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Sun City (we do are gonna play)

C’è questo video, che ha fatto arrabbiare un po’ di fan dei Queen, in cui Red Ronnie spiega perché non ha mai voluto intervistare Freddie Mercury, riconducendo la cosa a una certa antipatia per la persona e per il gruppo, dovuta principalmente al fattaccio dei concerti a Sun City.
Ora, al di là del fatto che RR ha tutto il diritto di avere delle opinioni e che, in fondo, non credo che ci siamo persi granché senza la sua intervista a Mercury e soci, la storia di Sun City è un bell’esempio della considerazione (scarsa) di cui hanno goduto i Queen da parte del loro ambiente praticamente fino alla morte di Freddie Mercury.
La questione nasce dall’apartheid in Sud Africa, dove la minoranza bianca di origine boera aveva imposto un rigidissimo regime di separazione razziale. Sun City era una località dell’entroterra, una specie di Las Vegas che era diventata la capitale di tutto l’intrattenimento del Paese, offerto a un pubblico rigorosamente bianco. Il perché è presto detto: le Nazioni Unite avevano imposto un embargo culturale sul Sud Africa come ritorsione per l’apartheid, ma Sun City era di proprietà di un magnate che strappava sontuosi assegni in cambio delle performance degli artisti occidentali. Il grosso del mondo del rock e del pop decise di boicottare Sun City, ma ovviamente ci fu chi non si fece grossi scrupoli. Continua a leggere

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Un po’ di cose sui Queen?

Senza entrare nel dettaglio di quello che penso di Bohemian Rhapsody, il biopic sui Queen e Freddie Mercury che suscita sentimenti forti come neanche la nuova trilogia di Star Wars (il mio consiglio è: pensate che sia ambientato nel Queen Cinematic Universe, non nel mondo reale), ecco alcuni episodi della storia della band che sarebbe stato divertente vedere sul grande schermo (c’è una foto NSFW, più sotto).

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Two naughty boys in Kensington. Christmas Eve 1969

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Freddie Mercury e Roger Taylor che gestiscono un banchetto di abiti usati al Kensington Market. Continua a leggere

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Autodifesa – Dicembre 2011

Ecco gli ultimi libri del 2011. Non c’è un consuntivo finale, non so se ci sarà.
Dovrei anche parlare di alcuni fumetti, ma lo farò in un altro post (una volta ci infilavo anche i fumetti in questi resoconti, poi chissà perché ho smesso; forse dovrei ricominciare).
Ah, si parla un sacco dei Queen. Siete avvisati.

More about HornsC’è sempre un disturbo di fondo, quando si parla di Joe Hill, perché Joe Hill è lo pseudonimo di Joseph Hillstrom King, uno dei figli di Stephen King. Hill non è il solo degli eredi del Re ad avere scelto la carriera dello scrittore ma, a differenza di suo fratello Owen, scrive racconti, romanzi e fumetti horror. Proprio come molti di quelli scritti da papà (ci sarebbe tutto un lungo discorso da fare sul fatto che l’identificazione di King come autore horror è incorretta e sciatta, ma magari un’altra volta), con il quale ha anche scritto un racconto a due mani come omaggio a Matheson.
È un dato di fatto che quello che ho letto finora di Hill richiami moltissimo le atmosfere dei romanzi horror del primo King, ma questo vale anche per un numero incredibile di altri scrittori (oggi rido pensando al fatto che lo scaffale “horror” delle librerie sia diventato lo scaffale “sesso con creature sovrannaturali”, ma quando ero ragazzino io era lo scaffale “cittadine americane con oscuri segreti”). E quindi il rischio di quelle cose tristissime alla “De André canta De André” c’è tutto; oltre all’ovvio spettro della posizione privilegiata di partenza nel rapporto con l’editoria (“è il figlio”, come direbbe Vulvia). Ma allo stesso tempo Hill ha un piglio nell’affrontare il genere che fa di lui un autore di tutto rispetto; almeno per me, che a parte la sua serie a fumetti Locke & Key ho letto tutto quello che ha finora pubblicato, una raccolta di racconti e i romanzi “La scatola a forma di cuore” e “Horns”.
Horns” (Morrow) non è ancora stato tradotto in italiano. La storia inizia senza alcun preambolo con Ignatius, un ragazzo ventenne, che si sveglia la mattina con un bel paio di corna che gli spuntano dalle tempie e in presenza delle quali le persone sembrano perdere ogni inibizione e gli raccontano tutto quello che gli passa per la mente. Cosa ha che fare questo con la sua visita la notte precedente, ubriaco, al luogo dove un anno prima la sua ragazza era stata stuprata e uccisa, un omicidio di cui mezzo paese pensa sia lui il colpevole? Continua a leggere

