
Saluti da Socaire
Prima che sorga il sole, San Pedro de Atacama già brulica di vita.
Se si pul definire “vita” il via vai di minivan che fanno la spola da un albergo all’altro a raccogliere i turisti. I più furbi aspettano il suono del clacson dentro, al calduccio delle loro stanze (qualcuno direttamente a letto, dove dorme ancora, e bisogna tornare a prenderlo dopo). Altri, invece, li vedi battere i piedi e i denti per il freddo fuori dal portone. Tipo noi.
Si sa come vanno queste cose. Ti dicono che passeranno a prenderti tra le 6.30 e le 7.10, quindi metti la sveglia alle 5.30 per essere a fare colazione alle 6. La colazione è un momento molto surreale, intanto perché tutti gli alberghi o simili di San Pedro te la servono a partire dalle 4.30; in secondo luogo perché la signora ti illustra che cosa puoi prendere ed è tipo “ecco, qui c’è l’acqua calda, lì le bustine di tè, qui il caffè solubile, il cacao, le foglie di coca”. Tu annuisci, uomo di mondo, e guardi quel barattolo pieno di foglie mezze secche come se fossi Pablo Escobar e fossi abituato a valutare la qualità di intere partite solo con un’occhiata. Però sai benissimo che quella stessa foglia, che qua e in altri paesi dell’America Latina è assolutamente legale (fino a che non la usi per produrre cocaina), è illegale più o meno in tutto il resto del mondo.
Sarà per l’influsso del mio poliziotto interiore (e anche perché l’idea di andare in giro masticando una foglia mi fa un po’ schifo) che quel barattolo l’ho sempre lasciato chiuso. Al massimo, il mate de coca, cioè il tè in bustina di foglie di coca (che, più o meno, sa di tè verde). Non ricordo particolari effetti stimolanti, però lo stesso un po’ ti senti un Ozzy Osbourne in sedicesimo, a fare colazione con il tuo infuso di foglie di coca.
Comunque, finita la colazione alle 6.14, alle 6.29 siamo fuori dal portone ad aspettare. Il minivan arriva attorno alle 7, quando io già mi sento come Bonatti sul K2.
Il fenicottero rosa, re incontrastato dei gonfiabili da mare, è un curioso esempio di come funzioni esattamente l’evoluzione, che è un processo che ha portato determinate specie a essere le più adatte a determinati ambienti. In pratica, è un po’ come se i fenicotteri si fossero detti: “uhm, guarda te, nessuno si caga queste pozze di acqua salatissima dove vivono dei gustosi minicrostacei. Sai che c’è? CE LE PRENDIAMO NOI!”. Diversi milioni di anni dopo questo segreto summit dei fenicotteri, il minivan ci sbarca davanti a una palude stagnante, nelle cui acque decine e decine di fenicotteri sono intenti a nutrirsi.
Il sole ancora deve sorgere e l’acqua sembra una pozza di metallo fuso nella quale si aggirano queste creature vagamente assurde, che con il becco immerso nell’acqua si servono un’abbondante colazione di questi poveri crostaceini che avevano pensato che specializzarsi a vivere in pozze di acqua calda satura di sale fosse una grande idea.
Ogni tanto un fenicottero si alza in volo e il gioco diventa “fotografa il fenicottero in volo”, un gioco nel quale sono veramente pessimo.

Sulla sinistra, uno dei crostaceini di cui si nutrono i fenicotteri.
Dopo tutto questo vedere dei fenicotteri che mangiano, arriva il momento che si mangi anche noi. Tutto il parcheggio della riserva dove si trovano i fenicotteri, ora che il sole è alto, è diventato un grande punto ristoro. Accanto a ogni minivan gli autisti e le guide hanno allestito una tavola per la colazione.

