Anche la rubrica dei libri letti nel mese precedente arriva sempre più tardi. Tipo: con un mese di ritardo. Ma purtroppo questo è un mondo crudele in cui il lavoro ti costringe a sottrarre tempo prezioso alle cose importanti.
In più in mezzo c’è stato quel vampiro di energie fisiche e psichiche che è il Salone del libro di Torino (dove per qualche giorno vado a fare dei lavori veri: battere scontrini, contare soldi, mettere libri dentro scatole e scatole su pallet).
La prima volta che ho sentito parlare di Solomon Kane è stato su uno di quei librini che si trovavano allegati agli Speciali degli albi Bonelli, per la precisione il quinto della serie dell’Enciclopedia della Paura di Dylan Dog, dedicato alla letteratura horror (allegato a quel capolavoro che era La casa degli uomini perduti di Sclavi e Casertano).
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Là, nella voce dedicata a Robert E. Howard si citava questo spadaccino del XVI secolo che muovendosi tra Europa e Africa affrontava mostri e demoni mosso da un’incrollabile fede in Dio. Non c’era nemmeno un’immagine e veramente la descrizione era poco più lunga di queste parole, ma lo stesso ricordo che pensai “wow, devono essere i racconti più belli del mondo”. Un paio di anni dopo, quando finalmente sono riuscito a mettere le mani su uno dei volumetti 100 pagine 1000 lire della benemerita Newton Compton, ho scoperto che Solomon Kane era davvero un personaggio straordinario come me l’ero immaginato e, anzi, forse di più. Continua a leggere →
Bentornati ad Autodifesa, la rubrica di commenti sui libri letti nel mese precedente.
Questa volta, sembra quasi uno speciale a tema su alcune declinazioni sul tema del tempo o, sotto altri aspetti, uno speciale dedicato quasi tutto alla fantascienza.
L’occhio del purgatorio di Jacques Spitz (Urania Collezione) non lo trovate più in edicola e dovete eventualmente chiederlo al servizio arretrati di Mondadori. Peccato, perché questo libro in un mondo più giusto dovrebbe essere un classico del fantastico assieme ai romanzi di H.G. Wells o a Frankenstein o a 1984 e meritarsi edizioni dalla vita commerciale meno effimera. La storia (reinterpretata da Gianfranco Manfredi in un Dylan Dog del 1994, “I giorni dell’incubo“) ruota attorno a una supercazzola scientifica grazie alla quale uno squattrinato e depresso pittore si trova, suo malgrado, a vedere le cose come saranno nel futuro e non più come sono nel presente. All’inizio lo scarto è solo di ore, poi diventa di giorni, poi settimane, mesi, anni, decenni, secoli, millenni, in un crescendo di dissoluzione. Non preoccupatevi: non ho spoilerato irrimediabilmente il libro, perché l’intreccio – che è poi abbastanza lineare – è un pretesto che permette a Spitz di mettere insieme visioni di ispirazione surrealista e riflessioni esistenzialistiche che costituiscono il vero senso del lungo racconto e che, per fortuna, non è possibile spoilerare. È un lungo e lucidissimo incubo, in cui il fantastico serve non a “mascherare” la realtà ma, al contrario, a farla esplodere, tenderla fino all’estremo per rivelarne l’essenza. Una vena di humour nero mitiga in parte il tono cupissimo della vicenda, lo stessa combinazione che si ritrova anche nel secondo romanzo breve ospitato dal volume, “Le mosche“, variazione sul tema della lotta tra esseri umani e invasori votati al loro sterminio in cui la minaccia non arriva però dallo spazio più o meno profondo ma dagli umili e fastidiosi insetti, che di colpo sviluppano un’intelligenza messa immediatamente al servizio di una lotta ferocissima e senza quartiere contro il genere umano. Anche qui Spitz si dimostra un abilissimo gestore del ritmo narrativo e la vicenda, per quando prevedibile, si snoda in un altro crescendo di orrore e ironia. Le parti migliori sono quelle che riguardano le reazioni di ogni stato all’invasione, con una particolare menzione per la figura da operetta dell’italietta fascista e per l’apocalittico scenario evocato per la Germania nazista. Ma in generale ci sono sparsi abbastanza spunti da dare vita a milioni di fan-fiction (in fondo è l’apocalissi zombi con le mosche al posto dei morti viventi).
Insomma, un volume che al prezzo di un pacchetto di sigarette mette insieme due bei pezzi di fantastico del primo Novecento. Tenete d’occhio bancarelle e remainders.
Se il protagonista di Spitz viaggia in avanti nel tempo con lo sguardo, il viaggio nel tempo di Jake Epping, il protagonista di “11/22/63” di Stephen King (Scribner) invece viaggia fisicamente indietro nel tempo fino al 1958. Era da parecchio tempo che non compravo un romanzo di King appena uscito; anzi, grazie ai potenti mezzi di Amazon, l’ho ricevuto sul Kindle proprio appena uscito. It’s a kind of magic, che mi sembrava giusto sfruttare per verificare subito se l’ambiziosa impresa del Re è stata coronata da successo. In “11/22/63”, infatti, lo scopo ultimo del viaggio nel tempo è impedire l’omicidio di John Kennedy il 22 novembre del 1963, nella speranza di cambiare in meglio il corso della storia. Da un’idea del genere può uscire una gigantesca cazzata o qualcosa di molto buono: King per fortuna sua ha pescato le carte giuste e ha costruito attorno a questa idea un romanzo fluviale in cui è riuscito a far stare insieme ricostruzione storica, personaggi tridimensionali e probabilmente più richiami alla sua cosmogonia di quanti io sia stato in grado di cogliere (sono stato un lettore della Torre Nera abbastanza distratto, ahimè).
Colpisce, rispetto a molti altri romanzi di King di questa mole, la rapidità con cui si entra nel vivo della vicenda: il varco temporale verso il 1958 (e ritorno) viene introdotto praticamente all’inizio del libro ed Epping, docente di un liceo del Maine uscito dal matrimonio con un’alcolista, fa il suo primo viaggio indietro nel tempo quasi immediatamente. È una cosa un po’ da episodio di “Ai confini della realtà”, ma che King riesce a spogliare da ogni possibile ingenuità e a farla sembrare assolutamente logica, così come succede con le “regole del gioco” secondo le quali il varco porta sempre nello stesso giorno del 1958 e nello stesso posto; qualunque azione effettuata nel passato che cambi il futuro viene annullata da un eventuale viaggio successivo; non importa quanto tempo si passi nel passato, nel “presente” saranno sempre passati solo due minuti.
Insomma, sembra che King abbia fretta di sbrigare le formalità il più in fretta possibile per buttarsi a capofitto nel vivo della vicenda, cosa a cui si dedica diligentemente. C’è qualche eco da Ritorno al futuro, che non poteva non essere evocato in qualche modo (l’almanacco con i risultati sportivi), e c’è un commovente incontro a Derry con due personaggi di It. La ricostruzione dell’America di fine anni cinquanta-inizio anni sessanta fatta King è precisa e oscilla tra il fascino per un mondo più semplice e il rigetto per un mondo molto più bigotto e rigido (oltre che ovviamente segnato dalla segregazione razziale); un mondo che in ogni caso sembra offrire un perfetto rifugio a una delle più persistenti ed efficaci incarnazioni del Male secondo Stephen King, vale a dire il padre di famiglia violento con moglie e/o figli. Qui ne abbiamo addirittura tre occorrenze, una delle quali è proprio Lee Oswald, l’uomo che uccise JFK (taglio la testa al toro per non entrare nel campo minato delle ricostruzioni della morte di Kennedy, argomento su cui onestamente non so abbastanza per propendere per questa o quell’ipotesi; vi segnalo solo questo breve spezzone su una delle figure di contorno più inquietanti e a suo modo kinghiane di quella mattinata texana, l’uomo con l’ombrello). Su così tante pagine di romanzo è fisiologico che ci siano alcuni momenti di stanca, specie nelle sequenze di raccordo tra le parti più importanti, ma generalmente King riesce a tenere alto il ritmo e, di tanto in tanto, a lasciare cadere senza troppo clamore frammenti di trama che troveranno completamento più avanti (così come alla fine vengono spiegate molte cose apparentemente senza senso che succedono nella prima parte del libro). Come nelle opere migliori di King, l’incantesimo per cui da un lato desideri di arrivare il più in fretta possibile alla fine del libro per scoprire che cosa succederà e dall’altro vorresti invece ritardare quel momento il più possibile per non dovere abbandonare i personaggi funziona benissimo e il libro si legge tutto sommato in fretta (anche se ovviamente leggerlo in inglese lo fa durare un po’ di più).
In questo caso, anticipare troppo della trama rovinerebbe il piacere della lettura; basti solo sapere che il finale è soddisfacente sia dal punto di vista delle implicazioni dei viaggi nel tempo sia da quello dello sviluppo dei personaggi. E che le due cose in qualche modo si sostengono a vicenda. Tenete a portata di mano i fazzoletti, in ogni caso.