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Autodifesa – Ottobre 2011

"Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare, zecca di merda! E te là dietro, omnia sunt communia, pure le mazzate, quindi adesso arriviamo"

Bentornati su Autodifesa, la rubrica dei libri di questo blog che ha come titolo una citazione sbagliata, perché la frase di Woody Allen è “leggo per legittima difesa” e non “per autodifesa”. Mi ci sono voluti dieci mesi per capire perché tutte le volte che scrivevo il titolo sentivo qualcosa di stonato, ma alla fine ci sono arrivato. Scommetto che a Nick Hornby queste cose non succedono.

More about Non ti meriti nullaNon ti meriti nulla” di Alexander Maksik (e/o) è uno di quei libri che ti spiazzano per il gap culturale tra il mondo dell’autore e quello del lettore. Uno dei suoi protagonisti, Will Silver, è infatti un giovane professore che insegna letteratura in un liceo internazionale di Parigi; non so se l’autore non ne dice esplicitamente l’età nelle sue prime apparizioni o se mi era sfuggito il dato, ma io sono arrivato a tre quarti del libro convinto che avesse minimo quarant’anni, età che immaginavo giusta per un “giovane” insegnante che ricopre, già da qualche tempo, un ruolo di responsabilità in una scuola di un certo livello. Poi a un certo punto ho letto che aveva trentadue anni e ci sono rimasto un po’ così.
Problemi generazionali a parte, il romanzo di Maksik non brilla di originalità, perché ruota attorno a una relazione tra il suddetto professore e una studentessa della scuola, ma recupera raccontando questa storia con un intreccio di punti di vista (quelli dei due amanti e quello di uno studente di origine araba affascinato da Silver) gestito con oculatezza e che serve anche a parlare di responsabilità, reputazione, crescita. Non è il genere di romanzo che di solito mi andrei a cercare ma è ben fatto e sono contento che qualcuno (grazie Silvia) mi abbia detto “toh, leggilo”.
More about InvisibileIn alcuni aspetti ci sono dei punti di contatto con “Invisibile” di Paul Auster (Einaudi), che porta all’estremo il gioco dei punti di vista con lo scopo di raccontare una storia in cui la “verità” è probabilmente impossibile da stabilire oggettivamente, ma resta solo una convinzione del singolo lettore. “Invisibile” racconta una storia che si dipana nel corso di quarant’anni, iniziando nella New York della fine degli anni Sessanta e spostandosi a Parigi prima e su un’isola del Pacifico poi. Auster impiega, non senza una giustificazione narrativa che lo tiene lontano dallo sterile esercizio di stile, tre tipi di narrazione: in prima, in terza e anche in seconda persona.
Date le premesse, si potrebbe pensare che il romanzo sia un pedante esercizio intellettualistico. E invece Auster, benché abbia comunque ambizioni alte, riesce a costruire una struttura narrativa che affascina, in cui rivelazioni ed enigmi sono dosati secondo il ritmo di un thriller (e alla fine una delle letture possibili è proprio che il romanzo sia un thriller raccontato da un’angolazione diversa da quella che ci si aspetterebbe), con personaggi ben descritti e vividi. È quel genere di libro che vorrei trovare più spesso, godibile e allo stesso tempo stimolante per come racconta il modo in cui si raccontano storie e si (ri)costruisce il mondo grazie a esse.

