Chile – 6 – Atacama (4)

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La cosa migliore dell’ultima escursione nei dintorni di San Pedro di Atacama è questa: si parte alle 8.30 e non nel cuore della notte.
Per giunta, quando arriva il minivan scopriamo che la nostra guida è di nuovo Pablo, con cui ci eravamo trovati un sacco bene e con cui ci fa piacere chiudere il ciclo desertico della vacanza.
Tutto bene-bene, quindi?
Insomma: c’è un po’ di timore perché oggi arriveremo fino a 4.800 metri e il giorno prima Lucilla sopra i 4.000 ha sofferto un po’ e perché l’escursione viene presentata come la più avventurosa tra quelle offerte da Cosmo Andino. Ma soprattutto c’è molto timore quando Pablo ci saluta e ci dice: “Oh, oggi siete quasi tutti italiani!”
“Buona fortuna,” gli rispondo io, ma in realtà è a me che la auguro.
Però, spoiler, per fortuna andrà benissimo perché i compagni di escursione sono:
– la coppia di signori milanesi con figlia con la quale già avevamo fatto un’escursione, assolutamente piacevoli;
– una famiglia con padre olandese, madre torinese e due bambini sabaudo/neederlandesi;
– una coppia trentenne di nuova borghesia borghesia cinese da manuale.

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In primo piano, un’animita abbastanza minuta

C’è un motivo per cui si parte così tardi per andare al Salar de Tara, almeno per gli standard atacameñi e il motivo è che per arrivarci si percorre la strada che unisce il Cile e l’Argentina, la Ruta 27, è chiusa al traffico dalla autorità dalle 17 alle 9.
Il perché ce lo spiegano, mentre il minivan si arrampica lungo la strada in salita, le animite (cioè i piccoli altari commemorativi dei morti) che costellano il percorso. Come da tradizione, ci sono oggetti personali, ma anche gli scheletri di autobus o motrici di camion. Le lunghe ore di guida, l’aria rarefatta e tutto il resto rendono pericolosissima la strada e quindi, per precauzione, resta chiusa per tutta la notte.
Fanno impressione, ma ce ne accorgeremo solo al ritorno, le lunghissime vie di fuga ai lati della strada per chi scende. Ma anche lì, al termine della via di fuga, rottami e altarini raccontano le storie di chi non ce l’ha fatta lo stesso.
Lungo la strada, però, si gode di un’ottima visuale (a dire il vero l’ennesima ottima visuale, perché sono quattro giorni che ce lo troviamo davanti ovunque ci giriamo) del Licancabur, uno di quei vulcani da manuale di vulcanologia, conico che più conico non si può. Non erutta dall’Olocene e nel suo cratere c’è un lago; se siete in forma e abituati ad arrivare a 5900 metri di altezza a piedi, ci sono dei sentieri per arrivare in cima. C’è anche tutta una leggenda locale sul vulcano, suo fratello e una donna contesa (un vulcano pure lei), piena di decapitazioni, separazioni e incontri una sola volta all’anno.

A un certo punto, Pablo fa fermare il minivan (ovviamente, anche questo autista, come gli altri due, ha partecipato alla Parigi Dakar – pausa – dove lavava le macchine dei piloti) e mette su la sigla di X Files. Non compare il signor Burns luminescente, purtroppo, ma indica delle macchioline bianche su un crinale all’orizzonte, che sono le antenne dei 66 radio telescopi dell’ALMA (Atacama Large Millimiter Array), un osservatorio frutto della coperazione scientifica internazionale, che scandagliano lo spazio per raccogliere informazioni sulla formazione dell’universo e tutto quanto. Collocato a 5000 metri sul livello del mare, in mezzo più o meno al nulla, è attivo dal 2011. Le attività astronomiche nel deserto di Atacama, favorite dall’assenza di inquinamento luminoso e dalla straordinaria limpidezza del cielo grazie alla scarsa umidità sono al centro anche di un intenso documentario di Patricio Guzmán, Nostalgia de la luz. È lo stesso Pablo a consigliarci il film, che traccia un parallelo tra le ricerche degli astronomi e quelli degli archeologi che nella stessa zona cercano di rintracciare dove sono stati nascosti i cadaveri dei desaprecidos uccisi durante gli anni della dittatura. È un documentario molto intenso, che non concede quasi nulla alla spettacolarità più immediata, e molto pensoso; ma molto bello. Probabilmente, però, non me ne sarei ricordato (e non lo avremmo visto) se non fosse stato citato nei commenti di un post precedente – grazie!

