A separare il soggiorno nel deserto di Atacama e quello sull’isola di Pasqua abbiamo infilato una mezza giornata a Santiago. Io ero convinto di avere prenotato un albergo dentro all’aeroporto, in realtà scopriamo che si trova a qualche chilometro da lì, in mezzo al niente.
È uno di quegli albergoni di catena che la gente prenota unicamente perché arriva con un aereo tardi o deve ripartire presto il mattino dopo; ci appioppano una stanza con due letti matrimoniali, il secondo dei quali diventa quello per gli zaini (perché è giusto che anche loro possano riposarsi.
Da lì, l’unico modo per andare in centro è prendere il taxi; ce n’è sempre uno che staziona lì davanti, per fortuna.
Il tassista è un tizio sulla trentina, la nostra destinazione è il Museo della Memoria [della dittatura] e dei Diritti Umani, che è una di quelle che finiscono per fare chiacchierare. Lui è stato in Italia l’estate prima, ha girato in camper con degli amici tra Napoli e Roma, c’è questo momento molto buffo quando ci racconta di quanto gli sia piaciuto il Forte Prenestino (un centro sociale romano).
Da lì, ovviamente, si passa a parlare di politica. Da marzo il Cile ha un governo di centrodestra, che ha rimpiazzato quello di centrosinistra di Michelle Bachelet. Il quadro che ci fa il nostro nuovo amico, nel traffico di Santiago, è molto simile a quello italiano: un governo che si presenta come “di sinistra” ma che viene percepito come amico dei ricchi e degli industriali e che spinge nelle braccia della destra quello che una volta era il suo elettorato storico. Questo (che mi viene raccontato in spagnolo e che riesco a capire) mi convince che non dovrebbe essere troppo difficile spiegare nella bella lingua di Cervantes che anche in Italia è successo qualcosa di simile con Letta-Renzi-Gentiloni. Al termine della mia spiegazione, Lucilla (che ha dei fogli conquistati duramente che dicono che lei sa parlare in spagnolo) sta cercando di sprofondare nel sedile del taxi, perché io ho studiato spagnolo al prestigioso istituto “VAMOS A LA PLAYA”, sul cui stemma campeggia il motto “dos il ramatos” sopra a un’elegante silhouette di Massimo Ceccherini. Però secondo me ci siamo capiti. Più o meno.
Nei giorni del nostro arrivo in Cile, il Museo della Memoria e dei Diritti Umani di Santiago (nato nel 2010, durante la presidenza Bachelet) ha causato le dimissioni del ministro della cultura Mauricio Rojas, dopo che è emerso che in un libro del 2015 lo aveva definito una montatura che aveva solo lo scopo di scioccare i visitatori e manipolare la storia.
Dal video qui sopra pare che il problema fosse che il museo non farebbe capire che il colpo di stato sarebbe stato colpa un po’ di tutti e che sicuramente se hanno fatto quello che hanno fatto c’erano dei buoni motivi.
A ogni modo, il museo ha certamente delle parti molto d’impatto, ma del resto si parla dell’assalto al palazzo presidenziale, del sequestro e detenzione di migliaia di persone, della loro tortura, dell’instaurazione di un regime militare. È ovvio che la cosa abbia un impatto emotivo. E che un politico di destra se ne lamenti è un po’ come quando (secondo la leggenda) un nazista chiese a Picasso “L’ha fatto lei, questo?” indicando la tela di Guernica e lui rispose “no, l’avete fatto voi”.
Per quanto puoi contestualizzare le cause del colpo di stato (e su questo forse il museo non è molto completo), non puoi fare lo stesso con le conseguenze che ha avuto sulle vite delle persone. In esposizione c’è una grande quantità di riviste, giornali, volantini, manifesti, documenti che testimoniano la vita del Paese durante quegli anni. Insieme a oggetti appartenuti a chi era stato detenuto, strumenti di tortura, registri di persone scomparse.
Il grande centro emotivo del museo è la parete che prende tutta l’altezza dei vari piani sulla quale sono esposti migliaia di fotografie di desaparecidos.