“Chi non muore” di Gianluca Morozzi (Guanda) è un interessante tentativo da parte dello scrittore bolognese di riunire in un romanzo solo i due filoni della sua produzione – la commedia e il thriller-horror venato di sovrannaturale. In realtà, l’equilibrio tra i due elementi qui risulta sbilanciato sul primo versante: le tragicomiche vicende musical-sessual-sentimentali di Angie, giovane studentessa fuorisede che vive in un appartamento condiviso con improbabili coinquiline e cerca di conquistare un tormentato e sfuggente tastierista unico superstite dell’omicidio anni prima dei membri del suo gruppo, occupano la gran parte del libro e la decisa sterzata alla storia che danno le rivelazioni finali è davvero brusca. Ma nonostante questo difetto, il libro è uno spasso. Morozzi è riuscito a trovare una voce narrante femminile credibile attraverso la quale raccontare miserie, glorie e idiosincrasie del fuori-sedismo a Bologna, tra cui quella sensazione che hai che Bologna sia un po’ una di quelle cittadine lovecraftiane in cui gli abitanti hanno i loro oscuri segreti che li spingono a non dare poi così tanta confidenza a chi viene da fuori (e l’assoluta certezza che la città finisca al Parco Nord e che da lì in poi ci sia una terra misteriosa in cui può accedere di tutto, cosa implicitamente confermata nel romanzo). L’altra parte del romanzo ha degli spunti interessanti (e c’entra con i due libri di sopra) ma è troppo compressa e accelerata per sfruttarli appieno; se Morozzi fosse riuscito a bilanciare perfettamente le due parti, avrebbe tirato fuori il suo capolavoro. Così, invece, è “solo” un libro molto divertente con un finale parecchio what the fuck?
A proposito di storielline divertenti, “La vita sessuale di Alessandro Baricco” di Gianluca Colloca (Coniglio Editore) è un racconto breve in cui un gruppo di giovani italiani in vacanza all’estero si spaccia a turno per un famoso scrittore italiano per impressionare delle turiste.
Il libro è una piacevole cazzatella pieno di quelle battute e situazioni che fanno tanto ridere noi maschi eterosessuali medi ma non è oggettivamente niente di che; una lettura piacevole per una mezz’oretta di treno, con un finale abbastanza scontato.
Finita la parentesi, torniamo a bomba sulla fantascienza, con il secondo romanzo per young adults di Cory Doctorow, vale a dire “For the win” (Tor; disponible per il download in inglese qua).
Secondo me, che di Cory Doctorow in italiano si trovi pochissimo (X, vale a dire Little Brother, il suo primo romanzo per young adults è da poco disponibile presso le librerie remainder) è un evidentissimo segno della povertà e della miopia del panorama editoriale italiano, perché Doctorow è un autore che si adopera in quella che si potrebbe definire con l’espressione desueta “narrativa d’anticipazione” o con la più precisa locuzione inglese “social science fiction”. In romanzi come Little Brother, Makers o appunto For the win Doctorow racconta di un mondo “venti minuti nel futuro” per spiegare come le tecnologie stanno cambiando o cambieranno il nostro mondo sociale ed economico. FTW è un romanzo, come detto, per “ragazzi” ma ha il pregio di trattare i suoi lettori non come dei cretini e come tale può essere trovato godibile un po’ da chiunque, credo (o almeno da me); Doctorow in questo ricorda molto R. A. Heinlein, per esempio, che scrisse Starship Troopers come un juvenile, l’equivalente di allora della categoria young adults, nonostante sia un romanzo tremendamente politico appena appena mascherato da storia d’avventura. FTW parla, principalmente, dell’economia dei mondi virtuali dei giochi di ruolo online come World of Warcraft (e tutta una serie di altri inventati per il romanzo da Doctorow, tra cui uno ambientato nella Wonderland di Carroll) per parlare dell’economia del mondo reale, dei diritti dei lavoratori, della situazione nelle fabbriche cinesi e via discorrendo. Ogni tanto l’azione si interrompe e partono delle efficaci lezioni di economia, condite da gustose metafore, per quella quella in cui si paragona l’economia a un treno in corsa (traduzione mia):
So in practice, this big engine that determines how much food is grown, whether you’ll have to sell your kidneys to feed your family, whether the factory down the road will make Zeppelins, whether the restaurant on the corner can afford the coffee beans, all this important stuff has no one in charge of it. It is a runaway train, the driver dead at the switch, the passengers clinging on for dear life as their possessions go flying off the freight-cars and out the windows, and each curve in the tracks threatens to take it off the rails altogether. There is a small number of people in the back of the train who fiercely argue about when it will go off the rails, and whether the driver is really dead, and whether the train can be slowed down by everyone just calming down and acting as though everything was all right. These people are the economists, and some of the first-class passengers pay them very well for their predictions about whether the train is doing all right and which side of the car they should lean into to prevent their hats from falling off on the next corner. Everyone else ignores them.
Quindi, in pratica, questo enorme motore che determina quanto cibo viene coltivato, se dovrai vendere o no un rene per sfamare la tua famiglia, se la fabbrica in fondo alla strada costruirà Zeppelin o altro, se il ristorante sull’angolo si può permettere i chicchi di caffè e tutto queste genere di cose importanti non ha nessuno che lo controlli. È un treno in fuga il cui macchinista è morto ai comandi, con i passeggeri che cercano di aggrapparsi come disperati mentre ciò che possiedono vola fuori dai carri merci e dai finestrini, un treno che a ogni curva rischia di uscire dai binari. C’è un piccolo gruppo di persone in corsa al treno che discute animatamente su quando il treno deraglierà o se il macchinista è morto per davvero e se non fosse possibile fare rallentare il convoglio dandosi tutti una calmata e facendo finta che sia tutto a posto. Queste persone sono gli economisti e alcuni dei passeggeri in prima classe li pagano fior di quattrini per sapere se secondo le loro previsioni il treno sta andando bene e verso quale lato della carrozza dovrebbero piegarsi per evitare di perdere il cappello alla prossima curva. Tutti gli altri gli ignorano.
Doctorow spiega i meccanismi dell’economia mentre un gruppo di ragazzini e ragazzine, americani, cinesi, indiani, lotta per i diritti dei lavoratori digitali (e non).
È un romanzo che forse i quattro anni dalla stesura hanno reso ancora più attuale – leggevo le pagine sul funzionamento dell’economia mentre saliva la febbre da spread e si parlava di default – ed è il genere di cose che avrei voluto avere a disposizione quindici anni fa. Spero che qualcuno prima o poi lo traduca in italiano, ma ci credo poco.
Dicevamo di numero speciale quasi completamente dedicato alla fantascienza; per certi versi rientra in questa categoria anche “Steve Jobs” di Walter Isaacson (Mondadori), biografia del co-fondatore della Apple morto a ottobre del 2011. Ci rientra perché in fondo Jobs è stato uno dei principali attori del cambiamento culturale per cui i computer sono passati negli anni settanta da cose gigantesche per utilizzi scientifici e industriali a oggetti di uso più o quotidiano per sempre più persone, non solo al lavoro ma anche in casa. È vero che Jobs non ha “inventato” nulla nel senso più stretto del termine, ma le sue intuizioni, la sua “visione”, sono state determinanti nel portare a un pubblico più ampio le scoperte di altri.
La biografia di Isaacson è una biografia autorizzata, un genere che di solito si presta particolarmente all’agiografia. È piuttosto sorprendente, quindi, scoprire che Jobs non ha fatto nulla o quasi per tenere fuori dalle pagine del libro gli aspetti più spigolosi e meno accomodanti del suo carattere, dalle astruse convinzioni sull’igiene personale (da giovane era convinto che mangiando solo frutta non avesse bisogno di lavarsi) al ruvido trattamento riservato alle persone con cui ha lavorato, passando per il rifiuto di riconoscere la prima figlia, Lisa. Restano però fuori controversie ben più serie degli ultimi anni legate ai suicidi negli stabilimenti cinesi della Foxconn, dove si assemblano diverse linee di prodotti Apple.
Isaacson è un biografo navigato e sa muoversi bene tra le decine e decine di interviste realizzate con le persone che hanno lavorato con Jobs, facendo scorrere una mole impressionante di avvenimenti senza particolari intoppi o momenti di stanca. Certo, il racconto della prima parte dell’avventura della Apple, che è anche il racconto della nascita dell’industria dell’home computer, è sicuramente molto più interessante di buona parte delle cose che succedono più avanti (non fosse altro perché gli eventi più recenti li abbiamo più o meno seguiti tutti “in diretta”).
Il tratto che emerge più spesso nel libro parlando di Jobs è la sua straordinaria capacità di persuasione delle persone, riconosciuta da più o meno chiunque abbia avuto a che fare con lui e definita quasi “magica”. Però allo stesso tempo quasi nessuno dà di lui un ricordo limpido, come se in un modo o nell’altro fosse riuscito nel corso della sua vita a infastidire in un modo o nell’altro, volente o nolente, più o meno tutte le persone con cui è entrato in contatto.
L’impressione finale è che la Apple senza di lui farà una fine abbastanza orribile, perché non sembra il genere di persona capace di lasciare eredi: il bizzarro mix di carisma, idee audaci e idiosincrasie che ha dato vita ai prodotti con cui la Apple si è risollevata dopo il suo ritorno a Cupertino è probabilmente destinato a morire con lui. Andranno avanti con i progetti a cui ha lavorato prima di morire ancora per qualche anno e poi, salvo sorprese, inizierà un nuovo declino. Un po’ tipo i Queen senza Freddie Mercury (tutto sommato due personaggi simili: origini esotiche – il padre biologico di Jobs era siriano –, stile di vita sregolato, idee folli sulla carta che si rivelano grazie al loro carisma vincenti, la malattia sotto i riflettori inseguiti dalla stampa scandalistica, al lavoro quasi fino all’ultimo respiro…).
Settembre è stato un mese in cui, non so bene perché, forse perché mi sono capitati tra le mani libri parecchio svelti, ho letto parecchio. Per questo ci ho messo un po’ a finire il post. Ma ce l’ho fatta.
Intanto, ho finito The Stand, di Stephen King, il romanzo in Italia noto come “L’ombra dello scorpione”. Un titolo enigmatico, quello italiano, che chissà da dove è saltato fuori (il titolo inglese significa più o meno “La resistenza”; in spagnolo e portoghese si chiama “La danza della morte”, in francese “L’epidemia” e in tedesco “The stand”) e che batte persino “Una splendida festa di morte” (titolo italiano della prima edizione di “The Shining”) come traduzione più casuale di un titolo kinghiano, visto che se non altro in Shining si fa cenno alle feste dell’Overlook e di morte ce n’è quanta se ne vuole. Di scorpioni e di ombre, invece, qui non ne ricordo.