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Nella pausa lungo la strada al lato di un lago ghiacciato succedono due cose buffe: la prima è che troviamo accampata una coppia di francesi – sulla cinquantina abbondante – che ha trascorso lì la notte dopo esserci arrivata in bicicletta. Per i distratti, siamo attorno ai 4.000 metri, in inverno. Loro però sono vivi e sembrano pure contenti, quindi massimo rispetto.
Poi, mentre siamo scesi verso la superficie del lago e camminiamo tra le rocce lontani dalla riva, vediamo delle auto che dalla strada suonano il clacson mentre i passeggeri si sbracciano. “Che carini, salutano,” penso io e ricambio il saluto ad altri gesti. Mi verrà più tardi penosamente spiegato che erano guide di un altro tour che pensavano che stessimo camminando sulla superficie del lago (cosa che non si può fare perché ci sono ecosistemi fragilissimi nelle poche zone umide ed è un attimo che mandi tutto a puttane) e ci stavano dicendo di tutto.

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A destra, Pablo

Poi succede che a un certo momento siamo a 4.800 metri di altezza, ridendo e scherzando, poi scendiamo un po’ ma a un certo punto l’autista fa “ciao ciao” alla strada asfaltata e si inerpica sul fianco roccioso di una collina. Non ci sono più strade, non ci sono indicazioni e la sensazione di essere un po’ senza rete e doversi affidare al baricentro del minivan su cui siamo è molto, ma molto forte.
Però per fortuna va tutto bene e ci ritroviamo nel Salar de Tara.
Che si presenta come una enorme distesa desertica, costellata da giganteschi monoliti, in fondo alla quale c’è un grande lago.

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Una cosa così, ecco.

Quel pilastro lì, chiamato “l’indiano” per il suo profilo, è uno dei più caratteristici della zona, ma ce ne molti altri. Si tratta di pietre di origine vulcanica, per la precisione espulse durante un’eruzione milioni di anni e poi levigate e modellate con pazienza dall’erosione.

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Questa è una vista più ampia della zona, con camion

È sotto lo sguardo severo dell’indiano che va in scena il temutissimo e potenzialmente devastante momento “italiani che parlano di politica”.
A dare il “la” è l’expat in Olanda, che confessando di essersi molto disinteressata alla politica italiana nell’ultimo decennio esprime qualche difficoltà nel capire come abbia fatto la Lega a prendere voti al sud e cosa ci faccia un partito misterioso al governo insieme a essa. Per fortuna c’è un generale sostrato “progressista” che permette di tracciare un quadro generale senza scendere troppo in dettagli e fermarsi un po’ prima che si incrini il consenso. Perché a 4.000 metri sul livello del mare litigare è faticoso; e se già discutere di politica italiana ti fa un po’ sentire di avere buttato il tuo tempo, figuriamoci farlo in un posto del genere.

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Un posto del genere

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O anche del genere.

Scendiamo a piedi fino al lago, intanto che l’autista ci precede per preparare il pranzo. Camminare è un po’ faticoso perché, insomma, 4.000 metri, però si fa.
Fino al pranzo.
Il precedente pranzo, in una situazione molto più agevole, era stato un buffet di salumi, formaggio, insalata, avocado (che qui si chiama palta, con mio grande divertimento), pomodori, ecc. Questa volta, oltre ai contorni, il pezzo forte è una coscia di brontotacchino andino, marinata e stufata, che è buonissima. Ma buonissima davvero. Ha solo un problema: per la sua digestione, tutto l’ossigeno che normalmente dovrebbe arrivare al cervello di Lucilla viene dirottato al suo stomaco, causandole la madre di tutti i mal di testa. L’ideale quando hai ancora almeno un paio d’ore da stare in giro e un altro paio o quasi di macchina per tornare in paese.
Facendo due passi lungo il lago intanto che Pablo e l’autista finiscono di rimettere via tutto scopriamo che i signori milanesi con la figlia sono reduci dalla Patagonia, che in inverno pensavamo fosse una destinazione non del tutto accessibile (e noi abbiamo ferie lunghe insieme solo in inverno). Vuoi dire che con il riscaldamento globale…? No, con il tono soave di chi è abituato ad andare in montagna raccontano di ore di trekking nella neve, con l’incertezza ogni giorno di non sapere se potere completare la tappa successiva per la chiusura dei sentieri. Però, imprese per noi sovraumane a parte, questi si fanno quasi un mese in Cile (sono stati anche all’Isola di Pasqua, dove ci consigliano di andare a vedere uno spettacolo di danza tipica che si rivelerà – spoiler – un mezzo pacco). “Eh,” dice la madre, “abbiamo anche un figlio più grande ma sono anni che non viene in vacanza con noi. Lei invece per ora continua.” La figlia fa un’eloquente faccia del tipo “e che, sono scema?”, mentre Lucilla sonda il terreno per capire se sono interessati a un’adozione.

