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Won’t you help to sing, these songs of revenge

La vicenda di Shakira che dissa il suo ex fidanzato paragonando se stessa a un Rolex e a una Ferrari e la di lui nuova fiamma a un Casio e a una Twingo mi sembra una buona occasione per rispolverare il blog e parlare di qualche revenge song, cioè quelle canzoni in un cui un’artista fa volare gli stracci verso un o una ex.
Non pretende di essere una trattazione esclusiva, sono solo quelle che mi vengono in mente (ovviamente, teniamo fuori Adele, la cui intera discografia ricade nella categoria).

You oughta know – Alanis Morrissette

La storia la sappiamo tutte/i: loro stavano insieme, lui l’ha lasciata per un’altra, lei gli chiede se la “versione più giovane di lei” gli faccia le stesse cose che gli faceva lui a teatro.
Ora, magari il problema era questo, Alanis: magari lui stava cercando di seguire l’Enrico VIII o quello che era.
Sul disco, ci suonava una specie di dream-team dell’Alternative Rock anni 90: Dave Navarro, Flea e Justin Hawkins, pronto a correre alla corte di Dave Grohl.

Quattro stracci – Francesco Guccini

A inizio anni novanta Francesco Guccini divorzia. Scrive sul rapporto con l’ormai ex moglie una canzone molto elegiaca e nostalgica, Farewell. Narra la leggenda che quando lei la sente risponde una cosa tipo “E quindi? Dovrei piangere?”.
Il Maestrone non la prende benissimo e butta giù quattro minuti di invettiva in sol maggiore, che raggiungono probabilmente l’apice con i delicati versi: “Nata di marzo, nata balzana, casta che sogna d’esser puttana” (ma c’è anche una delle massime gucciniane più citate, “ci vuole scienza, ci vuol costanza, per invecchiare senza maturità”.

Don’t think twice it’s all right – Bob Dylan

Suze Ruotolo (la ragazza che abbraccia Bob Dylan sulla copertina del suo primo disco, all’epoca sua fidanzata) decide di prolungare a tempo indeterminato la sua permanenza in Italia. Bob mette il capotasto alla chitarra, rispolvera un brano folk che ha imparato qualche tempo prima, ci canta sopra un testo nuovo e va all’incasso con la SIAE.
Sono tre minuti e mezzo passivo-aggressivi in cui Dylan dice che non c’è da stare a rimuginarci sopra, che va tutto bene, non è che fosse ‘sta gran cosa, “hai solo tipo sprecato il mio prezioso tempo”.
(poi Suze tornò dall’Italia e rimasero insieme ancora per un po’, lei ebbe un’aborto, lui iniziò una relazione con Joan Baez e tutto andò gambe all’aria. Dylan scrisse un’altra revenge song, Ballad in plain D, di cui poi si pentì – otto minuti e mezzo sul tema “tua madre e tua sorelle sono stronze”).

You’re so vain – Carly Simon

Lui è un inguaribile narciso convinto di potersele fare tutte, quando lei era più giovane l’ha illusa, ma comunque lui è così vanesio che penserà sicuramente che questa canzone parlerà di lui.
Nel 1972, anno della canzone, Carly Simon era spostata con James Taylor, e diceva che la canzone non parlava di una persona specifica, ma degli uomini in generale. Tuttavia, ci sono alcuni dettagli nella canzone che fanno pensare che si possa riferire a una persona specifica e così la stampa ha sempre cercato di identificare questo uomo misterioso. Ora sembra abbastanza appurato che alcune cose si riferivano all’attore Warren Beatty, ma c’è sempre stato un grande candidato al ruolo di protagonista di questa canzone (che tra l’altro ci canta pure): Mick Jagger. Nel 1983 Simon ha detto che la canzone non parlava di Mick, ma nel frattempo…

Star Star – The Rolling Stones

Nel frattempo, nel 1973 pubblicano una canzone che si chiama Star Star solo per ragioni di presentabilità ma il cui vero titolo è sempre stato Starfucker e in cui Mick Jagger sembra rispondere in alcuni punti alla canzone di Carly Simon, nel tratteggiare la figura di una groupie seriale di cui sembra conoscere molti dettagli.
Il testo è un trionfo di gioiosa volgarità, con cose tipo “Yeah, Ali McGraw got mad with you / For givin’ head to Steve McQueen”; mentre nelle versioni dal vivo (pazzesca quella del 1978 in cui gli Stones rivendicano di essere stati i New York Dolls prima dei New York Dolls) spunta pure il nome di Jimmy Page.

