Archivi tag: emirates airlines

Transito

(sto andando in Giappone)

Fo to di Andrea Lombardo

Fo to di Andrea Lombardo

Viaggiare in aereo ti mette fuori dal tempo, fuori dai luoghi.

L’aeroporto di Dubai è una cattedrale in quello che non è più un deserto.
Sono da due ore nel posto più a sud ed est da casa mia in cui sia mai stato e potrei essere ovunque.
Fuori ci sono 28 gradi, o almeno c’erano quando siamo atterrati, ma dentro c’è la temperatura standard da aeroporto. E’ passata mezzanotte, ma non so che ore siano. Ci sono tre ore di fuso dall’Italia, abbiamo volato verso il tramonto ed è come se avessimo avuto una giornata molto breve e molto lunga allo stesso tempo.
Il volo da Milano è stato una bolla di sospensione dal mondo. La Emirates mette a disposizione in ogni sedile uno schermo dove si possono guardare film, giocare con i videogames, ascoltare musica. Ininterrottamente.
Ho guardato G.I. Joe 2 (che ha soddisfatto pienamente le mie aspettative), Toy Story 2 (che non avevo ancora visto), un documentario maffo sulle origini del metal. Ho ascoltato un po’ dei nuovi dischi dei Franz Ferdinand e dei Vampire Weekend, ma troppo poco per dare un giudizio. Più per il gusto di poterlo fare che altro. Ho provato a leggere un po’, ho un libro da finire di leggere, ma il richiamo delle immagini in movimento era troppo potente.
Ho mangiato del cibo buono, lontano mille miglia dall’idea di “cibo da aereo” per consistenza e sapore. Ho visto una signora con il velo integrale che lo sollevava furtiva per mangiare; le ho visto il mento e la bocca e mi sono imbarazzato quasi come avessi cercato di guardarle le mutande.
Nessun problema alle orecchie, sedile comodo. Sei ore di volo e non mi sembrava nemmeno di essere in aereo. Solo altrove, come in un’animazione sospesa.
Ho volato sopra la Turchia e all’Iraq e al Kuwait, che brilla come un albero di natale. E guardavo dei film su dei giocattoli (non ci ho pensato fino a questo momento).
Mentre aspettiamo di scendere sento uno che frequenta Dubai che racconta di un imprenditore che ha costruito dei grattacieli vista mare, poi qualche tempo dopo un altro imprenditore ha avuto il permesso per costruirne altri davanti ai suoi perché è entrato nelle grazie della famiglia reale. Ora, dice, stanno pensando di ampliare la spiaggia per potere costruire altri edifici con la vista mare garantita. Fino al prossimo giro di vento. Leggenda urbana? Non lo so, ma mi sembra abbia una morale.
Poco prima dell’atterraggio sugli schermi è passato uno spot dell’ente turismo di Dubai. Niente ministri dall’inglese stentato che riempono lo schermo con il loro faccione e i loro appelli: tre minuti e mezzo di Frank Sinatra su un montaggio vertiginoso di alberghi, mall, ristoranti, oasi, acquari, piste da sci, pinguini.
Ti domandi che cosa spinga qualcuno che ha un sacco di soldi ad andarli a sputtanare a Dubai, di tutti i posti nel mondo.

All’aeroporto abbiamo vagato come ipnotizzati per il duty free, quasi sommersi dalla quantità di merci che brillano sotto i neon.
In questo grande frullatore culturale ci sono dolci arabi, ristoranti italiani e cinesi, una succursale di Shake Shack (che ha sede a New York, giusto a due passi da dove avevamo l’albergo). E poi il kitsch, che ha la stessa struttura profonda del nostro ma si riveste dell’apparenza di una cultura differente: un sacco di cammelli in tutte le forme possibili, kit sale e pepe con una donna velata in nero e un uomo con il camicione bianco, penne con teste umane, magneti da frigo, sottobicchieri fatti come tappeti persiani.
Attendiamo l’imbarco spiaggiati davanti ai bagni.
Più in là ci sono le sale per la preghiera, una per gli uomini e una per le donne, poco dietro distese sterminate di alcolici e superalcolici in offerta.
Una ragazza di una squadra femminile di pattinaggio argentina gira con al collo bene in vista uno di quei brutti rosari di plastica fosforescenti.
Le hostess della Emirates girano con quel cappellino con velo che scende attorno al collo come una sciarpa che sembra uscito di prepotenza da Star Wars o qualche copertina di un planetary romance.
All’imbarco di un volo per Karachi mi ipnotizzo a guardare un gruppo di uomini in abiti tradizionali, i volti affilati e le lunghe barbe, seduti accovacciati. Sembravano una banda di guerriglieri del Grande Gioco per qualche motivo scagliati fuori dal loro tempo, lontano dai loro lunghi fucili.
Di fianco a me un ragazzo orientale gioca a Wing Commander, emulato su un MacBook.
Ho una moneta da 5 yen legata al polso a un braccialetto.
Non so dove sono, non so che ore sono. E’ tecnicamente notte fonda, ma i negozi sono tutti aperti. Credo che qui il tempo non esista, come nelle città sepolte nelle sabbie del deserto dei racconti di Lovecraft e dei suoi epigoni. Forse per questo faccio foto alla mia statuina di Cthulhu tra i cammelli del duty-free.

(post scriptum: la foto in apertura è del fotografo genovese Andrea Lombardo. Andrea è partito per Tokyo il giorno dopo della mia partenza e ha trascorso lunghe ore di transito notturno, all’andata e al ritorno, all’aeroporto di Istanbul. Il suo reportage fotografico di quell’esperienza, intitolato In transito, ha alcune assonanze con questo post – che non credo Andrea avesse letto prima di partire – e sono contento che mi abbia permesso di usare un’immagine per illustrarlo. Il fatto che la foto e il testo parlino di due aeroporti diversi, ovviamente, non fa altro che rafforzare il senso di spaesamento che questi luoghi provocano)

4 commenti

Archiviato in giappone