La prima volta che ho sentito parlare del deserto di Atacama era il 1992, nel secondo incontro tra Dylan Dog e Martin Mystère. La pagina qui sotto contiene una verità (è una delle zone più aride della Terra) che serve a far passare meglio una beffa: il Pisum alatum non esiste, ma è una specie inventata da Guido Nolitta (ovvero Sergio Bonelli) in un episodio di Zagor.
Cosa c’entra questo con il nostro viaggio? Quasi nulla, però è una bella coincidenza che il numero di pagina sia il 23, perché è il numero preferito di Lucilla, essendo la sua data di nascita.
Nella “divisione” delle zone del viaggio in Cile, il deserto di Atacama era un po’ di pertinenza di Lucilla, nel senso che è stata lei che, dopo che abbiamo prenotato i voli, un giorno mi ha mandato un messaggio con scritto: “Mi dai carta bianca per organizzare le escursioni nel deserto?”.
Lo sventurato rispose (positivamente) e, nel tempo che ci ho messo a rendermi conto che potevo essere stato imprudente, già Lucilla mi chiedeva di confermare il mio peso, il passaporto e i dati dell’assicurazione di viaggio. A quel punto ho preferito non sapere nulla di quello che ci avrebbe aspettato, almeno fino a che non saremmo stati sull’aereo per Calama, da cui poi si arriva a San Pedro de Atacama.
Quando l’ho scoperto, ho immediatamente rimosso l’informazione.
Un minibus diviso con altri sconosciuti ci porta dall’aeroporto di Calama fino a San Pedro de Atacama, lungo una strada quasi interamente diritta che taglia il deserto. Ai lati, la prima cosa che nota sono alcuni altari che sembrano quei ricordi che anche da noi si lasciano dove muore qualcuno in un incidente stradale, solo molto più elaborati. Alcuni sono quali delle piccole cappelle, con ceri, fiori, gagliardetti, magliette, oggetti personali. Sono animitas, un po’ come quella di Carmencita nel cimitero di Santiago, erette dove qualcuno è morto in un incidente stradale. In una c’è addirittura la macchina nella quale, presumo, è morta la persona a cui è dedicata. Sono riuscito a fotografarne una, abbastanza semplice, solo l’ultimo giorno, lungo la strada che da San Pedro arriva in Bolivia.
A San Pedro, preso possesso della stanza in un bella struttura un po’ fuori dal (per così dire) centro, andiamo all’agenzia con la quale abbiamo prenotato le escursioni per saldare e confermare tutto quanto.
Qui, finalmente, vengo messo davanti a quello che staremo per fare e che ho trovato giusto immortalare. Ci sono segnati i problemi che possiamo incontrare, l’ora di partenza, quella di ritorno, le minime previste e se ci danno la colazione (D) o il pranzo (A).
Il ragazzo al banco è molto gentile e sorridente, fino al momento di darci le indicazioni su come affrontare queste escursioni. Intanto, coprirsi. Il deserto di Atacama è sì un deserto, ma San Pedro sta a 2500 metri di altezza e come si sale di quota fa freddo, soprattutto prima che sorga il sole e durante la mattina. Quindi: giacca, guanti, cappello, scarpe da escursione o al massimo da ginnastica. Quando si sente in dovere di specificare “niente sandali o ciabatte” capiamo che evidentemente qualcuno che si presenta così devono averlo trovato. Altri consigli sono portarsi dietro sempre dell’acqua (avete mai fatto caso che all’estero hanno molto più presente di noi questa cosa dell’idratarsi abbastanza?), non bere superalcolici la sera prima e nemmeno mangiare carne rossa se si ha un’escursione la mattina presto, perché la digestione potrebbe affaticare troppo l’organismo. Rinfrancati da questi avvisi andiamo a mangiare un panino in attesa della nostra prima escursione – pomeridiana e a bassa quota.
Anzi, un “panone”, come avvisa nel menù il fast food cileno vicino all’ufficio dove lavoro. Il Cile, infatti, ha tra i piatti tradizionali una serie di panini extralarge il cui capostipite è il churrasco (la s è quasi muta), che vi presento di seguito e che è praticamente una focaccina piena di arrosto di manzo, salsa di avocado, maionese e pomodoro – in questa versione è detto “italiano”, non so se per via dei nostri connazionali emigrati in Cile o perché i colori della guarnizione sono quelli della nostra bandiera. Non ho ben capito quale sia la tecnica ufficiale per affrontare la bestia, ma io l’ho affettata a spicchi come un panettone gastronomico e mi sono trovato bene.

Praticamente, il bucket burger di Hitman.
Satolli di cibo, abbiamo comunque fatto in tempo ad avere un piccolo assaggio anche del centro di San Pedro, o meglio del pugno di vie nelle quali si concentra tutta la vita turistica e commerciale di quello che un tempo era un piccolo villaggio di minatori. Oggi, tra le stradine polverose dove sonnecchiano all’ombra gli immancabili cani di strada, si aggirano quasi solo turisti o viaggiatori e la scarpa più di moda è lo scarponcino da escursionista. Tutti, lo vedremo nei giorni seguenti e la sera, si sforzano per darsi un po’ quell’aria di chi ha appena attraversato il deserto. A piedi. Trascinando una bara. Carica di armi.
