
Viaggio nuovo, Cthulhu nuovo
Buonasera e benvenuti al primo episodio di un nuovo resoconto di viaggio di Buoni Presagi, quella cosa che inizia con i migliori auspici, poi a marzo sono ancora a raccontare i primi sei giorni di viaggio e ce la do su. Potete ammirare tutti quelli rimasti incompleti e quelli completi nell’apposita categoria del blog.
Quest’anno, dopo tanti tentennamenti, ci siamo decisi a prendere il toro per le corna e fare rotta sul Cile. Il lunghissimo paese sudamericano è da sempre la meta dei sogni di Lucilla; nell’impossibilità di fare un unico viaggio lunghissimo, e in quella di andarci nel periodo migliore per visitare il sud – cioè l’estate australe –, a causa delle politiche sulle ferie dei posti dove lavoriamo, intanto abbiamo fatto quello che si poteva ad agosto nell’emisfero australe.
Vale a dire: Santiago, Valparaiso, il deserto di Atacama e l’Isola di Pasqua. Perché una volta che sei lì che fai? Non vai all’Isola di Pasqua?

THIS.
Il viaggio di andata è una cosa piuttosto semplice: volo da Roma a Sao Paolo, che non presenta particolari eventi. Facciamo le cose che si fanno in volo: sonnecchiamo, leggiamo, guardiamo film mediamente brutti.
Il primo momento buffo è quando arriviamo a Sao Paolo, perché non abbiamo la carta di imbarco per il volo verso Santiago (a Fiumicino non sono riusciti a stamparla). Ma, sorpresa, all’uscita del finger c’è una simpatica hostess che ci porge le carte, stampate su apposita carta velina (una speciale, con un apposito trattamento che la rende ultra vulnerabile dal ph della pelle umana e che producono apposta per le compagnie aeree). Poi, come se nulla fosse, attacca a parlarci velocissima in brasiliano stretto. Per fortuna sono genovese e si sa che il portoghese e il genovese sono molto simili, così capisco che ci sta chiedendo che cosa aspettiamo a comprare il frigorifero, cosa aspettiamo, l’inverno? Che quello serve d’estate, ci metti dentro le birre per quando vengono a trovarti gli amici e sono morti di sete e sudati. Ma forse capisco male, perché in effetti siamo già in inverno.
Comunque troviamo lo stesso il gate e, nell’attesa, io mi mangio un pao de queijo, che mi sembra brutto non mangiare niente in un Paese in cui non sono mai stato, anche se solo all’aeroporto.
Altre ore di volo che trascorro in coma (il mio appunto recita appunto 4h di coma e non ho alcuna memoria del volo) e, finalmente, Santiago.
Dopo la delusione dell’anno prima, quando in Canada per via della procedura totalmente informatizzata di immigrazione nessuno ci ha timbrato il passaporto, qui i solerti Carabineros – con quelle stesse divise che avete visto in tutti documentari sul golpe del 1973 – non solo ci timbrano il passaporto, ma ci danno pure un foglietto stampato, all’apparenza uno scontrino, che è di fatto il nostro visto e che non va perso per nessun motivo.
Serenità.
Recuperato il tassista che ci aspetta per portarci in albergo, tocchiamo il letto in piena notte, circa 24 ore dopo avere chiuso la porta di casa.
Il mattino dopo, espletata la pratica “colazione in albergo” (cioè un pasto di diciotto portate, come tutti quelli che a casa mangiano due fette biscottate al volo), partiamo per le vie del centro di Santiago.
La prima cosa che notiamo, dopo pochissimi minuti, è la quantità incredibile di moto in circolazione. Immaginatevi una città dove circolano molti motorini, tipo Genova o Roma, e sostituite gli scooter con delle moto. Una foto scattata da Lucilla, in una strada a caso del centro, per capire di che cosa parliamo.