Il mostro giallo è di una compagnia che si chiama Turismo Grado 10.
Con il freddo che c’è, la seconda colazione fila via che è un piacere, intanto che Pablo, dopo averci raccontato dei fenicotteri, ci spiega come l’estrazione dei sali di litio, che richiede un sacco di acqua, stia danneggiando l’ecosistema delle zone umide del deserto di Atacama, con l’attiva e spensierata complicità della politica. Difficile non pensare alle batterie della macchina fotografica e del telefonino che ho addosso, i cui componenti hanno forse iniziato qui la loro vita.
La tappa successiva è nel paesino di Socaire, dove dovremmo visitare la chiesa, che ha un bel soffitto in legno di cactus, ma che però è chiusa.
In compenso, dopo essere ripartiti, avvistiamo per la prima volta delle vicuñas, cioè le vigogne (solo che se dici vigogna ti viene in mente il cappotto del nonno o qualcosa del genere). La vicuña è uno dei due camelidi selvaggi andini, insieme al huanaco, dai quali derivano le specie addomesticate del lama e dell’alpaca.
Delle quattro, la vicuña è la specie più elegante e aggraziata, oltre a essere – almeno da queste parti – la più diffusa.
Nel frattempo, si noterà, abbiamo anche trovato la neve. In fin dei conti, siamo in montagna. Le precipitazioni si fermano qui e non proseguono sul deserto.
Gli spazi sono, come già sperimentato nella valle della Luna, enormi.
C’è anche modo di fare quelle fotografie ultrascenografiche in mezzo alla strada deserta.
E poi, potevamo farci mancare dei laghi ghiacciati?
Ce n’era anche un altro, Piedras Rojas, dove però al momento non ci si poteva più fermare perché l’accesso è stato bloccato dopo che “qualcuno di cui non dirò la nazionalità, solo che parlava portoghese” ha fatto kite surf sull’acqua e le autorità del parco del deserto hanno deciso che era il caso di decidere come regolamentare meglio l’accesso e la sorveglianza.

Sorveglianza in quel momento affidata a un esemplare di viscaccia, un grosso roditore molto serafico.
Pranziamo in un canyon asciutto, con un bel buffet preparato di nuovo a lato del minivan.
Mentre mangiamo, riflettiamo sulla bizzarra condizione per la quale una famiglia di francesi riesce a essere molto (ma molto) più rumorosa di ben cinque italiani: Lucilla, me, e una famiglia milanese di madre, padre e figlia ventenne (che incontreremo anche più avanti). Uno dirà: beh, facile, i francesi avevano tre figli tra i dieci e i vent’anni più la fidanzata di uno dei figli. No, i peggiori erano i genitori.
A ogni modo, ridendo e scherzando, un cartello lungo la strada ci ricorda che… siamo ai tropici. E in effetti, ora che si è alzato il sole inizia a fare caldo, tanto che l’ultima tappa della giornata, il canyon di Jerez, la si affronta in maglietta.

A destra, con i piedi a mollo, l’ottimo Pablo.
A differenza di quello dove abbiamo mangiato, il canyon di Jerez è attraversato da un torrente e, per la zona, decisamente fertile. L’acqua, convogliata in canali, è usata per la coltivazione di alberi da frutto. Questa zona è stata abitata fin dai tempi antichi e ci sono, ricostruiti, esempi di case tradizionali e alcune caverne scavate nella roccia, che venivano usate per conservare il cibo. È, di fatto, un’oasi, con un suo microclima protetto dalle pareti del canyon. Ed è anche l’ultima tappa della giornata, che si conclude con il ritorno in albergo e, finalmente, l’abbandono dei francesi.
Per festeggiare il lieto evento decidiamo di andare a mangiare la pizza. In quella che la Lonely Planet definisce la migliore pizzeria di San Pedro e che, comunque, offre anche altri piatti. Tipo gli spaghetti al pesto.
La pizza, sorpresa, non è neanche malissimo.
Io do finalmente sfogo al mio più turpe desiderio e ordino in santa pace un’ananas e prosciutto senza che nessuno mi possa giudicare (“In Italy,” spiego al ragazzo di Santiago con cui dividiamo il tavolo, “this pizza is a crime” – forse potrei anche averlo detto nel mio buffo spagnolo inventato che sono convinto tutti capiscano). Lucilla fa pure di peggio, ma lascio a lei, se vorrà, spiegare che cosa ha ordinato, nei commenti.
Poi, via a letto presto, perché il giorno dopo ci attende l’escursione de la muerte. Quella con la partenza alle 5.30. E per la quale saremo in strada alle 5.27.

Va’ come era contento e ctonio.
Me la rivendico tutta la mia pizza avocado, funghi e palmitos!
Piccolo dilettante che non sei altro!
(Che se solo sapessi come fare, posterei qui anche un documento fotografico😂)