Così, partiamo finalmente per la nostra prima gita nel deserto e facciamo la conoscenza con Pablo, che sarà la nostra guida in tre delle quattro uscite totali. Sul minibus Pablo ci presenta l’autista, che è stato alla Parigi-Dakar. Mormorio ammirato, poi chiosa “lavava le auto degli altri piloti” (la battuta verrà riciclata anche per gli altri due autisti). Come scopro più tardi, dal 2009 la Parigi-Dakar non si chiama nemmeno più così (ma solo Rally Dakar) e si svolge in Sud America.
La compagnia è un gruppetto variegato, di cui ora ricordo però solo un ventenne americano dall’aria antipaticissimo che andava avanti a Red Bull, con il quale confinavo sul sedile in fondo, e la sua fidanzata, oltre a Nathalie, una ragazza indonesiana in viaggio da sola per il Cile, che ritroveremo non solo in un’altra escursione nel deserto ma persino, la settimana dopo, sull’Isola di Pasqua.
Visitiamo un canyon, veniamo portati in un punto panoramico da dove si possono osservare, quasi a 360°, le catene montuose che circondano il deserto e lo rendono così arido (perché intercettano tutte le precipitazioni). Sembra paradossale essere in un deserto e vedere la neve sulle montagne, ma tre giorni dopo sulla neve ci cammineremo addirittura.
C’è anche una tappa alle “caverne”, che proprio caverne non sono, ma solo un punto in cui una gola rocciosa si chiude quasi su se stessa. È un momento un po’ giocoso (a parte per la povera Natalie, che credo bestemmi i morti della guida sotto alla sua – poderosa – risata), che ha un po’ la funzione di prendere tempo in vista del pezzo forte dell’escursione, un grande classico di San Pedro de Atacama: il tramonto nella Valle della Luna.

SALUTI DA MARTE
Funziona così: dopo avere visitato quello che resta degli scavi del sale lungo le pareti delle montagne, ci si arrampica su un costone roccioso, e lì si aspetta che il sole cali dietro alle cime delle montagne. Da lì hai una panoramica completa di quello che succede, cioè che la luce dipinge le rocce e le montagne circostanti di tutti i colori più belli del mondo per un tempo che sembra infinito. Per venti minuti abbondanti, le rocce cambiano luminosità, colore, sfumature; è uno spettacolo che, dice Pablo, non è mai uguale e non stanca mai. Gli spazi sono giganteschi, le proporzioni e le distanze impensabili per un europeo. Una piccola selezione di foto non può fare giustizia a questo tramonto funambolico, ma almeno dovrebbe dare un’idea di che cosa stiamo parlando.
A ricordarci che siamo nel deserto, come il sole scompare la temperatura si abbassa piuttosto in fretta e se prima eravamo tranquillamente in maglietta (e anzi, faceva parecchio caldo), ora la giacca ci vuole proprio.
Il tragitto per tornare a San Pedro è breve, allietato (…) dalla musica andina che Pablo ama fare ascoltare in viaggio, e si svolge ormai nel buio più completo.
Finiamo a cenare di nuovo nello stesso posto dove abbiamo pranzato, interrogandoci su quali creature dovrebbero essere, di preciso, quelle pascolate nel quadro appeso alle nostre spalle.
Il tempo di uno shopping serale alla ricerca di guanti e un cappello per il giorno dopo (non io, che ho il mio fido cappello australiano) e poi via verso l’albergo.
Il mattino dopo ci verranno a prendere tra le 6.30 e le 7 per la nuova escursione, quindi c’è giusto il tempo di preparare la borsa e sprofondare nel letto a diciotto strati (la stanza non ha il riscaldamento).
Il giorno dopo ci attendono le orribili creature che hanno brutalizzato i miei 11 anni.
Gran bel post. Prima o poi vorrei tanto andarci anch’io.
Mi permetto un consiglio cinematografico particolarmente calzante: “Nostalgia de la luz”, di Patricio Guzmán. Uno dei documentari più belli, interessanti e dolorosi che abbia visto negli ultimi anni. Il deserto di atacama è sia setting che protagonista di una storia tanto particolare (perché riguarda la storia recente del Cile) quanto universale (anche nel senso di cosmico).
Secondo me potrebbe piacerti.
Ciao :)
Ciao! Grazie di avermelo ricordato, perché ne aveva parlato la guida nell’ultima escursione e me ne ero totalmente scordato. Ora lo metto in wishlist!
Ho adorato il Cile. Hai fatto praticamente lo stesso giro che ho fatto io. Sei stato anche a Humberstone?
No, purtroppo non siamo arrivati fino a lì. Nel deserto vorrei tornare (e anche nelle parti del Cile che non abbiamo visto), me lo segno!