Comunque, la storia la sanno pure i sassi, oggi: i militari sviluppano un super-virus, per un errore il virus sfugge di mano e stermina praticamente tutta la popolazione mondiale. In America, si fronteggiano due gruppi di sopravvissuti: i Buoni e i Kattivi. Benché il romanzo sia famoso per la presenza di Randall Flagg, il cattivo kinghiano per antonomasia, la parte davvero imperdibile è quella iniziale, in cui King avvolge le storie dei suoi personaggi attorno al diffondersi dell’epidemia e in cui descrive il progressivo sfascio della civiltà e della società così come le conosciamo. È un King pienamente a suo agio nel fare quello che sa fare meglio: raccontare le vite di gente normale, costruire personaggi un pezzettino alla volta, creare scene apparentemente normali in cui si inseriscono piccoli elementi disturbanti. Una menzione particolare per l’heinleiniano professor Bateman. Anche il capitolo in cui entra in scena Flagg è un capolavoro di scrittura e narrazione.
Poi, però, si formano queste due benedette comunità, i Buoni e i Kattivi, e la noia inizia a scorrere sovrana. Tra l’altro il finale è (letteralmente) un terrificante deus ex machina, e non ci capisce nemmeno bene che utilità abbia la spedizione della delegazione dei buoni a Las Vegas, visto che è del tutto ininfluente su quanto succede (nonostante sia stata “ordinata” dall’alto). E purtroppo Flagg, alla fine dei conti, è un super-cattivo allo stesso livello di inettitudine di Voldemort.
Boh, davvero boh. Se fosse tutto bello come la prima parte, sarebbe un capolavoro assurdo. Lo scontro tra il Bene e il Male (nei termini in cui è raccontato, poi!) lo rende invece un mattonazzo pazzesco nella seconda metà. Tra l’altro, la versione attuale è un’espansione pubblicata alla fine degli anni 80 dell’originale pubblicato dieci anni prima (che a quanto ho capito si dilungava meno sull’espansione dell’epidemia – che è appunto la parte migliore) e la vicenda che prima si svolgeva all’inizio degli anni 80 adesso si svolge all’inizio degli anni 90. Purtroppo il lavoro di aggiornamento dei riferimenti culturali e temporali non è stato particolarmente curato e i personaggi escono da degli anni 80 che assomigliano terribilmente agli anni 70.
Mentre leggevo mi domandavo come suonasse “Baby can you dig your man?”, il successo di Larry Underwood. Ho scoperto che è stata registrata da Al Kooper per una miniserie tv tratta dal libro:
Peter Gunnarson era uno svedese che arrivò in Nuova Svezia (la colonia svedese lungo il fiume Delaware) nel 1640. Giunto sul continente americano, prese il nome di Rambo, che era la contrazione di “Rambergetbo”, cioè “quello che viene da Ramberget”, un’isola nei pressi di Gothenburg. Coltivatore prima e uomo politico poi, diede il suo nome a una varietà di mele.
Nel 1968, in Pennsylvania, un giovane aspirante scrittore nato in Canada sta rimuginando sul nome da dare al protagonista del romanzo che ha intenzione di scrivere. E quello che succede ce lo racconta lui:
One of my graduate school languages was French, and on an autumn afternoon, as I read a course assignment, I was struck by the difference between the look and the pronunciation of the name of the author I was reading, Rimbaud. An hour later, my wife came home from buying groceries. She mentioned that she’d bought some apples of a type she’d never heard about before. Rambo. A French author’s name and the name of an apple collided, and I recognized the sound of force.
Una delle lingue che studiavo era il francese e, un pomeriggio d’autunno, leggendo uno dei testi del corso, sono rimasto colpito dalla differenza tra come si scriveva e come si pronunciava il nome dell’autore che stavo leggendo, Rimbaud. Un’ora dopo, mia moglie è tornata a casa dopo aver fatto la spesa. Mi ha detto che aveva comprato alcune mele di una varietà di cui non aveva mai sentito parlare. Rambo. Il nome di un poeta francese e quello di una mela si scontrarono e riconobbi il suono della forza.
Insomma: uno dei personaggi iconici del XX secolo deve il suo nome, per vie traverse, a un colono svedese e a un poeta francese.
Tutto questo per dire che ho letto “First Blood“, il romanzo di David Morrell pubblicato nel 1972 dal quale Sylvester Stallone trasse un film dallo stesso titolo, che in Italia è arrivato come “Rambo”.
La storia credo che la conoscano pure i sassi: un reduce del Vietnam arriva in una cittadina, lo sceriffo del luogo lo scambia per un vagabondo e cerca di farlo andare via, lui non se ne va, lo sceriffo lo arresta, lui scappa, si rifugia nei boschi e inizia il suo Vietnam personale contro gli uomini che cercano di fermarlo.
Morrell è stato bravo e attento a caratterizzare entrambi gli antagonisti con la stessa cura. Rambo non è il protagonista assoluta, ma divide il ruolo con lo sceriffo. I capitoli alternano il punto di vista di ciascuno e i due uomini sono più simili di quanto non possa sembrare a prima vista. Alla fine, anzi, è sostanzialmente un romanzo sull’incapacità maschile di comunicare: a scongiurare tutto il macello sarebbe bastato che nel loro primo incontro i due si fossero parlati un pochino di più. E invece diventa uno scontro tra cazziduri ciascuno tutt’altro che disposto a cedere sul punto. Colpisce molto la caratterizzazione di Trautman, che invece che essere la figura paterna che ricordavo dal film è un freddo addestratore in serie di assassini. In generale, rispetto al film, è molto più radicale e problematico il tema dei reduci del Vietnam, che resta del tutto (e drammaticamente) irrisolto.
Ci sono ovviamente un sacco di sequenze di azione ben orchestrate, però Morrell non è che sia il più bravo scrittore del mondo.
Ha avuto un’ottima idea, l’ha messa giù ordinatamente e con tutti gli snodi al punto giusto, ma si sente comunque che è il tipico romanzo americano da “scuola di scrittura”, privo di quel qualcosina in più che lo renda davvero indimenticabile.
Se c’è invece qualcosa che rende indimenticabile un classico come “Assassinio sull’Orient Express” di Agatha Christie è quel distaccato contrasto che c’è tra la compostezza della messa in scena della storia, tutta molto in punta di forchetta, e la ferocia e la brutalità, degne di un romanzo noir, che c’è sotto all’atmosfera rarefatta dei vagoni di lusso. Non so se si possa parlare di spoiler per uno dei gialli più famosi dell’universo, ma immagino che come non l’avevo ancora letto io ci sia altra gente che non conosce i particolari della storia e sarebbe un peccato rovinare il gusto della sorpresa.
Per inciso, la mia edizione è quella uscita a luglio nella nuova veste grafica del Giallo Mondadori, che ha un formato più grande e un font di dimensioni più generose, per venire incontro alla triste realtà che il pubblico della collana è per la maggior parte composto da gente di una certa età che inizia a fare fatica a leggere. O questo o è Maurizio Costanzo, che tra le mille altre cose fa pure il direttore del Giallo, che non ce la fa più a leggere.
“I delitti della Speranza” di Javier Calvo (Baldini & Castoldi Dalai Editore) (l’ultimo chiuda la porta) è un romanzo ambientato nella Barcellona del 1877, sconvolta da una serie di efferati delitti proprio mentre l’industrializzazione sta cambiando il volto della città. Si presenta apparentemente come un giallo (e in effetti l’impianto narrativo è quello del giallo) ma rapidamente si capisce che Calvo non sta scrivendo un bel romanzo in costume di menti razionali alla ricerca di un assassino con addosso i loro bei abiti ottocenteschi. Uno dei personaggi sembra un incrocio tra Sherlock Holmes e uno scienziato pazzo (più scienziato pazzo, a dire il vero), l’atmosfera è quella di un horror che sembra flirtare con il sovrannaturale (l’irrazionale ha una buona parte nella storia, senza però che si arrivi mai nel fantastico vero e proprio) e tutto il romanzo è come se si svolgesse in un pozzo nero. Se un paragone va fatto è con la Londra descritta da Alan Moore ed Eddie Campbell in “From Hell”, il capolavoro sulla storia di Jack lo Squartatore (il film con Keanu Reeves è solo un buon giallo in costume, il fumetto è un’opera letteraria colossale che tutti dovrebbero leggere o morire provandoci).
Il romanzo di Calvo non cerca la strizzata d’occhio post-moderna, nemmeno quando introduce nella storia uno scrittore super-star autore di un immaginario best-seller a puntate, Città segreta, ma fa terribilmente serio: usa gli strumenti del romanzo gotico ottocentesco con la massima consapevolezza, aggiornandoli a un gusto contemporaneo e a una scrittura densa ed evocativa. Insomma, vince.
(Un plauso alla casa editrice per essere sfuggita alla tentazione dell’uomo in frac per la copertina)
(E un plauso anche alla traduttrice, che ha fatto un lavoro notevole)
(Per la trasparenza, devo dire che è una mia amica. Ma sono davvero convinto abbia fatto un bel lavoro di eliminazione del “traduzionese”)
La questione dell’eredità letteraria di Luciano Bianciardi è un po’ confusa. Anni fa ISBN fece uscire due volumi che raccoglievano la sua produzione, ribattezzati “AntiMeridiani“, prendendo in modo un po’ snob le distanze dalla storica collana Mondadori ma ripetendone formato, prezzo e alone prestigioso. Una scelta che l’altro figlio di Bianciardi, Ettore, non ha trovato consona allo spirito del padre, cristallizzato in un’edizione di lusso non proprio accessibile; a dimostrazione di ciò, Ettore Bianciardi è diventato collaboratore di Stampa Alternativa per la riproposta delle opere del padre, presumo quelle rimaste fuori dai due balenotteri ISBNiani.