La risposta alla domanda “ma perché sono così diffuse?” ce la fornirà, giorni dopo in una pizzeria di San Pedro de Atacama, un ragazzo di Santiago: la moto è resa necessaria dalla qualità delle strade cittadine, tra buche e altro. Va detto che le strade di Santiago sembravano assolutamente a posto (e come scoprirete più avanti a un certo punto abbiamo fatto un bel giro per le strade della capitale). Forse si tratta di un’abitudine nata in passato e poi rimasta? A ogni modo, Santiago paradiso del motociclista.
La prima tappa della giornata è il palazzo presidenziale, La Moneda. Quello, per intenderci, che fu bombardato l’11 settembre del 1973 durante il colpo di Stato e nel quale morì suicida Salvator Allende (sparandosi con l’AK47 che gli era stato regalato da Fidel Castro). Oggi Allende è ricordato nella piazza su cui si affaccia il palazzo con una statua, di fronte al Ministero di Giustizia e dei diritti umani.
Noi, casualmente, arriviamo proprio mentre è in corso un lungo e complicato cambio della guardia dei Carabineros, il genere di cose che è bene far fare alla gente in divisa per tenerla impegnata e non pensare troppo ai colpi di stato. È tutta una roba di marcette, passi, fanfare, ecc ecc, alla quale assistono alcuni cani, di media taglia, che se ne stanno sdraiati placidi tra le zampe dei cavalli. Alcuni hanno dei cappottini e sulle prime non capiamo bene se facciano parte delle forze dell’ordine o no.
Per farla breve, no.
Come abbiamo scoperto nel corso della giornata e dei giorni seguenti, le strade delle città cilene ospitano un numero incredibilmente alto (si parla di oltre 2,5 milioni) di cani randagi.
Sono animali ben tenuti, accuditi per quanto possibile dalla popolazione, che quando può li dota di coperte, rifugi, cibo. Sono mediamente puliti e in buona salute, decisamente amichevoli.
Il nostro giro prosegue per Plaza de Armas, che fu il primo nucleo della città, fondata del 1541 dal conquistador Pedro de Valdivia. Poco dopo la fondazione, l’11 settembre dello stesso anno, Santiago fu attaccata dagli indios locali, i Mapuche, guidati da Michimalonco. La difesa della città, in assenza di Valdivia, fu affidata a una donna, Inés Suárez (un personaggio molto interessante), che era giunta nel Nuovo Mondo alla ricerca del marito di cui non aveva più notizie. Il marito era morto, ma lei era rimasta e aveva conosciuto Valdivia, con cui aveva intrecciato una relazione. Nell’assedio, gli spagnoli erano in nettissima minoranza numerica e ben presto finirono asserragliati in quella che oggi è l’area della piazza. Per giocarsi il tutto per tutto, Inés diede ordine di decapitare i sette capi mapuche che erano ostaggi degli spagnoli e lanciare le loro teste sugli assedianti prima di tentare un’ultima sortita. Secondo le cronache dell’epoca fu lei stessa la prima a decapitare uno degli ostaggi e secondo gli stessi indios fu solo grazie “a una donna su un cavallo bianco” se gli spagnoli riuscirono a ricacciarli indietro abbastanza a lungo da poter resistere fino all’arrivo di Valdivia con truppe fresche per rompere l’assedio (anche se la città era ormai stata rasa al suolo).
Purtroppo ho scoperto tutto questo con calma dopo, altrimenti avrei provato ad annoiare con questa storia Lucilla, che ha un particolare modo di trovare tediosa qualunque storia coloniale raccontata dai me, dai tempi in cui ho provato a farla appassionare alle origini olandesi di New York.
Comunque, è da Plaza de Armas che si misura tutte le distanze da Santiago in Cile. Un dischetto accanto a una fontana segna il punto esatto, mentre se vi piace vedere giocare a scacchi c’è un attivissimo club che si riunisce su uno dei lati della piazza.