Pretty tied up – Guns n’ Roses

Chiudiamo con una cosa un po’ azzardata, ma credetemi: Pretty Tied Up è una revenge song per una rock band, cantata dalla rock band stessa a cui è dedicata.
La storia è questa: Izzy Stradlin’ è amico di Axl Rose fin da ragazzino, insieme si fanno tutto di cui ci si può fare, vanno a Los Angeles, fondano i Guns n’ Roses, diventano rockstar, fanno tutto quello che hanno sempre sognato di fare. Poi succede che Izzy si renda conto che o ci dà un taglio con la droga o muore; si disintossica e, per la prima volta sobrio da anni, si accorge che Axl è un insopportabile coglione, che quella vita gli è insopportabile e che il gigantismo raggiunto dopo appena un disco dal gruppo non fa per lui. Fa in tempo a scrivere qualche canzone per i due Use your Illusion e suonarle, prima di levarsi di torno, a novembre del 1991. Una di quelle canzoni è questa, che parla di una ragazza che ha sempre più bisogno di essere maltrattata e legata per provare qualche piacere e in cui la seconda strofa parla di un gruppo rock che una volta era una forza, ma che con il tempo è diventato una barzelletta. È un mistero come Axl non abbia capito di che cosa parlasse la canzone – che sta nello stesso disco in cui sfida a singolar tenzone i giornalisti che hanno parlato male di lui, citandoli per nome e cognome.
Con una certa coerenza, Izzy non è mai rientrato in pianta stabile nei Guns, salvo per qualche concerto. Se Enrico Brizzi avesse intitolato il suo romanzo di esordio “Izzy è uscito dal gruppo” non si sarebbe trovato con l’eroe eponimo che gli sputtana uno dei passaggi più significativi rientrando nel gruppo in tempo per scagliarlo nei piani più alti dello star system.

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I migranti di Ganden

Monastero di Ganden, agosto 2019

Nell’ultima canzone scritta e cantata da Franco Battiato prima che la sua mente andasse altrove, Torneremo Ancora (scritta con Juri Camisasca) c’è questa strofa:

Lo sai
Che il sogno è realtà
E un mondo inviolato
Ci aspetta da sempre
I migranti di Ganden
In corpi di luce
Su pianeti invisibili

A Ganden ci sono stato, nel 2019. È uno dei tre maggiori monasteri buddisti della valle di Lhasa, Tibet, con Drepung e Sera.
Come ho raccontato, ci ho assistito alla cerimonia di disvelamento di un tankgha (un gigantesco arazzo, per farla breve), che era un incredibile misto di sublime e mondano, di religioso e politico, di solennità e involontaria comicità.
Ma il monastero di Ganden che ho visitato io è un fantasma, un simulacro, perché quello originale fu raso al suolo nel 1959 dall’esercito cinese, e quello che venne ricostruito distrutto ancora durante la Rivoluzione Culturale. Solo a partire dagli anni 80 è stato ricostruito nelle forme e nel luogo originali. In India, intanto, gli esuli tibetani lo avevano ricostituito a partire dal 1966.
Ma Ganden è anche il nome tibetano del Tushita, uno dei sei cieli degli dèi del desiderio della cosmologia buddista, quello in cui risiede il futuro Buddha, Maitreya, prima di manifestarsi sulla terra.
Sì, è tutto molto complicato (e cozza un po’ con l’idea di molti occidentali che il buddismo sia più una filosofia che una religione).