“Ai miei cari compagni” (Stampa Alternativa) è una raccolta di scritti di tema risorgimentale, alcuni inediti, di Luciano Bianciardi, assemblati da Ettore in una specie di romanzo a posteriori. Il diario garibaldino è la parte meno interessante, se non altro perché non fa altro che riprendere la memorie di Giuseppe Bandi, garibaldino, di cui lo scrittore toscano aveva curato un’edizione (ne ho parlato giusto un anno fa). La parte spettacolare e che vale i soldi del libro è il pirotecnico racconto delle Cinque Giornate di Milano, in cui Bianciardi fa collidere, senza dare alcuna spiegazione ma in totale scioltezza, la Milano di metà Ottocento e quella a lui contemporanea. L’effetto è straniante – doveva esserlo di più all’epoca della stesura del testo perché oggi quella Milano e quell’Italia sembrano pure loro lontanissime come gli Austriaci a Milano – ma efficace. Il grande merito è quello di scuotere lo sterile monumento nazionale in cui è stato trasformato il Risorgimento e ridargli vita, mettere a nudo le contraddizioni, i germi di problemi storici di lunga durata insiti in un’unificazione fatta quasi per sbaglio e tutto sommato non voluta davvero nemmeno dai Savoia.
Non mi ha colpito particolarmente, invece, la serie di “esercizi” proposti al lettore dal curatore del volume.
“I Beatles in India” di Lewis Lapham (e/o) è un reportage scritto dall’unico giornalista ammesso a Rishikesh nell’ashram del Maharishi all’epoca in cui i Beatles soggiornarono là per approfondire la meditazione trascendentale. Va detto che il titolo, tanto quello italiano quanto quello originale, è leggermente fuorviante perché Lapham con i Beatles a Rishikesh ha avuto pochissimo a fare, un po’ perché in realtà non gli interessavano neanche tanto e un po’ perché erano comunque, pur tra tutte le star del cinema e della canzone che affollavano in quei giorni il santuario, gli ospiti meno avvicinabili di tutti. Che cos’è allora il libro? È soprattutto un racconto dell’ambigua figura del Maharishi e della sua dottrina, tra tradizione spirituale e spiccatissimo senso degli affari (l’impressione che si trattasse di un furbone di tre cotte che è stato bravissimo a cavalcare i cavalli giusti al momento giusto resta fortissima, dopo aver letto il libro). I Fab Four appaiono ogni tanto, quasi in secondo piano, e tutto sommato quello che viene detto su di loro non fa altro che confermare la vasta galassia di aneddoti su quel periodo indiano, a partire da quelli Ringo Starr – il primo ad andarsene – con la sua avversione per il cibo, gli insetti e la meditazione in generale.
Il reportage è bello, si legge alla svelta e ha ancora quel buon sapore di giornalismo di viaggio di una volta. È una bella testimonianza di una delle pagine più pittoresche di quella straordinaria storia del Novecento che è stata l’avventura dei Beatles (al di là della musica, la storia dei Beatles è così strettamente intrecciata con buona parte della cultura di almeno un ventennio del secolo scorso che mi stupisco non la facciano studiare a scuola).
Con la storia dei Beatles ha dei legami – poco più che un inside joke, ma che fa immediatamente drizzare le orecchie a chi familiarità con le date – “Cicatrici” (Guanda), romanzo di Gianluca Morozzi appartenente alla sua vena “seria” (come Blackout o la serie a fumetti con Michele Petrucci FactorY). In realtà Morozzi non ha lasciato del tutto da parte le tragicomiche avventure sentimentali di trentenni non abbastanza cresciuti: semplicemente ha preso un personaggio parecchio border-line innamorato di una donna bellissima ma che c’ha grossa crisi pure lei e invece di virare la storia in commedia è andato verso atmosfere tragiche. Non è il romanzo migliore di Morozzi e l’ambizione di unire a una storia di dominazione psicologica una sfumatura sovrannaturale non si realizza completamente, perché l’innesto tra le due parti stride un po’. Però come sempre si legge bene, i dialoghi filano che è un piacere e le pagine vanno via una dopo l’altra.
(e con questo siamo arrivati al 15 del mese. Poi ho iniziato a leggere A Dance with Dragons e ci ho messo venti giorni. Era un po’ lungo.)
Poi uno si chiede a che cosa servono gli ebook. Per portarsi in giro mallopponi da 1000 e passa pagine, fondamentali in caso di volo intercontinentale, senza avere l’ingombro di un malloppone da 1000 e passa pagine. A questo proposito mi ero comprato “Il quinto giorno” di Franz Schätzing (Nord) (e le modalità di quell’acquisto hanno fornito lo spunto per uno dei post più fortunati di questo blog), che si è rivelato un buon compagno di volo tra Roma e Newark, NJ, almeno per la prima metà. Tutta la prima parte di questo thrillerone fantascientifico è avvincente e ben strutturata, con l’inspiegabile “ribellione” di creature marine che sconvolge gli oceani. Non è niente di trascendentale, ma i personaggi sono ben ricalcati sui modelli del genere, le informazioni scientifiche vengono infilate nella narrazione senza eccessi di infodump, la costruzione della tensione è da manuale. Il romanzo finisce poi per trascinarsi parecchio e diventare molto meno interessante nella seconda parte, quella della “riscossa” umana, che ho trovato molto più noiosa da leggere, anche perché una volta svelata l’origine del mistero (che è comunque ingegnosa) gran parte del divertimento è andato. Però tanto di cappello alla portata della storia e alla spaventosa mole di documentazione che c’è dietro. C’è anche qualche passaggio vagamente profetico:
rammentate che, oltre alla distruzione, quando uno tsunami arriva tutto esplode. Nessuno riesce a cavarsela nella lotta contro il fuoco. Le fasce costiere sono state prima inondate e poi bruciate. Ah, già, poi è successa anche un’altra cosa: il risucchio della massa d’acqua che stava rientrando in mare ha interrotto il ciclo di raffreddamento di alcune centrali, stupidamente costruite nei pressi della costa. Abbiamo avuto un ’massimo incidente ipotizzabile’ in Norvegia e uno in Inghilterra. Vi basta?
E inoltre una spiegazione efficace di che cosa si intende per “fine delle risorse petrolifere”:
In fondo, il problema non era prevedere quando sarebbe uscita l’ultima goccia di petrolio, ma quando l’estrazione non sarebbe più stata economicamente vantaggiosa. Il tipico sviluppo della resa di un giacimento seguiva le leggi della fisica. Dopo la prima perforazione, il petrolio veniva spinto fuori dalla pressione e spesso zampillava per decenni. Col tempo, però, la pressione si riduceva. Sembrava che la terra non volesse più dare il petrolio, che lo trattenesse in minuscoli pori con una pressione capillare. In tal modo, ciò che all’inizio usciva spontaneamente, ora doveva essere estratto con grande spesa. Costava un capitale. La quantità estratta diminuiva rapidamente molto prima che il giacimento fosse esaurito. Sottoterra poteva esserci ancora petrolio, ma, se estrarlo richiedeva più energia di quanta ne procurasse, allora era meglio lasciarlo dov’era.
La cospicua produzione di Gianluca Morozzi si divide bene o male in due grossi filoni: i thriller (a cui appartengono anche fumetti come “FactorY” e “Il vangelo del coyote“) e quelle che potremmo definire commedie sentimentali. “Bob Dylan spiegato a una fan di Madonna e dei Queen” appartiene a quest’ultimo filone e riprende i personaggi di “L’era del porco”, buttando questa volta il povera Lajos alla scoperta dell’identità del suo vero padre, vale a dire Bob Dylan. C’è un sacco di rock, ci sono un sacco di buffe avventure sentimentali, c’è una ragazza apparentemente inarrivabile. Purtroppo l’Orrido (uno dei personaggi più azzeccati del romanzo precedente) è praticamente assente. Comunque, ancora una volta sono rimasto colpito da come scorre fluida la scrittura di Morozzi: il tono colloquiale, senza essere sciatto, funziona alla perfezione e mi sono trovato, come al solito, a girare pagina dopo pagina e sghignazzare. Poi, certo, non è nulla che cambierà la storia della letteratura e probabilmente tra un mese ricorderò più solo un paio di cose di questo libro, ma il suo sporco lavoro di libro di intrattenimento lo fa bene. Ma quando c’è di mezzo Bob Dylan posso perdere senso critico. Al vecchio Bob sono parecchio affezionato e gliene devo almeno una, visto che se nel luglio del 2001 non fossi andato a vedere un suo concerto sarei finito in mezzo alla mattanza del G8. Ma questa è una storia che ho raccontato da un’altra e che tra qualche giorno salterà fuori (poi c’è anche quella volta che ho provato ad attaccare bottone in treno con delle ragazze americane chiedendo se la traduzione di Don’t think twice it’s all right che avevo su un libro era corretta – e non lo era – ma questa è un’altra storia ancora e non particolarmente interessante)
Le prima pagine (con uno spoiler devastante su Soffocare, di Chuck Palahniuk) comunque sono disponibili qui.