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L’ultima tappa prima di riprendere la strada è nel pianeta desertico standard di un qualsiasi Guerre Stellari, con delle rocce coloratissime dove i fratelli italo/olandesi scoprono che le pietre vulcaniche, se le tiri con forza contro una parete rocciosa, si sbriciolano. Il gioco diventa un’ecatombe di pietre con una velocità disarmante, il che è una panacea per il mal di testa di Lucilla (sarcasmo) e un grosso disappunto per me, che non posso certo prendere una pietra e farla esplodere pure io, dopo che i due ragazzini si sono presi una ramanzina. Sfogo la mia infantile euforia da carenza di ossigeno imitando Pablo e salendo su un masso sopraelevato a spararmi le pose da Tex Willer.

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(Poi però al momento di scendere ho avuto trenta secondi di terrore irrazionale e gambe tremolanti, nonostante fosse una semplice camminata sul retro della roccia).
Ma la cosa bella di questi posti è vedere come la vita riesca ad aggrapparsi, letteralmente alla roccia, come fanno queste minuscole piantineIMG_5793.jpg

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Questa invece è l’erosione.

Per terra si trovano anche schegge di ossidiana, che consiglio a Pablo di tenere da parte perché come insegna Game of Thrones sono utili contro gli zombi. Ma lui le regala alla ragazza milanese.

Ora è davvero finita, risaliamo sul bolide e ci dirigiamo verso San Pedro. Dobbiamo fare in fretta perché c’è il rischio che se si fa troppo tardi si trovi la strada chiusa.
Ora inizio ad avere un po’ di mal di testa pure io e vorrei dormire, ma succedono due cose. La prima è che la nostra amica italo/olandese decide che è il momento giusto per approfondire la conoscenza della coppia cinese. Va detto che questa cosa offre uno spaccato molto interessante sulla vita di una cultura diversa da quella europea ma che cerca di avvicinarsi: per esempio, loro sono appassionati di vino e fanno viaggi mirati nelle regioni di produzione più importanti (come è appunto il Cile, ma sono stati anche in Italia ed Europa). Vivono in una città non tanto grande (solo qualche milione di abitanti) e hanno un figlio che siccome soffre l’inquinamento hanno mandato a scuola (alle elementari) in Corea del Sud. Per un po’ è stata la madre con lui, ma ora mi pare di avere capito che stia da solo tipo in collegio.
La seconda cosa drammatica è questa:

Sulla via del ritorno Pablo decide che è il momento migliore per farci scoprire la bellezza e la potenza del prog andino che metteva in musica Pablo Neruda (nel video qui sopra, introdotti da Mario Vargas Llosa). Che, voglio dire, massimo rispetto, sul serio. È un pezzo molto bello, però immaginate di ascoltarlo mentre oscillate tra il sonno e la veglia, con il moog che tiene lo stesso ritmo delle pulsazioni del mal di testa per dieci lunghissimi minuti e la chitarra che manda stilettate alle tempie (ma nonostante questo sono riuscito a ricordarmi che il testo parlava di Machu Picchu e rintracciare la canzone).

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C’è però tempo per un’ultima sorpresa. I lama.
“Voi turisti quando vedete i lama sembra che abbiate visto un unicorno” ci aveva detto il giorno prima Francisco. Ha anche ragione, ma il punto è che fino a che non ne abbiamo visto un gregge lungo la strada al ritorno io avevo visto da vicino lo stesso numero di unicorni e lama.

E così finisce, con un’ultima cena in cui finalmente mangiamo porcherie (un assurdo piatto di patate fritte, salsicce e uovo) e beviamo birra, la nostra permanenza nel deserto di Atacama.
Il giorno dopo torniamo all’aeroporto di Calama con un minivan guidato da un autista che mentre guida guarda video di musica locale sul telefonino messo sul cruscotto. Certo, la strada è lunga e diritta, ma appunto per questo io che conosco Guccini so che non ci si dovrebbe fidare è che è un attimo che ti fanno un’animita.
Ma per fortuna arriviamo sani e salvi in aeroporto e da lì a Santiago, dove ci aspetta una mezza giornata all’insegna dell’allegria al museo dedicato agli anni della dittatura.
Che però, spoiler, finisce così:

1 Commento

Archiviato in cile, viaggio

Una risposta a “Chile – 6 – Atacama (4)

  1. L.

    “¡Vamos a decir que no!”🎶🎶🇨🇱

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