Quindi il punto è: chi sono i migranti di Ganden? I monaci che scapparono dal Tibet – in questo davvero migranti – per rifondare il loro monastero in India? O anime, spiriti che migrano da un livello di esistenza a un altro?
O tutti questi insieme, in una corrispondenza tra il fisico e lo spirituale, le contingenze della vita e i cicli dell’universo?
E quanto si può essere densi con due sole parole e una congiunzione?

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Metal sotto l’assedio (sul serio)

Se si pensa a rockstar occidentali legate all’assedio di Sarajevo probabilmente il primo nome che viene in mente è quello degli U2; a Bono e soci va in effetti riconosciuto il merito di avere cercato di tenere viva l’attenzione dell’occidente su un massacro del quale di fatto importava molto poco a tutti. Durante lo ZooTV tour del 1992/1993 avevano un collegamento satellitare con la città sotto assedio, finanziarono un documentario sull’assedio e cercarono di organizzare un concerto a Sarajevo – senza però riuscirci fino a ben dopo la fine dell’assedio.
Noi italiani poi ricordiamo certamente i due concerti “Rock sotto l’assedio” di Vasco Rossi a San Siro, nel luglio del 1995, aperti da band provenienti da Sarajevo (ignorate se non peggio dal POPOLODIVASCO) – anche per le polemiche sul fatto che l’incasso rimase nelle tasche di Vasco, che però mandò comunque degli aiuti in un secondo tempo.
Quello che i più ignorano è che ci fu davvero qualcuno che entrò a Sarajevo durante l’assedio per offrire ai ragazzi assediati un concerto come quello che i loro coetanei del resto del mondo potevano ascoltare. E quel qualcuno fu Bruce Dickinson.

La foto viene dal blog di Chris Dale

Un paio d’anni fa, quando andai a Sarajevo, una delle guide che ci portò in giro fece il suo nome, ma senza particolare enfasi, al punto che avevo pensato avesse fatto, come gli U2, un concerto dopo la fine dell’assedio. Del resto, all’epoca dell’assedio leggevo riviste metal e non ricordavo di averne letto nulla; nemmeno nelle interviste negli anni successivi a Bruce Dickinson, una delle persone più in vista del mondo del metal e non solo (ai media generalisti piace molto il fatto che piloti anche aerei di linea), mi sembrava di averne mai letto qualcosa.
Fino a che non è stata annunciata la pubblicazione del documentario Scream for me Sarajevo, che racconta appunto di quando Bruce Dickinson e la sua band si ritrovarono, nell’inverno del 1994, a tenere un concerto sotto le bombe. Cosa che per un cantante soprannominato in tempi non sospetti “air raid siren” in effetti è piuttosto naturale.

Breve riassunto per i non iniziati: Paul Bruce Dickinson entra nel 1981 negli Iron Maiden, un gruppo metal inglese con due dischi all’attivo molto buoni registrati con il loro primo cantante, Paul Di’Anno. Con la sua voce, la sua presenza scenica e il suo interesse per la storia e le tematiche occulte, i Maiden trovano il tassello mancante per perfezionare un modello di metal che, nel giro di un paio d’anni diventerà un archetipo e culminerà nel 1984 con il disco Powerslave e il tour successivo che, con il disco dal live Live after death, è un po’ la summa del metal “classico” anni ottanta. Intanto però Bruce inizia a stufarsi, vorrebbe fare cose nuove, i rapporti con il bassista e leader del gruppo Steve Harris si incrinano e nel 1993, dopo un ultimo tour da separati in casa, se ne va dal gruppo (un evento che i fan vissero con la stessa serenità delle fan dei Take That all’uscita di Robbie Williams dal gruppo – non senza una certa dose di preveggenza, ma questa è un’altra storia).
Nel 1994 pubblica un disco solista, Balls to Picasso, poi mette in piedi una band per il tour, nella quale suona anche un batterista italiano.