Uno dei concetti che mi è sempre piaciuto un sacco quando si parla di musica è quello della “scena”, vale a dire tutta la complessa rete di band, fan, organizzatori che in un ambito più o meno ristretto (solitamente cittadino) ruota attorno a un genere musicale. La teoria della “scena” presuppone che all’ombra degli artisti che per un motivo o per l’altro riescono a emergere ci sia tutta una serie di personaggi meno fortunati che hanno però anche loro un qualche ruolo nel successo di chi sta sopra. Nel caso della scena newyorchese della seconda metà degli anni Settanta, la cosa è abbastanza evidente: gente come Ramones o Blondie ha fatto il botto, ma dietro di loro c’era una quantità incredibile di gruppi con cui hanno diviso palchi, camerini, serate, musicisti. Philippe Marcadè, autore di “Oltre l’avenue D” (Agenzia X), è uno di questi. Il suo gruppo, The Senders (“quelli che ti ci mandano”) è una nota a pie’ pagina di quella storia musicale, nonostante il loro rhythm and blues sporco e ossessivo non fosse malissimo, ma lui c’era. Arrivato a New York dopo un viaggio per gli States dalla Francia, la sua festa di benvenuto coincide con uno dei primi, se non il primo, concerto dei Ramones. Per dire. Il libro è pieno di aneddoti di prima mano su Johnny Thunders (che per qualche tempo ha anche suonato con i Senders), Nancy Splugen, Debbie Harry, i Ramones e piccoli e grandi fatti del CBGB’s, come il cantante degli Electric Chairs, Wayne County, che spacca la spalla di Handsome Dick Manitoba con l’asta del microfono dopo che gli aveva urlato “frocio” una volta di troppo. Ma compaiono anche a sorpresa un allora ignoto Bob Marley e una giovane Madonna in cerca di fama.
Marcadé racconta tutto con un tono ingenuo, come fosse una specie di bambino dispettoso lasciato libero in un meraviglioso negozio pieno di giocattoli pericolosissimi e colorati, in compagnia di un’orda di suoi simili. Sono tanti episodi, spesso scollegati gli uni dagli altri, ma messi insieme danno il sapore e l’eccitazione di un’epoca. E poi il brusco risveglio, le prime morti per AIDS, per droga, trovare un modo per restare vivi. Spiace che Marcadé non abbia avuto più tempo nelle sue giornate per avere altre cose da raccontare.
Ma intanto, per approfondire (fin troppo, forse, visto che racconta la storia del punk partendo dai Doors) ho ordinato questo.
E ora, qualcosa di completamente diverso.
Alla fine di un recente consiglio di facoltà si è alzato un docente a dire che nella nostra facoltà ci voleva Storia del cinema e siccome nessuno sapeva di aspiranti a un concorso per Storia del cinema tutti hanno guardato il collega come se fosse un matto e come se parlasse non in italiano, come in effetti parlava, ma in assiro-babilonese.
Questo frammento viene da “Le rivoluzioni vanno sempre storte” di Luciano Marrocu. Come si capisce, è un (meta)romanzo di ambientazione universitaria che registra il naufragio della vita di un professore e scrittore, che assiste praticamente impotente all’organizzazione di un convegno sui falsi di Arborea, documenti prodotti nella seconda meta dell’Ottocento che inventavano per la Sardegna un passato medievale glorioso e all’avanguardia della cultura italiana ed europea. Curiosamente, si troverà a essere l’unico contrario al tentativo di presentare questi falsi come segno della grande vivacità culturale della cultura sarda del XIX secolo e l’unico perplesso davanti alla proposta di uno studioso di creare una lingua sarda unificata che sintetizzi il sardo del nord e quello del sud.
Ci sono personaggi bizzarri (uno studioso di lingua sarda giapponese, per dire, con tanto di abito tipico) e il tono è ironico ma allo stesso malinconico. In alcuni momenti c’è qualcosina di Saramago, nella malinconia e nello sguardo acuto.
Siccome Sugaman, la casa editrice, pubblica in digitale, il libro si trova solo su bookrepublic.
Intervallo musicale con una delle canzoni pop meglio costruite del decennio scorso, che c’entra con il prossimo libro:
Sì, questo è un guilty pleasure.
È invece un piacere e basta, “Toxic” di Hallgrìmur Helgason (ISBN), commedia dark che viaggia veloce come un proiettile tra i Balcani, New York e l’Islanda, seguendo le vicende di un ex soldato croato che diventa un killer a New York, città da cui deve poi scappare rocambolescamente dopo un omicidio andato a male, ritrovandosi in Finlandia nei panni di un predicatore televisivo. A un certo punto, il killer con la tonaca sembra quasi Don Zauker, poi la storia prende altri sentieri e racconta di una faticosa redenzione che passa attraverso le viscere più sporche dell’apparentemente linda società islandese, sempre con una specie di ghigno beffardo sulle labbra. È uno di quei romanzi che mentre lo leggi ti immagini l’autore che butta giù in prima stesura pagine su pagine, divertendosi come un pazzo a tessere i fili della storia (poi magari invece ha sudato e bestemmiato ogni riga, chi lo sa) e che leggi a rotta di collo, godendoti ogni passaggio. C’è sicuramente un po’ di Tarantino (citato giustamente) e c’è quello strano senso dell’umorismo che hanno i popoli che hanno troppo freddo e troppo poco sole, oltre che uno sguardo sull’Islanda cinico e poco accondiscendente (il vecchio trucco dell’usare il punto di vista dello straniero per descrivere la propria patria funziona). Ma ci sono anche delle storie di guerra, quella tra serbi e croati, degne dei migliori esempi del genere. E l’Eurofestival. E cantanti croate protagoniste di private sex tapes finiti in rete. E pure i Lordii, di sfuggita.
Per quello che vale, è stato il romanzo del mese, se non si era capito.
Massimo Carlotto, oggi scrittore affermato, ha esordito con un memoriale in cui racconta la sua fuga per il mondo dopo essere stato condannato per un delitto non commesso, “Il fuggiasco” (e/o). Nel ricordare i suoi tre anni in fuga, Carlotto non si spara pose da eroe, non cerca di costruire un personaggio da film d’azione ma al contrario racconta di piccole quotidianità, di debolezze e fragilità, di paure e di necessità di arrangiarsi, sempre con un filo di autoironia.
La vicenda nel complesso è allucinante (come mi fa strano pensare che si possa davvero scappare per così tanto, passando da uno stato all’altro, ricevendo visite da parenti e fidanzata), ma paradossalmente Carlotto la rende così “ordinaria” che ogni tanto quasi ti dimentichi di perché sia in giro per il mondo. Fino al ritorno nell’allegro mondo delle carceri italiane e alla vicenda della grazia concessa dal presidente della Repubblica.
In effetto fa strano trovare in un autore che invece è così abituato a calcare la mano su atmosfere e psicologie dei personaggi un trattamento così lieve e delicato delle proprie vicende, che invece si presterebbero ai toni del noir. Ma è una sorpresa piacevole.
Piccolo spazio per “Le veline di Mussolini“, a cura di Giancarlo Ottaviani (Stampa Alternativa), piccola raccolta di direttive per la stampa di epoca fascista, con il consueto mix di assurdità e attenzione ai particolari (Fiorello la Guardia, sindaco di New York va considerato ebreo e non italiano, per dire). La raccolta però è tanto breve e lascia con la voglia di godersi altre perle della produzione del MinCulPop.
E finiamo con la fine (spero temporanea) di un ciclo, quello di Eymerich, che Valerio Evangelisti ha concluso con “Rex Tremende Maiestatis” (Mondadori), un’avventura dell’inquisitore che si dipana tra la Spagna, la Sicilia e Napoli (con un’appendice nel futuro). È un Eymerich stanco e di mezza età, quello che si trova in questo libro, un Eymerich che ogni tanto sfugge di mano al suo autore e si abbandona a debolezze che invece che mostrarne un lato inedito sembrano più che altro dei cedimenti nella scrittura. Eymerich con sentimenti para-paterni a me suona parecchio strano, per dire. E anche la parte sul passato di Eymerich, con il futuro inquisitore bambino, fa uno strano effetto. La storia vede l’inquisitore sballottato di qua e di là, più vittima degli eventi che vera e propria parte attiva. La cosa migliore del libro è la capacità che ha Evangelisti di tratteggiare la psicologia dell’uomo medievale, pronto ad accettare il sovrannaturale come parte della propria esperienza quotidiana perché dotato di un senso religioso che lo giustifica e quindi destinato a cadere vittima delle illusioni provocate dalle scie chimiche provenienti dal futuro per colpa di HAARP (kind of, non sto scherzando).
Insomma, è un addio che, anche con il colpo di scena finale, lascia parecchio con l’amaro in bocca.
E fin qui il giudizio sul testo in sé.
A margine, ho scoperto solo dopo averlo finito, che Evangelisti ha scritto il libro dopo aver scoperto che le sue condizioni di salute erano tutt’altro che ottimali e che c’era il rischio che il personaggio sopravvivesse al suo autore. Quindi, a posteriori, capisco da dove possano venire certi cedimenti nella scrittura o le “debolezze” di Eymerich.
Auguro ogni bene a Valerio Evangelisti e spero che torni a scrivere romanzi dell’inquisitore semplici, micidiali e feroci come i primi, quelli che mi avevano inchiodato inesorabilmente pagina dopo pagina, che con la deriva sempre più concettosa di questo ciclo ho qualche problema (il precedente “La luce di Orione” mi era piaciuto perché era molto più diretto, per esempio).
Questo mese la rubrica dei libri del mese arriva in ritardo e, per la prima volta, ha un titolo vero, che riprende una famosa battuta (?) di Woody Allen che ho riletto stampata su una borsa al Salone del Libro di Torino (di cui poi parliamo). Arriva in ritardo perché c’è un sacco di roba e perché ho avuto da fare. Nello scriverla, mi sto rendendo conto di quanto mi piaccia la possibilità offerta dagli ebook di inserire in mezzo alla recensione estratti del libro senza alcuna fatica. Leggessi solo ebook forse questa rubrica sarebbe solo una lunga lista di citazioni.
