Il 14 agosto mi sono appena svegliato; è abbastanza presto perché abbiamo in programma di andare a prendere il pullman per Valparaiso e dobbiamo muoverci per tempo.
Sono ancora a letto che scorro la timeline di Facebook sull’iPhone e a un certo punto leggo che è crollato un ponte a Genova. “Ma che è ‘sto ponte Morandi?” mi chiedo. Sono nato e cresciuto a Genova ma non avevo mai saputo come si chiamasse il ponte dell’autostrada.
Lo scenario, come si vede dalle foto, è un misto di apocalisse e assurdità: sotto quella pioggia e quel cielo grigio che dovrebbe appartenere più all’inverno in cui mi trovo che non all’estate ligure, i frammenti del ponte crollati nel letto del Polcevera sembrano qualcosa uscito da un film a basso costo, che nasconde i limiti degli effetti speciali dietro alla scarsa visibilità.
Lucilla e io non riusciamo a crederci. Vedere la propria città (lei ci ha vissuto più di dieci anni e la considera “casa” come la considero “casa” io – inoltre, sotto quel ponte ci passava tutti i giorni, andando e tornando dal lavoro) perdere un pezzo così, mentre sei dall’altra parte del mondo, non è una cosa di tutti i giorni – per fortuna. Il passo successivo è quello del timore: nel crollo del ponte sarà rimasta coinvolta qualche persona che conosciamo? Mio padre sceglie il momento peggiore per decidere di non rispondere al telefono, ma poi lo fa (“ieri ci sono passato sei volte” mi dice). All’appello, alla fine, non manca nessuno.
Ovviamente, non a tutti è andata così bene.
Con questo peso sul cuore, partiamo verso Valparaiso.
La descrizione di Valparaiso la affideremo alla wikipedia ligure:
Valparaíso a l’è a çittæ portuâle ciû importante do Cile, capolêugo da region do mæximo nomme, inta costa de l’Oçeano Paciffico. A g’ha ‘na sûperfiçie de 401,6 km² e ‘na popolassion de 270.242 abitanti
Da Santiago ci si arriva comodamente con un’oretta di pullman. Vista la giornata, prima di salirci vorresti chiedere se ci sono dei ponti in autostrada e se li hanno controllati di recenti.
A Valparaiso ci si va per lo più perché è una pittoresca cittadina i cui quartieri si arrampicano sulle colline davanti al mare. Inoltre, alcuni di questi quartieri sono fatti di case coloratissime, spesso decorate da street art di ogni tipo.
Dalla stazione delle corriere, però, per arrivare a questi quartieri di interesse turistico o cammini (ma è lunga) oppure prendi l’autobus. La signorina delle informazioni turistiche ci consiglia proprio questo: “prendete il bus che va di là e arrivate fino a Plaza Sotomayor”.
(La piazza è intitolata a Rafael Sotomayor, che era nato il 13 settembre – la data in cui sto scrivendo questo post – del 1823 e fu ministro della guerra durante la guerra del Pacifico del 1879-1883, al termine della quale il Cile strappò alla Bolivia la regione di Atacama, togliendo ai vicini l’accesso al mare; una cosa per la quale ancora oggi pare che i boliviani siano parecchio risentiti)
Ora, prendere l’autobus è stata un’esperienza molto curiosa. Intanto perché non abbiamo capito molto bene come siano segnalate le fermate. Ci siamo messi dove c’era un sacco di gente che aspettava e abbiamo sperato che fosse il posto giusto. Poi, quando arriva l’autobus il biglietto si fa al conducente: si sale davanti, gli si dice a che fermata si vuole scendere, lui ti dice quanto spendi e ti fa salire. Gli autobus sono dei veicoli tutto sommato abbastanza piccoli e vecchi; ogni fila ha quattro sedili, divisi da un corridoio. Le fermate sono frequentissime e la porta davanti è quasi sempre aperta.
Dopo un paio di fermate, sale un tizio vestito come un clown triste. Un po’ di trucco in faccia, parrucca nera, maglietta a righe bianche e nere. Sale e inizia a parlare. Sulle prime penso che stia facendo la pubblicità a un circo; poi affino un po’ l’orecchio e mi rendo conto che sta facendo un monologo comico. Il tema, per quello che riesco a capire, è un o tempora o mores in stile Brignano: eh, e una volta i figli rispettavano i padri, le canzoni parlavano d’amore e ora invece tutti vogliono solo zomparsi qualcuna perché hanno i soldi e via così. Va avanti, riuscendo a non volare fuori dalla porta aperta, per un tempo che mi sembra infinito. Alla fine chiede dei soldi e, breve storia triste, nessuno glieli dà. Dopo che è sceso, sale un tizio che vende barrette tipo Mars.
In tutto questo, mi pare di capire che l’autista dell’autobus sia l’arbitro che decide chi può salire e chi no: nel bus che prenderemo al pomeriggio per tornare all’autostazione, un altro tizio conciato conciato da clown chiederà di salire e l’autista gli farà segno di no – mentre farà salire un altro che vende merendine. A suo modo, però, è bello e umano che gli autisti non si mettano di traverso a gente evidentemente meno fortunata di loro che cerca di tirare su due spicci.
Da Plaza Sotomayor, dopo avere cercato invano un ufficio di informazioni turistiche che non esiste nonostante sia segnalato, facciamo due passi nella città bassa e poi ci inerpichiamo su per una ripida salita che ci porta verso la città alta, le sue case colorate e i suoi graffiti.
Il clima ci regala una giornata praticamente di primavera, molto più calda della precedente a Santiago, e Valparaiso si rivela un posto davvero piacevole, dove ogni angolo offre scorci fotogenici. Sembra Genova, un po’; una Genova più colorata e più geograficamente aperta.
Gironzoliamo, facciamo foto, seguiamo le indicazioni per una casa di Neruda che non troviamo e allora ci infiliamo in altre strade; senza una meta particolare.
Finiamo a mangiare in un ristorante con una terrazza affacciata sul Pacifico e sul porto, con gabbiani e condor che svolazzano lì davanti.
Dopo pranzo torniamo verso Santiago, non prima di avere fotografato il teatro dove si sarebbe svolto uno degli eventi musicali di punta dell’inverno cileno (giuro, era pieno di manifesti per il concerto di Nicola Di Bari a Valparaiso) e avere notato il Palazzo del Congresso Nazionale cileno, completato nel 1987 per volere di Pinochet – da quello che dice la Lonely Planet non distante da dove si trovava la sua casa di infanzia.

Giovane poeta sul pullman
Tornati a Santiago, ne approfittiamo per fare ancora due passi nel grazioso quartiere di localini dietro all’albergo, mangiarci un paio di empanadas e berci una birra.
Vorremmo cenare sulla terrazza dell’albergo, dove c’è un locale molto in voga e con una bella vista. Così in voga che dopo venti minuti che siamo in camera ad aspettare che ci avvisino quando si libera un tavolo ci arrendiamo e andiamo a mangiare qualcosa fuori.
Finiamo in una tavola calda in stile giapponese, a mangiare takoyaki, gyoza e sushi, prima di tornare in camera e preparare il bagaglio per la nuova tappa del viaggio: il deserto di Atacama.