Il documentario Scream for me Sarajevo ricostruisce la storia di questa esibizione fuori dal mondo – letteralmente – attraverso le interviste a musicisti e fan di Sarajevo, allo stesso Bruce Dickinson, al bassista Chris Dale (che già aveva raccontato la vicenda in una serie di articoli molto intensi e che consiglio di leggere), al batterista Alex Elena (oggi anche fotografo), al maggiore dell’esercito inglese Martin Morris (l’uomo che ebbe l’idea di organizzare il concerto), il negoziatore dell’ONU Trevor Gibson (che si occupò della sicurezza durante la permanenza in città; è suo malgrado famoso per essere ritratto nella tremenda foto di un bambino di 7 anni ucciso da un cecchino sotto i suoi occhi) e altri – compreso un fan di Mostar che cercò di raggiungere Sarajevo per il concerto ma fu costretto a tornare indietro (misteriosamente assente invece il chitarrista Alex Dickson).
Alternando spezzoni d’archivio alle interviste, la narrazione parte un po’ piano (e dando per scontate molte delle coordinate socio-politiche dell’assedio), ma decolla quando si iniziano a mettere insieme i pezzi della catena di eventi che hanno portato il più famoso cantante metal del mondo a Sarajevo.

tra le cose improbabili, arrivare a Sarajevo su quel camion lì, di proprietà dell’associazione umanitaria Serious Road Trip (in primo piano, il maggiore Morris, mente dell’operazione) (foto dal blog di Chris Dale)

C’è una vena di Spinal Tap (uno dei film più realistici del mondo) quando si scopre che, in realtà, nessuno aveva ben chiara l’entità della tragedia in cui stavano andando a cacciarsi, accettando il concerto. Ma dall’arrivo a Spalato in poi, dove scoprono che non arriveranno a destinazione in elicottero come pensato ma via terra, il documentario diventa la storia della presa di coscienza dell’esistenza, a un passo dal resto dell’Europa di una realtà impossibile da immaginare, di una città i cui abitanti vivono fianco a fianco con la morte e la distruzione ogni istante. Una città per i cui abitanti gli scenari di distruzione di molto metal non sono un esercizio di stile ma la realtà quotidiana (c’è un passaggio molto intenso in cui un ragazzo spiega quanto sembrasse vicina Refuse/Resist dei Sepultura, per esempio). Ma anche una città nella quale, nonostante tutto, i giovani strappavano giorno per giorno una parvenza di normalità a quella situazione disperata, anche e soprattutto attraverso la musica, che arrivava tramite le radio e faceva da ponte con il resto del mondo.
Ricordo di avere visto in un museo di Sarajevo spezzoni del documentario Miss Sarajevo, quello finanziato dagli U2, e di essere stato annichilito da uno spezzone in cui dei ragazzini, miei coetanei, in una via devastata si mettevano a cantare All that she wants davanti alla macchina da presa – perché mi sono reso conto che negli stessi istanti in cui io potevo permettermi di considerarla robaccia c’erano altri per cui quella melodia appiccicosa era un momento di fuga dalla distruzione e, magari, l’ultima cosa che avrebbero mai ascoltato a seconda dell’umore di un cecchino cetnico (poi in tutto questo gli Ace of Base sono stati fondati da un nazista che magari in quei giorni avrebbe voluto essere pure lui a sparare sui bosniaci, ma è un altro discorso).
A ogni modo: del concerto vero e proprio non si vede molto, ma non è la cosa più importante. A detto degli stessi musicisti non è stato particolarmente indimenticabile per le loro performance e, come dice Dickinson, è stata l’unica volta che si è sentito davvero messo in soggezione dal pubblico. Nel senso che in quell’occasione si era ribaltato il tradizionale rapporto tra rockstar e spettatori: era lui a guardare i ragazzi che affollavano la sala come se fossero delle divinità in grado di fare cose fuori dal normale e appartenenti a un altro universo.
È forse un po’ meno toccante del previsto il ritorno di Bruce Dickinson a Sarajevo insieme al regista del documentario, con l’incontro di alcune delle persone presenti al concerto come spettatori o musicisti, ma forse più che altro perché il cantante è quasi in imbarazzo a prendersi la scena (è più sciolta invece la visita di Alex Elena e Chris Dale insieme al maggiore Morris – che a sua volta è un personaggio incredibile, un giovialone che poi butta lì, con il sorriso e parole pacate, che l’ONU aveva sbagliato tutto e avrebbe dovuto spezzare l’assedio con la forza).

