia come i rovi di more il giardino del padre di lei. Non è certo brutto (tra l’altro Robbins riesce a scrivere pagine molto sensuali), però fatico a considerarlo, come letto altrove, un “classico della comicità”: mi sembra una tappa sulla strada dell’arrivo alla felice fusione di tecnica e narrazione di “Coscine di pollo” o “Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi” (ma devo ancora leggere i libri precedenti a questo, magari è questo è che una deviazione dalla “norma”; sono ansioso di scoprirlo).
Ci siete ancora? Abbiamo quasi finito e per finire ci sono i gialli italiani.
Il primo, Morte in lista d’attesa di Veit Heinichen (e/o), non è proprio italiano perché il suo autore è tedesco; ma Heinichen vive in Italia e la storia è ambientata a Trieste, facendone uno dei rappresentanti di quel “noir” geolocalizzato che tanto ha solleticato gli editori dopo il successo di Montalbano. Anche qui il protagonista è un poliziotto, a cui piace la buona tavola, scorbutico il giusto e che riesce a vivere in un posto molto più bello di quello che gli garantirebbe il suo stipendio. Il romanzo si apre con il pretesto di una visita di Berlusconi a Trieste per un meeting internazionale, ma in realtà la pista politica è un falso indizio per il lettore, che si trova catapultato in una storia di trapianti clandestini (di cui usufruiscono, certo, ricchi e potenti ai danni di poveracci). Però, al di là dei necessari cliché del genere, il romanzo è fatto abbastanza bene ed è un lavoro onesto. Forse la cosa che resta impressa di più, però, è Trieste.
E per finire, I materiali del killer, di Gianni Biondillo (Guanda), che segna finalmente il ritorno in scena da protagonista dell’ispettore Michele Ferraro, dopo che gli altri romanzi dell’autore avevano raccontato storie di altri personaggi del microcosmo a cui aveva dato vita “Per cosa si uccide“. Biondillo è uno che scrive bene; non amo tantissimo quando si mette a scrivere dal punto di vista di una sveglia, ma comunque ha un modo di raccontare efficace e avvolgente. E sa costruire dei personaggi che sembrano molto poco “scritti”, con i loro spigoli e le loro imperfezioni, così come sa raccontare storie ambientate nell’Italia di oggi (e nel mondo che la circonda) che non suonano false o retoriche.
Tutti ingredienti che ritornano in questo romanzo che racconta la caccia a un evaso, un africano sparito dopo l’assalto dei suoi complici all’ambulanza che lo stava portando dal carcere all’ospedale. Una ricerca doppia, non solo dell’uomo in fuga per l’Italia ma anche della sua vera identità; mentre il povero Ferrara deve vedersela anche con il ritorno di un vecchio amore, con la figlia che cresce, con il tempo che passa inesorabile. È la solita combinazione di storia poliziesca e sviluppo dei personaggi che cercano di usare più o meno tutti quelli che vogliono scrivere storie seriali di questo tipo: Biondillo però riesce a combinare bene le due parti, senza neanche cedere alla tentazione di spettacolizzare troppo una trama quasi da thriller. È una storia che sembra plausibile perché è quasi minima, senza azioni di polizia da grande film americano che nella realtà non esistono. Anche la parte dei flashback africani, che racconta cose tutt’altro che amene, è gestita con stile e pacatezza, riuscendo forse a far risaltare ancora di più la sua brutalità.
Che dire? È un altro bel romanzo di un autore che finora mi ha difficilmente deluso, sia nella narrativa sia nella saggistica. Speriamo di averne altri presto.
(3502 parole; this one was a bitch, direbbe George R.R. Martin)
Bel report. Dovrei farlo anch’io… ma oh… oltre 3000 parole? ‘azz!
(L’hai letto “Il nuovo sesso:Cowgirl (Even Cowgirls Get the Blues)”? Insieme a Coscine di pollo è il più bel libro di Robbins che ho in libreria.)
Mi son segnato quella robazza sui gdr, anche se non so proprio quando riuscirà a leggerla/vederla…
Cowgirls lo sto leggendo proprio da un paio di giorni :)
Grazie, di cuore.
grazie a te!