Quando ho iniziato a leggere Harry Potter avevo da poco finito di recuperare un’altra saga in sette parti, quella della Torre Nera di Stephen King, e pensavo fosse il momento buono per buttarmi in un’altra storia di largo respiro, possibilmente un po’ meno frammentaria e dispersiva del colosso kinghiano. Pensavo di metterci un sacco, di centellinarmi i libri e, in effetti, tra il primo e il secondo e tra il secondo e il terzo ho lasciato passare un bel po’ di tempo. Ma quando con “The Prisoner of Azkaban” la serie ha iniziato ad allargare gli orizzonti e a far intuire che il titolare è in realtà un pretesto per raccontare (anche) la resa dei conti tra un sacco di maghi di trentaseiesimo livello ho deciso di accelerare. Parlare dell’ultimo volume “Harry Potter and the Deathly Hallows” (Bloomsbury) è in realtà fare anche un consuntivo dell’intera saga messa in piedi da J.K Rowling, perché in sé il libro, oltre a essere ovviamente incomprensibile senza aver letto quelli precedenti, è decisamente al di sotto delle due vette della serie (il quarto e il quinto episodio). Il ritmo è discontinuo, c’è una lunga e noiosa palude narrativa in cui Harry, Hermione e Ron vagano con l’Unico An… pardon, l’Horcrux e parti dove si va a mille. Sarebbe stato bello anche staccare ogni tanto da Harry per mostrare la vita nel mondo dei maghi e a Hogwarts sotto il regno di Voldemort. Ma il modo in cui la Rowling chiude il percorso narrativo dei suoi personaggi è magistrale (paradossalmente, anche se è in assoluto il libro in cui è meno in scena, è anche quello in cui Dumbledore/Silente è davvero protagonista, e che protagonista; ma è Snape/Piton a brillare più di tutti) ed è davvero difficile non pensare che davvero avesse in mente fin dall’inizio tutto quello che era successo prima che Hagrid si presentasse ad accompagnare Harry ad Hogwarts. O quello, o è una maestra della ret-con (quel genere di espediente narrativo per cui crei coerenza a posteriori da un corpus di storie slegate tra loro: un esempio eccellente e alto è “The life and times of Scrooge McDuck”, la serie in cui Don Rosa ha ricostruito la vita di Paperon de’ Paperoni dando coerenza a riferimenti biografici e geografici sparsi in modo più o meno casuale da Carl Barks nelle storie classiche. Esempi deleteri si trovano in narrazioni seriali come le telenovele o i fumetti di supereroi). In ogni caso, una tessitrice di trame e una costruttrice di mondi di prim’ordine. Certo, non ha affatto uno stile indimenticabile: mette una dietro l’altra senza particolari artifici le parole che le servono per raccontare quello che ha in mente e, come dice King, “è difficile che si imbatta in un avverbio che non le piace” (credo che i sette volumi contengano tutti gli avverbi in -ly permessi dalla lingua inglese). Però davanti al piacere della narrazione ci si passa sopra volentieri. E poi, oltre a essere una lettura divertente e avvincente, la saga di Harry Potter ha dentro anche un nucleo etico e morale non da poco, pur nella sua semplicità: tu sei quello che decidi di diventare con le tue azioni. E, per dirla con gli Zeppelin, il cammino lungo e c’è sempre tempo per decidere su quale strada farlo. Forse, da lettore adulto, avrei preferito però un cattivone supremo un po’ meno tonto e monolitico nella sua malvagità rispetto a Voldemort, tanto che forse la più spaventosa delle figure negative della serie è la Umbridge, meraviglioso esempio di piccola malvagità ministeriale e ipocrita. Al suo confronto, il tizio senza naso è uno spaventapasseri da luna park. Ma forse il vero malvagio, nonostante tutto, della serie, un freddo e calcolatore manipolatore di vite altrui salta fuori proprio in questo libro. Ed è una bella doccia fredda, anche se è dal primo episodio che subodoravi qualcosa. Spero solo che la Rowling sia così intelligente da tenersi alla larga da prequel o sequel. Anzi. Joanna. Se mi stai leggendo (o se qualcuno dell’ufficio stampa di Salani mi sta leggendo e può tradurglielo): pensa a George Lucas. Pensa a Jar-Jar Binks. I midichlorian. Gli Sgusci. Ecco. Ci siamo capiti.
Mi raccomando.
Ho letto un altro libro di Christopher Moore, “Un lavoro sporco” (Elliott), da cui mi sono sempre tenuto lontano perché temevo che sull’argomento “umano che fa l’aiutante della Morte” avesse già detto tutto Terry Pratchett. Beh, a quanto pare mi sbagliavo: in primo luogo perché il protagonista di questo libro non diventa un aiutante del Tristo Mietitore in senso stretto, in secondo luogo perché Moore è riuscito a insufflare in una vicenda che non perde l’occasione per sfociare nell’assurdo e nel bizzarro un’asciutta (e per questo ancora più efficace) riflessione sulla separazione dalle persone amate che muoiono. Si ride tanto quando c’è da ridere, con progressioni comiche calibrate molto bene, e ogni tanto ci si commuove. L’impressione è quella di leggere il romanzo di un Jonathan Carroll più pirotecnico, popolato di personaggi usciti da una puntata di Futurama (la signora cinese che cucina qualsiasi cosa si muova le capiti a tiro è la mia preferita in assoluto). E con un lieto fine in linea con le premesse del libro: tenero, commovente e completamente bizzarro. Ora, non starò a fare confronti con quell’altro romanzo sull’amico d’infanzia di Gesù (che ormai si dovrebbe essere capito che… ok, la smetto), però è proprio bello da leggere e fa venire voglia di leggere altri romanzi di Moore. Ah, anche in questo caso compare almeno un personaggio da un romanzo precedente, ma non è nulla che disturbi la lettura. Una nota sulla traduzione: in una nota (ops) c’è scritto che il nome di un personaggio viene da un brano degli Elvenking, che sono un gruppo di folk metal italiano (che ho pure visto dal vivo). Mi sembra parecchio strano, ma faccio a fidarmi. Anche se non è che sia convintissimo della cosa.
Sempre per la mia abilità di leggere libri che riprendono le vicende di altri libri che non ho letto, però, questo mese ho letto “Addio all’estate” di Ray Bradbury (Mondadori). Di Bradbury non ho mai letto nulla, neanche la sua opera più famosa, quindi è stata una sorpresa scoprire che ha una scrittura meravigliosa, lirica ed evocativa, che sorregge questa storia in cui i ragazzini che abitano in una piccola città degli Stati Uniti decidono di non crescere più, scatenando una guerra con gli anziani della città. Il tono elegiaco e il fatto che il romanzo si chiuda con l’accettazione dell’inevitabile danno al libro un po’ il tono di un commiato, se non altro letterario, da parte di un autore alle prese con la vecchiaia. Anche se va detto che il buon Bradbury è stato lo scorso anno oggetto del desiderio di una giovane cantante americana:
(che ci crediate o no, il video è finito tra le nomination per il premio Hugo 2011, categoria “cortometraggi”)
Comunque, bello, mi è piaciuto e ho capito da dove vengono, credo, parte delle atmosfere e delle visioni di gente come King o Gaiman. Sono ben accetti consigli su cosa leggere di Bradbury ora (credo di aver visto da mio padre Paese d’ottobre, ora che ci penso).
La meravigliosa Liù Bosisio (anche se io per vari motivi preferisco la signora Pina della Vukotic), voce di Marge Simpson (e di Patty e Selma)
I libri di Fantozzi scritti da Paolo Villaggio li avevo in casa tempo fa. Poi ci sono state un po’ di vicissitudini e si sono un po’ sparpagliati. Quando ho visto in libreria il malloppone “Fantozzi Totale” (Einaudi) ho pensato che potevo recuperare immediatamente tutto quanto. In realtà però questa non è una raccolta completa dei primi volumi (i più interessanti, poi Villaggio ha usato il nome Fantozzi per pubblicare altra robetta – un po’ come con i film dopo Super Fantozzi) ma un’antologia che per quanto parecchio ampia si concentra quasi esclusivamente sugli episodi che hanno poi avuto una trasposizione cinematografica, lasciando fuori piccoli quadretti poetici come l’episodio in cui Fantozzi scopre di poter volare o un racconto ferocissimo in cui Fantozzi, mentre al telefono si professa femminista, massacra di botte moglie e figlia. E manca anche il racconto che una volta mi fece rotolare giù dal divano (un ROTFL ante-litteram), in cui una scoreggia è descritta con le parole “rombo di cavallo ungherese”. Ma quello che c’è (a partire da una copertina splendida con la fam. Fantozzi al cenone di Capodanno) è comunque di primissimo livello. Certo, oggi è difficile capire quanto per l’epoca fosse dirompente l’umorismo di Villaggio, quanto fossero precise le sue descrizioni del micro-cosmo lavorativo dell’ufficio e quanto fosse inedita e spericolata la sua lingua fatta di vertiginosi e improvvisi accostamenti di alto e basso, aggettivazione ricercata applicata a eventi minimi, iperboli, climax acrobatici (“mani due spugne, salivazione azzerata, manie di persecuzione, miraggi”; potremmo passare anni ad analizzare il meccanismo comico di questa progressione). Oggi quando vogliamo fare ridere noi (almeno i “noi” che hanno grosso modo la mia età) usiamo un linguaggio che sta tra Fantozzi e la Gialappa’s, ma all’epoca dell’uscita dei primi libri questo genere di linguaggio comico era fuori dalla norma, in Italia. Se li trovate, cercate i vecchi volumi (mi pare fossero Bompiani). Ma se non li trovate, questo campionario della bravura di un autore straordinario in uno dei momenti più luminosi della carriera è un volume da avere.