(foto da wikipedia)
Ascoltando le testimonianze, in video, delle persone segregate e torturate non sono riuscito a fare a meno di pensare che senza dubbio nella caserma della polizia di Bolzaneto, nei giorni del G8 del 2001, qualcuno si è divertito a rimettere in scena tutto quello che aveva sempre sognato di fare leggendo del golpe cileno. Troppe similitudini di metodo, ancora prima di arrivare all’infame “1, 2, 3 viva pinochet” a cui le bestie in divisa presenti in quei giorni costrinsero i sequestrati.
Ci sono storie allucinanti di repressione, come quella di Carmen Quintana e Rodrigo Rojas Denegri, due studenti catturati dalla polizia durante una manifestazione studentesca nel 1986 e bruciati per strada. Lei è sopravvissuta, lui è morto dopo quattro giorni di agonia. I loro corpi erano stati portati via e gettati in un fosso lungo l’autostrada; la versione ufficiale era che si fossero dati fuoco da soli per errore perché trasportavano delle molotov (altri echi di Genova 2001).
Il percorso del Museo si conclude con il referendum del 1988 e la transizione verso la democrazia. Il reperto più straordinariamente folle del referendum è il video per la canzone-simbolo dell’opposizione, Chile, la alegría que viene, che sembra una specie di lunghissima pubblicità del Ciobar.
Abbiamo mangiato prima di entrare, ai banchetti che stazionano davanti al parco adiacente al museo (la cosa bella del Cile sembra essere che non ci sono particolari limitazioni sulla vendita del cibo per strada, perché alcune situazioni sembravano davvero molto, ma molto, casalinghe). Il completo italiano (ovvero un hot dog enorme con avocado, maionese e pomodoro) è una cosa gigantesca; ma avendo ancora un po’ di spazio nello stomaco Lucilla prende uno spiedino alla brace, io una sopapilla (cioè una frittella di farina, zucca e burro) sulla quale metto una salsa a caso che neanche ricordo – l’esperienza è stata un po’ straniante perché la signora che le vendeva non ha spiccicato una parola.
Dopo il museo, torniamo al Barrio di Bellavista per salire sul colle panoramico di San Cristóbal.
C’è un elegante ascensore che si arrampica lungo il fianco del colle e una volta in cima, siamo quasi al tramonto e dominiamo Santiago da 300 metri di altezza. Le Ande sono praticamente addosso alla città, velata da una gradevole coltre di smog. In cima alla collina c’è un’enorme statua della Madonna, ma, cosa molto più importante, troviamo finalmente dei gatti. Che vita possano fare i gatti in una città piena di cani è facilmente intuibile dal fatto che se ne stanno tra gli alberi e il tetto di un bar, lontani dalle grinfie dei cani.

“Ehilà!”
Lungo la discesa c’è il tempo per fare mille foto panoramiche alla città al tramonto, con il consueto rapporto impietoso tra quelle fatte e quelle da tenere.
Tornati nella bolgia del Barrio Bellavista, che ha un viale dove ci sono solo locali enormi per mangiare che sparano reggaeton a tutto volume, riusciamo a trovare una più tranquilla birreria dove dedicarci a uno dei piatti tipici locali, cioè la chorillana. Si tratta di una piattata di carne, uova e patatine fritte, che conosce infinite varianti. È buonissima, ma ti fa sentire in colpa per un paio di mesi.
Finita la cena, c’è da affrontare il problema di come tornare in albergo: decidiamo che la cosa migliore sia chiedere alla cameriera se possono chiamarci un taxi.
“Certo,” risponde lei e tira fuori il telefono. “Uber va bene uguale?”
“Mah, se si può pagare in contanti sì, non c’è problema.”
Visto che si può, le diamo l’indirizzo a cui dobbiamo andare, lei spippola sul telefono e annuncia che la macchina sarebbe arrivata in cinque/sei minuti. A questo punto, andiamo ad aspettare sul marciapiede davanti al locale. Dopo un po’ che siamo lì, arriva un’altra cameriera ad aspettare con noi, per essere sicura che ci vedano. La cosa inizia a diventare curiosa. Nel frattempo io penso “ma che roba, hanno pure uber, qui!”
Arriva la macchina, si ferma, facciamo per salire tutti e due dietro ma la tizia che guida, che sembra giovanissima, a grandi gesti fa capire due cose: 1. fate in fretta; 2. uno davanti, per carità.
“Lo sapete, sì, che in Cile Uber è illegale?”
A questo punto c’è un buffo fraintendimento, perché capiamo “legale” e siamo lì che diciamo “ma pensa, in Italia è illegale!”, fino a che la ragazza non sillaba bene.