Scream for me Sarajevo è un bel documentario, che dovrebbe interessare non solo gli amanti del metal o della musica in genere, ma che racconta una delle tante storie di quella barbarie che fu l’assedio di Sarajevo da un punto di vista inedito. È anche una testimonianza del potere della musica, al di là dello show business, di tenere insieme le persone quando tutto il resto fallisce.

Non mi sembra si trovi in streaming, se non a pagamento su iTunes, ma il dvd o blu ray è abbastanza facile da reperire, per esempio su Amazon (è un link sponsorizzato, se si acquista da lì io ricevo una piccola commissione – ma il prezzo non cambia)

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Che cosa rende grande una canzone?

Se avete la curiosità e l’interesse di sapere come sono fatte le canzoni, perché certe soluzioni ritmiche, melodiche, di incisione, funzionano meglio di altre, non potete non conoscere la serie di video di Rick Beato (musicista, insegnante, produttore) che analizza, tracce singole alla mano, canzoni di ogni genere.
Rick sa tutto, sa suonare tutto e non si preoccupa troppo di lavorare solo sul “canone” (tanto che, appunto, il primo episodio è dedicato ai Blink 182 – difficile immaginare che in tre minuti di pop punk radiofonico ci possa essere così tanta cura).

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Sun City (we do are gonna play)

C’è questo video, che ha fatto arrabbiare un po’ di fan dei Queen, in cui Red Ronnie spiega perché non ha mai voluto intervistare Freddie Mercury, riconducendo la cosa a una certa antipatia per la persona e per il gruppo, dovuta principalmente al fattaccio dei concerti a Sun City.
Ora, al di là del fatto che RR ha tutto il diritto di avere delle opinioni e che, in fondo, non credo che ci siamo persi granché senza la sua intervista a Mercury e soci, la storia di Sun City è un bell’esempio della considerazione (scarsa) di cui hanno goduto i Queen da parte del loro ambiente praticamente fino alla morte di Freddie Mercury.
La questione nasce dall’apartheid in Sud Africa, dove la minoranza bianca di origine boera aveva imposto un rigidissimo regime di separazione razziale. Sun City era una località dell’entroterra, una specie di Las Vegas che era diventata la capitale di tutto l’intrattenimento del Paese, offerto a un pubblico rigorosamente bianco. Il perché è presto detto: le Nazioni Unite avevano imposto un embargo culturale sul Sud Africa come ritorsione per l’apartheid, ma Sun City era di proprietà di un magnate che strappava sontuosi assegni in cambio delle performance degli artisti occidentali. Il grosso del mondo del rock e del pop decise di boicottare Sun City, ma ovviamente ci fu chi non si fece grossi scrupoli. Continua a leggere

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Mudslinger

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Un’altra giornata in ufficio

È il 1994.
Qualcuno ha la bella idea di celebrare i 25 anni del festival di Woodstock con… un altro festival. La lista delle band, spalmata su tre giorni, era imponente e dà un bello spaccato dell’industria musicale alla metà degli anni novanta. Per dire, i Red Hot Chili Peppers fecero il loro secondo concerto con Dave Navarro alla chitarra (dopo che John/Jack Frusciante aveva lasciato il gruppo), salendo sul palco vestiti da lampadine. C’erano gli Aerosmith, al culmine della loro seconda vita artistica – e tre di loro erano stati tra il pubblico 25 anni prima. I Nine Inch Nails furono probabilmente il gruppo più visto e acclamato
L’ultimo giorno, nel pomeriggio, salgono sul palco sud i Green Day. All’epoca, era un terzetto punk che aveva appena imbroccato il successo della vita con l’album Dookie, il suo primo per una major, dopo due usciti per etichette indipendenti. Era il post-Nirvana, le grandi case discografiche mettevano sotto contratto orde di band sperando di azzeccare il colpaccio. Con Dookie, la Reprise (un’etichetta fondata nel 1960 da Frank Sinatra in persona, parte del gruppo Warner) azzeccò l’investimento. Il terzetto sfornò un disco di 40 minuti scarsi di melodie irresistibili, chitarre dal suono impeccabile (è in uscita un distorsore che cerca di ricreare quel suono), batteria sparato, basso scoppiettante e, di colpo, orde di 15enni – tra cui il sottoscritto – scoprirono che esisteva questa cosa chiamata punk (che poi era pop punk) di cui non potevano fare a meno. Come ogni band di successo che si rispetti, i Green Day avevano pure i loro rivali, almeno ideali, gli Offspring, anche loro al primo disco “importante” con Smash, altro enorme successo. Su una TDK da novanta stavano comodi uno per lato (se non capisci questa frase non preoccuparti, sei giovane). Continua a leggere