More about ACABLa prima volta che ho sentito parlare di “Acab” di Carlo Bonini (Einaudi) è stato quando nell’homepage di Repubblica.it c’era tra le notizie un suo pezzo, quello relativo alla trascrizione (?) di messaggi del forum interno della Polizia di Stato. Una decisione editoriale che lasciava parecchio perplessi perché “Acab” era presentato come “romanzo” e Bonini è una delle firme di punta delle inchieste di Repubblica, quindi si creava uno spiacevole cortocircuito tra fiction e giornalismo. Ora che l’ho letto, mi rendo conto che il problema è complesso e merita un discorso un po’ più articolato. Continua a leggere

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Parlandone da vivo: Brian Harold May

[“Parlandone da vivo” è la nuova rubrica che pubblica coccodrilli di personaggi ancora vivi ma che hanno imboccato contromano il viale del tramonto a 190 all’ora, senza cintura e parlando al telefonino, con un trans minorenne chinato sulle loro parti basse]

A un primo sguardo, uno potrebbe pensare che il musicista rock più secchione di tutti sia Rivers Cuomo, chitarra e voce degli Weezer: occhiali spessi, un periodo di pausa dalla band dopo il successo del primo disco per iscriversi alla Harvard University, l’aria di uno che ha passato il liceo con la testa infilata nel cesso.
Errore. Il più secchione di tutti è stato Brian Harold May, chitarrista dei Queen, che interruppe la carriera accademica da astrofisico per andare a registrare armonie di chitarra a tre voci in compagnia di un grafico di origine persiana, di un odontotecnico con la voce da Rod Stewart e di un perito elettronico il cui unico hobby noto è mettere incinta la moglie. E che poi a un certo punto, attorno ai sessant’anni, decise che era ora di prenderlo, quel dottorato. Già che c’era ha pure scritto un libro divulgativo sul big bang ed è diventato rettore onorario dell’università John Moores di Liverpool.
Famoso, tra le altre cose, per suonare una chitarra autocostruita (con il legno di un caminetto e le molle di un motorino, tra le altre cose) usando una moneta al posto di un plettro, Brian May è stato uno di quei chitarristi dallo stile tutt’altro che virtuosistico ma capaci di costruire un suono e un fraseggio unici, che hanno definito il sound dei Queen anche nei momenti più bui. Stimatissimo da colleghi illustri come Steve Vai e Joe Satriani, nel 1992 li ha ospitati in un concerto organizzato per l’Expo di Siviglia (ai Queen la Spagna metteva addosso questa voglia di gigantismo, è evidente):

Negli ultimi anni, progressivamente abbandonata la chitarra, si è dedicato insieme a Roger Taylor a gestire il marchio Queen, mettendo in piedi un musical le cui edizioni sono infestate da tizi usciti dai talent show e registrando un disco con Paul Rodgers alla voce. Sembra però che la sua occupazione principale fosse il suo blog, dedicato prevalentemente a temi come la fotografia stereoscopica, l’astrofisica e gli appelli per la salvaguardia degli animali.
Resta un ultimo, lacerante, video in cui promuove il disco di una cantante italiana, già concorrente di Amici (non serve sapere chi sia lei, basta sentire il suo timbro vocale per capire da dove viene).

È stato un grande chitarrista e probabilmente anche un brav’uomo.
Ci mancherà.
Lasciate pure il vostro ricordo nei commenti.

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E ci sarebbero dovuti andare i Queen

È morto Malcolm McLaren. L’uomo che ha inventato i Sex Pistols.
Vi racconto come è andata. O almeno come la intendo io.
Non so se è la verità. Quando parli del rock è come con il west.
Tra la verità e la leggenda, scegli la leggenda.