Ok, niente panico, lei ha la soluzione. “Se ci fermano, voi siete dei miei parenti a cui sto dando un passaggio.”
Il piano mi sembra così elegante che quasi mi spiace farle notare che in questo momento noi non sappiamo il suo nome e lei non conosce il nostro (inoltre, io ho lasciato in albergo il passaporto con dentro il visto). Però la nostra autista (che avremmo scoperto solo al momento di scendere dalla macchina chiamarsi Maria) non sembra troppo preoccupata e inizia a chiacchierare, mentre dall’autoradio esce una compilation infinita di potenziali hit estive in Italia, tutte uguali.
Maria sembra una persona molto diretta ed entusiasta. È molto contenta che siamo italiani perché ama la cucina italiana – anche se tende a fare una certa confusione tra Italia e Francia, quando le dico che lavoro in una casa editrice risponde che le piace molto leggere e che sta leggendo un libro su Giovanni Paolo I assassinato dal Vaticano malvagio. La cosa che non sembra andarle molto a genio è che io e Lucilla non siamo sposati e non abitiamo nemmeno insieme. Ci chiede se siamo credenti e Luci confeziona un risposta molto diplomatica.
Nel frattempo, io sospetto che la strada che stiamo facendo non sia quella che abbiamo fatto all’andata, anche se Maria sta seguendo esattamente quella indicata dall’app che ha davanti. Ma con i sensi unici, vai a sapere.
Poi però entriamo in un quartiere dove tutte le case hanno delle recinzioni e degli alti cancelli, senza anima viva in giro. Che è la destinazione indicata dall’app.
“Ma… dove è che state, voi?” chiede Maria.
Segue momento di panico, perché decisamente non siamo dove dovevamo andare, ma in un quartiere che Maria descrive come il barrio de la muerte peligrosa y dolorosa, o qualcosa del genere. Alla fine si scopre l’inghippo: invece di specificare “oriente” nell’indirizzo Avenida Amerigo Vespucio, dove si trova l’albergo, la cameriera non aveva messo niente e quindi il sistema aveva scelto un punto a caso di Avenida Amerigo Vespucio, che è una circonvallazione lunga 63 km attorno a Santiago. Per farla breve, eravamo diametralmente dalla parte opposta di Santiago rispetto alla nostra destinazione.
Per fortuna, Maria la prende bene. Spegne l’app/tassametro, imposta l’indirizzo dell’albergo e ci rimettiamo in cammino.
Nella seconda parte del viaggio, ormai un’odissea nella Santiago by night, scopriamo qualcosa di più su di lei. Ha trent’anni (gliene avrei dati dieci di meno) e viene dal Venezuela. In Cile c’è arrivata via terra, con un viaggio di dieci giorni, perché non aveva i soldi per biglietto aereo né per il visto. Fa due lavori e ha lasciato in Venezuela una figlia di 5 anni, che sta con il nonno perché il marito si è cortesemente dato alla macchia. Nonostante questo – e nonostante il nostro errore le abbia incasinato orribilmente la serata, come si capisce dai messaggi vocali che manda a un amico nel frattempo – è superpositiva.
Alla fine riusciamo ad arrivare all’albergo, anzi poco prima perché non è il caso di farla entrare nel parcheggio dove c’è fisso un tassista, fosse anche il nostro amico centrosocialaro della mattina. Si fa dare il numero di Lucilla se mai dovesse venire in Italia, ma la registra come “Lucilla francese”.
Chissà se la rivedremo mai.
Il giorno dopo, invece, rischiamo di perdere l’aereo per l’Isola di Pasqua.
Ma questa è un’altra storia.
Che io sappia Uber (specificatamente UberX) e’ formalmente illegale in altre parti del Sud America (so per certo della Colombia), ed e’ cosa comune sedersi davanti e in alcuni casi oscurare lo schermo del cellulare per rendere meno evidente il fatto che si stia “ubereando”. E’ anche comunissimo incontrare venezuelani in ogni dove, a volte mendicando e a volte partecipando alla “gig economy”. Tra l’altro perlomeno in Colombia il fatto che centinaia di migliaia di stranieri si siano riversati nel paese non ha dato atto a fenomeni di intolleranza importanti, e che io sappia nessun politico ne ha approfittato.