Mi capita raramente di imbattermi in libri che proprio non mi piacciono. Questo perché di solito cerco sempre di andare sul sicuro, raccogliere in giro pareri, recensioni, giudizi per capire se qualcosa che mi sembra interessante possa piacermi o no. A volte però capita il pacco terribile. Per esempio è successo con “Nel segno del martello” di Giacomo Scalfari (Montag), di cui copincollo la quarta:
Karlo è un quattordicenne come tanti altri, ama l’heavy metal e ha la passione dei miti nordici. Ma un giorno Thor si manifesta a lui affidandogli una missione fondamentale per la salvezza dell’equilibrio cosmico: deve abbattere l’Anti-Yggdrasill, il pilastro storto dell’universo, e fondare un’organizzazione politica comunista perché Thor, nel caso non lo sapeste, è seguace del socialismo cosmico. Karlo, tra i servi di Loki che vogliono ucciderlo, Roskva e Thjalfi compagni di Thor che lo aiutano e Freda, che gli farà conoscere un altro modo di concepire la vita, si trasferirà a Bologna, città crocevia dei mondi, perché lì il 24 marzo del ’94, durante il comizio elettorale di Fini, si svolgerà l’ultima battaglia.
Questa quarta di copertina è un ottimo lavoro, dal punto di vista commerciale, perché attraverso la scelta delle parole (“missione fondamentale”, “nel caso non lo sapeste”, “socialismo cosmico”; se invece di “Fini” ci fosse stato “Gianfranco Fini” si prendono in un colpo solo i fan di Stanis Larochelle) presenta il libro come un’allegra e spensierata sboronata autoironica, qualcosa che avrebbe potuto scrivere Ammaniti o Morozzi. Visto che in libreria non lo trovavo l’ho ordinato perché, in fondo, la speranza di incappare nella perla sconosciuta uno ce l’ha sempre. E invece. E invece il libro ha una lunga serie di difetti che trovo imperdonabili, a partire dal fatto che si prende terribilmente sul serio. Terribilmente. In Thor che si palesa davanti a un ragazzino italiano in gita nei paesi nordici e gli dice “sono Thor, devi mettere su un gruppo metal e fondare un movimento comunista” non c’è la minima traccia di ironia. E non c’è la minima traccia di ironia nel descrivere l’improbabile infiltrazione di troll tra i frequentatori di un centro sociale e altre scene e vicende che prendono a mazzate ferocissime qualsiasi tentativo di sospensione dell’incredulità da parte del lettore. Se a questo si unisce una narrazione che taglia gli spigoli e non cerca di creare alcuna tensione su sottotrame che avrebbero meritato un po’ più di approfondimento (Karlo deve formare una band? Impara a suonare la batteria in un mese, si unisce a dei suoi amici e il primo concerto è un successo incredibile. Deve fondare un movimento politico? In breve tempo il suo gruppetto conta un sacco di iscritti, e via discorrendo), la voglia di finire in fretta il libro, che per fortuna è breve, è alta. Se non altro ho imparato qualcosina in più sui miti nordici (che Scalfari si è studiato bene) e ho scoperto la storia del Partito Comunista Internazionalista (che ignoravo; ero convinto fossero gli stessi di Lotta Comunista, ma immagino invece che ci siano sottilissime e fondamentalissime divergenze tra le due visioni). Niente, peccato: uno spunto meraviglioso ma un libro che non mi è piaciuto per niente (mi piacerebbe tanto riscriverlo o riutilizzare lo spunto, ma penso che l’autore non sarebbe per niente d’accordo).
Già che ho citato Morozzi, ad aprile c’è stata la seconda uscita dell’iniziativa di Quintadicopertina a cui sono abbonato: questo ebook si chiama Troppe Storie (per un uomo solo) e tiene fede al titolo presentando anteprime di tre romanzi a cui lo scrittore bolognese (e almeno una redazione di sedici schiavi, come diavolo fa a scrivere così tanto?) sta lavorando, oltre a due racconti. L’iniziativa, ne ho già parlato, è molto bella e se avete un lettore ebook fareste bene a sottoscrivere l’abbonamento; gli estratti presenti sono parecchio divertenti. In particolare, mi ha divertito questo passaggio dalla storia che vede come protagonisti dei fumettari:
Ogni tanto, ai pranzi con gli altri autori del giro Gamma, qualche sceneggiatore anziano che aveva scritto Cowboy Jim negli anni sessanta o settanta mi dava dei consigli. “Ricordati” mi diceva, ricacchiando e addentando il pollo “tu tieni sempre una banda di messicani cattivi e armati di fucile dietro una roccia, e un puma in agguato in cima a un albero. Quando non sai come portare avanti la storia, o fai sparare i messicani o fai saltare il puma.”
(immagino sia facile capire cosa sia la casa editrice “gamma” e chi sia “cowboy jim”, se bazzicate i fumetti italiani).
Ma anche la storia londinese promette parecchio bene.
Quintadicopertina ha anche una collana di ebook interattivi (sullo stile dei vecchi libro game), Polistorie, di cui prima o poi devo provare qualcosa.
Dopo anni che puntavo il libro, mi sono comprato in ebook “Ruhleben” di Geoffrey Pyke (Alet), il memoriale dell’idea, non brillantissima, di un giovane giornalista inglese che allo scoppio della Grande Guerra decise di viaggiare in incognito per la Germania per verificare se le voci della propaganda erano vere. Ovviamente, nel giro di una settimana finì in prigione, prima, e in un campo per prigionieri civili alle porte di Berlino poi. Non so cosa faceste voi a ventun anni: Pyke trovò il modo di fuggire dal campo di prigionia e, insieme a un altro fuggiasco, andò a piedi, di nascosto, da Berlino alla frontiera olandese. Tornato in patria, raccontò la sua esperienza in questo libro che uscì a guerra ancora in corso e che quindi non contiene la descrizione dell’ingegnosa trovata che gli consentì la fuga, che si trova nell’introduzione:
Rivelò quel piano a un giornalista solo molti anni dopo, quando ormai Ruhleben era stata smantellata e lui poteva sentire il bisogno di una piccola vanità: e dunque ecco come andò. Al campo l’appello veniva fatto solo al mattino, dando per scontato che ai tentativi di fuga era necessaria la notte. Ma dopo il tramonto, aveva constatato Pyke, la sorveglianza intorno alle baracche dei prigionieri veniva fatalmente intensificata. La sua inappuntabile strategia finale, la quattordicesima che elaborò, si avvantaggiava del giorno per eludere la sorveglianza, e della notte per affermare la fuga: il fatto è che bisognava evadere con il favore del buio, ma non dalle baracche. In disparte, su un lato del campo, sorgeva un piccolo capanno, usato come deposito degli attrezzi: nel pomeriggio del 9 luglio 1915 Geoffrey Pyke ed Edward Falk si nascosero lì dentro sotto alcune reti (reti da tennis) che non li nascondevano affatto, e rimasero distesi, ad aspettare, con una sufficiente scorta di fiducia. Come ogni pomeriggio, prima che i prigionieri venissero riportati nelle baracche, una delle guardie sarebbe andata a controllare nel capanno. Quando avesse aperto la porta, come ogni pomeriggio di quelle settimane d’estate il sole sarebbe stato ancora abbastanza alto e avrebbe prodotto nel vetro della finestra un riflesso talmente forte da rendere impossibile vedere all’interno, specialmente nella direzione delle reti dove Geoffrey Pyke, immobile di certo e con il respiro in gola, guardò o disse al giornalista di aver guardato negli occhi pieni di sole del soldato tedesco lì in piedi a un metro da lui, prima che come molti altri pomeriggi quello chiudesse la porta dietro di sé e si allontanasse dal capanno senza aver potuto davvero controllare bene. Il resto del piano – scivolare via da lì, raggiungere strisciando la recinzione e superarla – sarebbe stato reso più semplice dal buio e dall’assenza di guardie in quella parte del campo, oltre che da certi esercizi complicati e ridicoli che Geoffrey Pyke diceva essergli stati prescritti per il cuore dal prestigioso, dall’inesistente specialista danese professor Sorgersund e che lo addestrarono invece alle sfibranti contorsioni sotto il filo spinato.
Questo dovrebbe darvi un’idea del personaggio in questione (che ha una pagina fittissima su wikipedia che non ho ancora affrontato), che scrive con un meraviglioso senso dell’umorismo british, così come è squisitamente british il suo understatement di molte situazioni. Però quando vuole sa anche piazzare delle osservazioni precise e puntuali, con una bella prosa.
Alcuni passi:
Una volta uno dei marittimi internati si espresse in modo piuttosto libero sulla natura dei prussiani. Il barone fece il giro del campo e, in ciascuna delle quattordici baracche, infliggendosi numerose e sonore pacche sul petto decorato di medaglie, urlò: «Non siamo noi i sanguinari: non siamo stati noi a volere la guerra a tutti i costi e a provocarla. Non lo accetto: i sanguinari siete voi». In seguito il professore di inglese all’Università di Berlino, anche lui internato, insieme a molti altri, si recò a spiegargli il significato e l’origine della parola inglese «sanguinario».
Come quasi tutti concordano nell’affermare, i tedeschi sono un popolo meraviglioso. Per quella colazione a loro spese non solo mi fornirono pane fatto non con grano, bensì con patate, ma anche caffè fatto non con chicchi di caffè, ma con ghiande. Anzi, tra poco è probabile che inventeranno un surrogato dell’acqua ottenuto da una combinazione alternativa alle solite due parti di idrogeno e una di ossigeno.