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Un po’ di cose sui Queen?

Senza entrare nel dettaglio di quello che penso di Bohemian Rhapsody, il biopic sui Queen e Freddie Mercury che suscita sentimenti forti come neanche la nuova trilogia di Star Wars (il mio consiglio è: pensate che sia ambientato nel Queen Cinematic Universe, non nel mondo reale), ecco alcuni episodi della storia della band che sarebbe stato divertente vedere sul grande schermo (c’è una foto NSFW, più sotto).

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Two naughty boys in Kensington. Christmas Eve 1969

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Freddie Mercury e Roger Taylor che gestiscono un banchetto di abiti usati al Kensington Market. Continua a leggere

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Cinque di quattro

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Per farla breve: il titolo onorifico di “quinto Beatle” è stato assegnato a così tanta gente che c’è una pagina Wikipedia apposta.
Ma la realtà l’ha detta oggi Paul McCartney una volta per tutte: se c’è mai stato un membro esterno del gruppo dotato di pari dignità degli altri, quello è stato George Martin.
Sì, Brian Epstein ce li ha portati, da George Martin, li ha tirati fuori da Liverpool e li ha ripuliti. Ma Epstein era “solo” uno che aveva visto nei Beatles, così com’erano, qualcosa su cui valeva la pena investire.
George Martin è stato quello che ha avuto la lungimiranza di capire che quei tre giovanotti sfacciati (quando alla prima sessione di registrazione chiese al gruppo se c’era qualcosa che non andava nello studio George Harrison, implume, gli rispose “beh, tanto per cominciare la tua cravatta”), avevano qualcosa da dire. A patto di levare di torno quel batterista inaffidabile, Pete Best; una cosa che Epstein non aveva mai tentato di fare.
Si fidò di loro e accettò di farli esordire con Love me do invece che con una canzone scritta da un autore professionista. Mise le mani in Please Please Me in modo da farla diventare, dal lento che era, un pezzo più accattivante e, come predetto alla fine della seduta di registrazione, il loro primo numero uno in classifica.

E poi, con pazienza, li coltivò, assecondò la loro curiosità, fu complice e istigatore di tutto quello che fecero in una manciata, bruciante, di anni.
Anni di cui non è stato un testimone ma un protagonista. Nel 1965-66 i Beatles decisero, come altri gruppi nello stesso periodo, che anche lo studio doveva diventare uno strumento. E lo studio lo “suonava” Martin con i suoi tecnici.
Se a casa avete i DVD dell’Anthology, potrebbe essere la serata giusta per rivedere la parte in cui Martin, al banco del mixer di Abbey Road, spiega Tomorrow Never Knows.

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Quando David Bowie era somigliantissimo alla Duse (e l’aereo sopra il palco)

La Stampa di Torino non è solo un giornalaccio il cui direttore propala la peggiore propaganda razzista coloniale e il cui vicedirettore è quel monumento al populismo di Massimo Gramellini*, ma ha il pregio di avere digitalizzato e messo online l’intero archivio, dal 1867. Questo permette di fare delle divertenti ricerche che hanno per tema “la prima volta che La Stampa ha parlato di gente famosa”. Anni fa ci feci un post parecchio divertente da scrivere (e pare anche da leggere), Quando i Beatles erano un duo di urlatori, che ha anche avuto un seguito un po’ meno brillante.
In quei post mancava David Bowie. Come ne avrà parlato per la prima volta La Stampa?
Così, il 18 febbraio dei 1973, in un articolo sulle nuove tendenze in America, firmato da Lietta Tornabuoni.