Ripartiti, facciamo una passeggiata fino al Mercado Central e da lì varchiamo il triste fiume che costeggia il centro per dirigerci verso il Barrio Bellavista, dove si trova una delle case di Pablo Neruda, la Chascona. Per la casa è giorno di chiusura, ma il quartiere, vivace e colorato, è piacevole per passeggiare, con le sue case coperte di graffiti e i suoi locali. La parte di fronte al mercato, invece, offre uno sguardo sulla parte meno turistica e pittoresca di Santiago. C’è qualcosa di stranamente post-sovietico nelle parti meno belle della città.
Per pranzo torniamo al Mercado, dove si trovano un evitabile ristorantone turistico al centro e tanti piccoli ristorantini, praticamente la cucina dei vari banchi del pesce, nelle corsie laterali. Mangiamo pesce e una zuppa di gigantesche cozze e altra roba di mare (dal nome ingannevole di paella). È un po’ il tipico posto dove in Italia non metteresti mai piede, ma in cui quando sei in vacanza ti fiondi a capofitto. Comunque sono tutti gentilissimi, il pesce è buono e fresco, la birra pure…
Dopo esserci rimessi in viaggio, prendiamo la metro verso la prossima tappa: IL CIMITERO.
Quello che ci interessa sono due cose, principalmente: il memoriale dei desaparecidos e delle vittime della dittatura e la tomba di Allende.
Troviamo senza grossi problemi entrambi: il primo è una gigantesca lapide di marmo, con su incisi i nomi di chi è scomparso e di chi è stato ucciso a partire dall’11 settembre 1973. Ai suoi piedi, sulle rocce sono stati creati negli anni tanti piccoli altarini da parte di chi non ha mai avuto un corpo da seppellire, una lapide su cui piangere. Ai lati del monumento sono stati predisposti loculi per quei corpi che si fossero riusciti a trovare; al momento, solo pochissimi sono occupati. Come in una metafora sin troppo facile, molti dei piccoli altari privati sono ormai abbandonati, le fotografie svanite o illeggibili.
La tomba di Allende è un grande doppio monolito, sotto al quale si trova la cripta dove riposano i suoi resti insieme a quelli della moglie. Si trova in una zona del cimitero caratterizzata da sontuosi mausolei, a volte persino stravaganti, come il tempio-piramide precolombiano che si trova giusto di fianco alla sua. Ci sono due crocifissi, nel cimitero di Santiago (che ospita oltre 2 milioni di defunti): uno nella zona dei meno abbienti, con tombe più semplici, è noto come il Cristo Povero. Quello di questa parte invece è il Cristo Ricco.
Ma la sorpresa più interessante del cimitero è una tomba tra le due, poco prima del titanico “condominio” che ospita gli italiani.
Una tomba che si presenta così:
Ex voto, pupazzi, peluche, giocattoli e palloncini impediscono quasi di vedere la tomba vera e propria. Donne e uomini si raccolgono, con commozione, in preghiera qui davanti. Di che si tratta?
Della tomba di una bambina, trasformata in quella che in Cile viene chiamata animita e che noi chiameremmo “santuario” (però un santuario spontaneo).
Chiedete e probabilmente vi racconteranno che lì è sepolta Carmen, secondo alcuni una bambina di 9 anni violentata e uccisa nel 1949, secondo altri una 15enne uccisa dai genitori che avevano scoperto la sua relazione con un contadino. Probabilmente per la sua posizione abbastanza vicina all’ingresso del cimitero, la sua tomba è diventata un luogo di culto e le si attribuiscono miracoli, come a una santa.
Però, se andate a fare una ricerca sui registri del cimitero scoprirete un’altra storia. Carmen era il nome d’arte di una giovane arrivata a Santiago durante la crisi degli anni Trenta, Margarita del Carmen Cañas, e presto costretta a prostituirsi per la mancanza di lavoro. Dopo quattordici anni di “vita” incontrò un uomo ricco, che abbandonò la moglie e i figli per lei. Poco dopo, però, lei si ammala e muore, nel 1949. È tutto così improvviso che non c’è tempo per preparare una tomba in grande stile e lei viene seppellita semplicemente nella terra (anche se non è ben chiaro perché non sia stata seppellita nella cappella di famiglia di lui – forse perché comunque la macchia della prostituzione era troppo forte). Quando il suo amato morì, non rimase nessuno a prendersi cura della sua semplice tomba, che rapidamente finì in rovina. Fu allora che un guardiano del cimitero, forse mosso a compassione, ebbe un’idea degna di una canzone di De Andrè: mise un salvadanaio sulla tomba e un cartello che spiegava che quella era la tomba di una bambina orfana violentata e uccisa, che rischiava di essere esumata e portata all’ossario perché nessuno pagava più l’affitto del campo.