A Berlino, la prima cosa da fare è entrare in una birreria; la seconda cosa da fare è entrare in una birreria e la terza cosa da fare è entrare in una birreria. Ma non per bere birra. No. Anche se è leggera come piume su un’ala di colomba, ed è servita così fredda che il vapore della sala affollata fa sgocciolare il bicchiere, tuttavia è meglio bere solo quanto basta a far credere ai vostri vicini che non siete dei bisbetici asociali, che ordinano birra e non la bevono. Invece bevete un sorso qui e ascoltate; un sorso là, e ascoltate ancora; ogni tanto schioccate forte le labbra e scaccerete ogni sospetto eventualmente addensatosi su di voi e verrete considerati dei bevitori moderati, che gustano fino in fondo il proprio bicchiere. Apprenderete anche molte cose interessanti. In Germania ci sono due posti preziosi per raccogliere informazioni: uno è la carrozza ferroviaria e l’altro è la birreria. I soldati chiacchierano sempre per stabilire con precisione chi di loro sia più prossimo all’inferno, e la Germania è composta interamente di soldati.
Leggendolo, la cosa più straniante di tutte è pensare che il narratore non è, come potrebbe sembrare, un distinto gentleman quarantenne ma un ragazzo di ventuno anni. Evidentemente, una volta si cresceva e si maturava parecchio più in fretta.
Già parlando di “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” scrivevo che Saramago è potenzialmente un grandissimo autore di fantastico. Per quel libro magari la cosa poteva sembrare un po’ tirata per i capelli, ma “Cecità” (Feltrinelli) sembra quasi fatto apposta per confermare la mia tesi: dall’oggi al domani, gli abitanti di una città senza nome iniziano a perdere inspiegabilmente la vista. Temendo che la cecità sia contagiosa, le autorità decidono di rinchiudere i ciechi in una struttura guardata a vista. Ovviamente, la vicenda assume rapidamente toni drammatici e ben presto emerge la vera natura, feroce e brutale, degli esseri umani. Ci sono delle pagine che picchiano durissimo, in cui Saramago descrive con il massimo distacco violenza e sopraffazione, la graduale perdita dell’umanità. E ci sono passi che sono purissimo zombi-movie, in cui l’unica donna inspiegabilmente rimasta immune al contagio si aggira per la città alla ricerca di cibo per le persone di cui ha deciso di prendersi cura. Quello che fa più male è però la mancanza di speranza, nonostante quello che potrebbe sembrare un lieto fine, che attraversa il libro. I “buoni” sono isole assediate da chi non si fa scrupoli per raggiungere i suoi obiettivi; e gli stessi “buoni” possono a volta causare del male o involontariamente o perché vi sono costretti. Attraverso la lente ipercorrettiva del fantastico, Saramago mostra la natura umana, la fragilità delle regole sociali che ci tengono lontane dalla bestialità. La scrittura è sempre quella: muri di testo con pochissimi punti a capo, frasi lunghe e dialoghi senza virgolette (solo le maiuscole), personaggi senza nome. Esige concentrazione ma ha una sua qualità ipnotica che, a poco a poco, tira dentro alla storia, al suo mondo allucinato e feroce.
E a proposito di mondo allucinato e feroce, chiudo con “La rivolta” di Nan Aurousseau (e/o), storia ambientata in un carcere francese durante e dopo una rivolta. Più che un noir o un thriller, come è presentato, è un romanzo di denuncia sulle condizioni del sistema carcerario francese che l’autore conosce piuttosto bene avendoci trascorso sette anni per rapina a mano armata.
La narrazione è piuttosto frammentata e il tono richiama quello dolente di certo noir francese, comunque, come quello di Izzo o Manchette, che di Aurousseau (che dopo il carcere è diventato un idraulico) è stato lo scopritore.
Alla fine, come dicevo, ho riflettuto sulla formula di questi resoconti di libri letti; e mi sono reso conto che quello che non mi piaceva più era la presentazione a elenco. I post sui libri del mese erano nati come pubblicazione di un file che avevo iniziato a tenere per me in forma schematica con brevi note. Poi da quando ho iniziato a usare aNobii tenere un elenco del genere è diventato piuttosto superfluo.
Così, ho deciso di impostare questi post in forma molto più discorsiva. Un po’ come la rubrica di Nick Hornby che viene tradotta da Internazionale. O un po’ come un post vero e proprio. Vediamo se funziona meglio.
N.B la grandezza delle copertine non è proporzionale al giudizio sul libro! È solo che alcune aNobii le ha o minuscole o gigantesche.
Gennaio mese potteriano. Ho iniziato l’anno finendo la lettura di Harry Potter and the Goblet of Fire e già che c’ero, galvanizzatissimo, mi sono sparato al volo anche The Order of the Phoenix (per entrambi, l’autrice è J.K. Rowling e l’edizione quella in paperback della Bloomsbury con le copertine “adult”, che comunque non contengono Emma Watson nuda). Goblet of Fire (quarto della serie) è un vero punto di svolta: riprende il tono più cupo del libro precedente, amplificandolo. Inoltre, il raddoppio delle pagine corrisponde a un aumento ben più significativo della complessità della trama. Per la prima volta si capisce chiaro e tondo che il centro della storia non sono tanto (o non solo) le vicende dell’eroe eponimo bensì il gigantesco e incombente regolamento di conti tra maghi di trentaseiesimo livello. Ho accolto con un grosso grosso grosso sospiro di sollievo la forte riduzione del consueto scenario iniziale con Harry vessato dagli zii e dal cugino, la cui quarta ripetizione sarebbe stata davvero troppo. Alla fine ero così entusiasta del finale che sono partito appena possibile con The Order of the Phoenix, che non solo si mantiene sugli stessi livelli e toni, ma aggiunge anche una venatura politica al tutto che difficilmente mi sarei aspettato in un romanzo “per ragazzi”. Il tentativo del Ministero della Magia di prendere possesso di Hogwarts, la scuola di magia, minandone gli insegnamenti e rendendola di fatto inutile è supportato da una campagna stampa che sfrutta manipolazione dei fatti e gossip per screditare gli avversari. Inoltre, la Rowling introduce un cattivo, la Umbridge, che fa infinitamente più paura del tanto temuto Voldemort: una grigia e minuta funzionaria statale, che porta avanti il compito che le è stato assegnato con stolidezza e pacata ferocia. E che infligge agli studenti una punizione che riecheggia un famoso racconto di Kafka. Sempre senza alzare la voce. The british way to evil. Inoltre, tutta la parte sui primi turbamenti amorosi del dinamico trio è gestita bene, senza diventare mai invadente o stucchevole (così come, anche nel libro precedente, il tentativo da parte di Hermione di far assumere coscienza di classe agli elfi domestici, che invece sono ben felici di essere sfruttati). Ora ho i due libri finali che mi attendono. E credo che non ci vorrà molto prima di finirli.
Ci sono libri e autori attorno ai quali ronzi per anni, prima di deciderti. Di Pier Vittorio Tondelli ho letto, pescando qua e là secondo quello che mi sembrava interessante al momento, Un weekend post-moderno, robusta collezione di articoli sugli anni ’80, ma non ho mai letto la narrativa. Quindi ho cominciato dall’inizio, da Altri libertini (Feltrinelli), che è la raccolta di racconti con cui esordì. Trent’anni dopo, è difficile riuscire a immaginare lo scandalo che questi scritti causarono per il loro contenuto esplicito: Tondelli scrive di sesso in modo vitale, gioioso, famelico, disinibito. Ma non in modo gratuito: gli serve per definire i suoi personaggi, la loro fame di vita, di amore. E la scrittura va dietro a questo impeto: sembra sempre di rincorrere i personaggi, viene quasi il fiatone a stare dietro alle loro vite che macinano amori, città e avventure nel giro di poche pagine. È un’intensità che colpisce, rara da trovare. I “tondelliani”, aspiranti scrittori timidi e con il maglioncino, compaiono in uno dei racconti di Gianluca Morozzi che compongono Il tascapane (edito in ebook da Quintadicopertina). Quintadicopertina è una casa editrice digitale (come 40k e la neonatissima Sugaman), che pubblica cioè i propri testi solo in formato digitale. La sua peculiarità rispetto ad altre realtà simili è quella di avere pensato a un “abbonamento” a un autore (al momento sono due: Morozzi e Francesca Genti): per 12 euro si ricevono nel corso di un anno quattro “libri” che contengono materiali a completa discrezione dell’autore. Un’idea interessante a cui, visto che Morozzi mi piace, mi è sembrato interessante aderire, ricevendo per ora questa prima uscita che contiene una manciata di racconti e i primi capitoli di un romanzo ancora inedito. Tutto interessante: divertente il primo racconto, quello in cui si citano i “tondelliani”, che racconta le esperienze autobiografiche ai concorsi letterari. E già che parliamo di ebook, ho letto Editoria digitaledi Letizia Sechi (Apogeo, disponibile gratuitamente online), che è un’introduzione, pensata per gli addetti ai lavori, su formati, tecniche, supporti e problematiche del mondo del libro digitale. È spiegato bene, è tecnico il giusto e affronta il problema della ridefinizione del flusso di lavoro all’interno di una casa editrice, che è tutt’altro che secondario. Sempre di Apogeo, sempre disponibile online e citato in alcuni passi dalla Sechi è Content di Cory Doctorow, che raccoglie alcuni articoli della sterminata produzione dell’autore americano sui temi del copyright, dell’editoria digitale e della creatività. Qui ho poco da dire, se non cose ottime. Doctorow mi sembra una delle teste pensanti a cui stare dietro in questi tempi e mi ritrovo pienamente su molte delle sue posizioni. In più, come già ho trovato nei suoi romanzi, il suo entusiasmo per il vivere “nel futuro” è palpabile e contagioso. Fosse per me, testi come questi sarebbero letture obbligatorie per tutti.
That’s all folks, la prima uscita è andata. Qualunque parere è ben accetto!
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