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Due gocce d’acqua, lui e la Duse.

Eleonora Duse

Eleonora Duse

Il camaleontico Duca Bianco

Il camaleontico Duca Bianco

Non conoscevo invece la foto di Keith Moon che cita, ma è meritevole e molto meglio della descrizione, perché non è abbracciato a un enorme Topolino ma coricato su una pelle d’orso.

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Qui deve essere dopo il tranquillante per cavalli

Va decisamente meglio il 1 maggio dello stesso anno, con la recensione di Aladdin Sane (in una pagina degli spettacoli e cultura che vi consiglierei di guardare per le locandine dei film).

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Già che ci siamo, e i Motörhead? Niente di divertente negli articoli, ma chi doveva promuovere il concerto torinese del 26 marzo 1980 sapeva certamente fare il suo lavoro.

L'aereo sul palco costava meno di Concato.

L’aereo sul palco costava meno di Concato.


* E con questo incipit dovrei essermi assicurato almeno un paio di “ma come si fa andare oltre le prime due righe?” nei commenti.

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David Bowie (1947-2016)

Venerdì ho ascoltato Black Star.
“Che angoscia,” ho pensato.
Questa mattina ho scoperto nel peggiore dei modi perché ci avevo sentito dentro qualcosa di così angoscioso.

Lo so che non è bello da dire di uno la cui carriera è fatta di una continua reinvenzione di se stesso e della propria musica, ma il “mio” David Bowie è quello che va da Space Oddity (1969) a Ziggy Stardust (1972). Massima stima per tutto quello che c’è dopo, ma per lo più non è musica che rientri più di tanto nelle mie corde.
Tra i cd di mio padre scoperti da ragazzino, quei due estremi, invece, spiccavano come due oggetti non troppo identificabili. Space Oddity era pieno di canzoni abbastanza lunghe, storte, non lineari. Nel libretto c’era una foto di Bowie nei panni di una sfinge.

tumblr_mvk9fpOdCr1qb1wbzo1_1280Ziggy Stardust era come un romanzo, da ascoltare rigorosamente tutto di fila. C’era scritto sul retro “TO BE PLAYED AT MAXIMUM VOLUME”. Lo facevi e arrivava pian piano la batteria di Five Years a gettarti nel dramma.
E poi c’era dentro LA canzone.
Mettetemi in mano una chitarra ed è probabile che entro trenta secondi io stia suonando l’attacco di Ziggy Stardust. In 3 minuti e 13 secondi Ziggy Stardust racconta la storia perfetta dell’ascesa e della caduta. When the kids had killed the man I had to break up the band. Bowie aveva raccontato Kurt Cobain quando Cobain era ancora un bimbo biondo e spensierato.

David Bowie l’ho visto domenica sera. In tv davano il Freddie Mercury Tribute. Cantava Under Pressure con Annie Lennox e poi All the young dudes con Ian Hunter e Mick Ronson (che sarebbe morto l’anno dopo e quella sarebbe stata la sua ultima esibizione); a un certo punto arrivavano Joe Elliot e Phil Collen dei Def Leppard a fare i cori. Brian May rispettosamente si ritirava a fare il ritmico a Mick Ronson. Bowie era elegantissimo, anche vestito da Barattolino Sammontana al pistacchio. Nelle versione di quella sera mancava Heroes, suonata subito dopo. E mancava il momento in cui Bowie si inginocchiava al centro del palco, senza averlo deciso prima, a recitare un Padre nostro per Freddie Mercury. “Avrei preferito se mi avesse avvertito prima”, dichiarò qualche tempo dopo Brian May. Bowie raccontò poi di essersi lasciato un po’ trasportare dall’emozione; un paio di suoi amici erano seduti vicino agli Spinal Tap e gli raccontarono che era riuscito a lasciare senza parole pure loro.
Quindi, ecco, come epitaffio potrebbe starci “lasciò senza parole gli Spinal Tap”.

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