Non ho ben capito se l’avesse fatto a scopo di lucro o perché davvero volesse salvare la tomba della ragazza; fatto che sta che prima che l’amministrazione se ne rendesse conto e lo licenziasse (il che fa pensare che i soldi se li intascasse lui), la tomba di Carmencita era diventata un luogo di culto, complice anche l’azzeccata scritta sulla tomba: “Tu che passi. Ricompensami e lascia sulla mia tomba un fiore, pregherò Dio per il tuo destino e amore”.
Se volete, senza andare a Santiago, un esempio di quando questa devozione sia forte, date un’occhiata ai commenti a questo post, di debunking: è pieno di ringraziamenti e preghiere a Carmencita.
L’animita di Carmencita potete vederla in due modi: potete vedere solamente l’idolatria cieca che ignora la realtà oggettiva oppure, facendo un passo di lato, ammirare il potere straordinario delle storie, del modo in cui plasmano la realtà. È davvero così importante la Carmencita reale, di fronte alla Carmencita che per migliaia di persone esiste davvero? Questo, vi direbbe un mago moderno, è il genere di cose di cui è fatta la magia. Non fare volare persone, scomparire oggetti; quelle sono baracconate che al massimo ti portano a sposare la Schiffer. Ma se migliaia di persone credono in una bambina-martire che intercede con la divinità per conto delle persone, come possiamo dire che questa non sia in qualche misura reale?
È un po’ come quando a Central Park ho visto inscenare, senza alcuna consapevolezza della cosa, riti verso la figura di John Lennon, nel settore a lui dedicato. E il discorso è sempre quello: le divinità sono la forma che diamo a idee, a concetti, per entrare in comunicazione con quelle. Carmencita è l’innocenza perduta, l’ingiustizia; incidentalmente cose che si adattano sia a una bambina abusata e uccisa, sia a una giovane costretta a prostituirsi.
Che poi tutto questo nasca da uno che magari voleva solo tirare sue due spicci per arrotondare lo stipendio alle spalle dei gonzi, beh, è solo ancora più magico.
A ogni modo, dopo il cimitero torniamo verso Plaza de Armas, facciamo un sacco di giri per trovare un libro di Sepulveda che Lucilla sta cercando (io, un intellettuale, invece compro una raccolta di Condorito, personaggio a fumetti cileno nato, toh, nel 1949) e scopriamo che ci sono dei negozi in cui il processo di acquisto è vagamente macchinoso.
Funziona così; mettiamo che in un negozio “tutto a poco” (che ha articoli per la casa, giocattoli, cartoleria, ecc) vogliate comprare due tazze da mate che poi non userete mai (finora). Voi prendete l’oggetto, lo portate da una commessa che scansiona il codice a barre e vi stampa uno scontrino, con il quale vi recate da una seconda commessa a cui lasciate l’oggetto. Quindi andate alla cassa, dove pagate una terza commessa, la quale vi consegna una ricevuta che voi a vostra volta consegnate alla terza commessa, che finalmente vi dà le vostre tazze in un sacchetto (forse il primo passaggio si poteva fare da soli, ma noi da bravi gonzi eravamo andati dritti alla cassa).
Con una cena al ristorante di cucina tipica della Patagonia, nel quartierino ultra gentrificato vicino all’albergo si chiude la nostra prima giornata cilena.
Il risveglio del giorno dopo sarà uno dei più drammaticamente surreali delle nostre vite.