Malcolm McLaren non ha inventato il punk. Il punk c’era già. Ma era una cosa che facevano in America.
A New York, per giunta.
C’era della gente che si divertiva a fare del gran rumore, a suonare rock semplice e diretto, togliere i fronzoli, prendere un po’ per i fondelli.
Ma era l’America. Puoi essere davvero fastidioso in America? A New York, poi. C’è qualcosa di sacro a New York?
L’intuizione geniale di Malcom McLaren è stata questa: prendere una banda di bastardi, trasformarli in complessino e buttarli in pasto ai media britannici. In realtà, non è questa grande invenzione. Andrew Loog Oldham lo aveva già fatto una dozzina di anni prima, quando si era reso conto che l’unico modo per rendere appetibili quei cinque fighetti innamorati della musica nera e che guardavano dall’alto in basso i Beatles perché loro mica suonavano roba pop per ragazzine era quello di trasformarli nello specchio dei Beatles. Ma per quanto Jagger e soci si siano effettivamente impegnati parecchio a fare quelli sporchi e cattivi, la loro restava sempre poco più che una straordinaria messa in scena.
I Pistols no. I Pistols brutti e sporchi lo erano per davvero.
Jagger si chinò davanti a Ed Sullivan e fece diventare la notte che voleva trascorrere insieme alla sua bella in del generico tempo. Quando i Sex Pistols finirono per la prima volta in televisione fecero andare di traverso il tè in centinaia di migliaia di salotti dalla moquette marrone ad altrettanti Harold e Maude [edit: vedi commenti]. È appena un minuto, ma è un minuto di televisione che sta a fianco a quelli che fecero la fortuna dei Beatles e di Elvis. Ed è un minuto di parolacce (“fuckin'”, “shit”), di schermaglie con un presentatore che, ironia della sorte, aveva tenuto a battesimo i Beatles alla tv inglese, Bill Grundy. Una delle necessarie figure di sfondo della storia del rock, una spalla che dà la battuta giusta a quattro stronzetti accompagnati da un tizio con una svastica al braccio e una giovane Siouxsie che si diverte a stuzzicarlo. Pensare che quel giorno doveva intervistare i Queen, da copione. Ma poi c’è un contrattempo. E la Emi manda quel gruppetto messo sotto contratto da poco. Ed eccoli lì.

Steve Jones ha una maglietta con stampate su delle tette. Johnny Rotten sembra arrivare dal futuro. Glen Matlock sembra l’unico fuori posto, un bravo ragazzo con il suo maglioncino in mezzo agli amici teppisiti. E infatti per lui, che forse è stato quello che ha scritto le canzoni, arriverà il licenziamento. Al suo posto arriva un frequentatore assiduo dei concerti dei Pistols, un ragazzetto bellino, un sacco punk ma che con la musica proprio non ci sa fare. Ci si è messo pure Lemmy a cercare di dargli lezioni di basso, ma non c’è niente da fare. Proprio non ce la fa.
McLaren coccola i suoi ragazzi, pianifica bene le mosse. Li manda a promuovere “God save the Queen” su un battello davanti a Buckingham Palace. L’anno del Giubileo.
La corona inglese ne aveva viste tante, fino a quel momento. Quello sberleffo feroce e sguaiato mancava. L’idea è straordinaria, mette il dito su una delle più eccezionali contraddizioni dell’Inghilterra: la sua modernità e il persistere di un’istituzione medievale, una specie di folcloristico residuo di tempi andati. La graziosa regina nel suo palazzo mentre Londra brucia (ci vorranno i Clash a spiegare bene quello che i Pistols hanno confusamente urlato, ma questa è un’altra storia) e i punk urlano tutto il loro divertimento e il loro disprezzo. Per la prima volta la corona inglese diventa sponda inconsapevole di una strategia di marketing. È solo in Inghilterra, così, che il punk può diventare una cosa che si identifica integralmente con la ribellione giovanile.
Per fare un esempio spiccio: i Ramones sono divertenti, sono sboccati, sono irriverenti, sono dei cartoni animati che ti danno delle mazzate sulla testa e poi spunta il bernoccolone con le stelline. I Sex Pistols vogliono sfregiarti con una bottiglia rotta e pisciarti addosso.
Boom. Teenager colpiti e affondati.
Il look dei Pistols diventa moda.
Steve Jones si presenta sul palco con in testa un fazzoletto con gli angoli legati, come le vecchie con le vene varicose a Brighton. I fan lo seguono. Se volete un’immagine della grande truffa messa in piedi da McLaren, per me è quella.
Ma quanto può durare quella che dovrebbe sembrare una rivoluzione e che poi diventa moda?
Poco.
I Pistols si imbarcano in un tragicomico tour americano, durante il quale vanno in frantumi.
Ma a McLaren importa ormai poco, ha trovato in Sid il suo nuovo pupillo.
Passato da essere uno qualunque a una specie di incrocio punk tra John Lennon e James Dean, il ragazzo sbrocca e va a finire come è finita. Nancy in un lago di sangue in una stanza d’albergo, Sid morto di overdose non molto dopo, un Jim Morrison espresso appena appena in tempo per chiudere gli anni Settanta con un’altro bel cadavere iconico.

Ha fatto dell’altro, dopo, Malcolm McLaren?
Sì, credo.
Ma può essere anche solo lontanamente paragonato a questo?

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