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Due figlie e altri animali feroci

Se mi avessero mai detto che un giorno avrei letto un libro autobiografico (UNA STORIA VERA) che raccontava la storia di un’adozione internazionale è probabile che mi sarei fatto una grassa risata. E invece è successo che un libro così non solo l’ho letto, ma mi ha anche fatto fare ben più di una grassa risata.

“Due figlie e altri animali feroci”, il primo libro di Leo Ortolani, è esattamente questo: il diario, in forma di lettere spediti agli amici, del viaggio in Colombia dell’autore e di sua moglie per adottare due bambine. C’è un prologo che racconta come sono arrivati a dover andare fino in Colombia, ma il libro è questo. Ovviamente non l’avrei mai letto se l’autore fosse stato un’altra persona: Leo Ortolani, come qualcuno forse non sa, è un autore di fumetti, famoso per aver creato Rat-Man, un personaggio che nato come parodia dei super-eroi si è nel tempo evoluto fino a dare forma a una saga a fumetti in cui la comicità è solo uno degli ingredienti. Compro ininterrottamente Rat-Man da 15 anni (è il fumetto che ho comprato regolarmente per più tempo) e ho sempre ammirato come Ortolani sia riuscito a migliorarsi sia come disegnatore sia come scrittore. I testi di Rat-Man sono diventati un piccolo campionario di scrittura breve, con dialoghi di “scuola emiliana” (quel colloquialismo un po’ alla Nori, per intenderci) e soluzioni comiche spesso inedite, come quel numero che si apre con una lunga e articolata bestemmia in didascalia evocata attraverso lo stile lapidario di Frank Miller:

Ed è un nome di donna quello che viene evocato.
Eva. La madre di tutti noi.
Un’Eva sofferente. Un’Eva che vende il suo corpo.
Le mani cercano un appiglio. Lo trovano. Lo perdono.
Un bovino da latte.
Una città conquistata da Ulisse con l’inganno.
Eva.

La sensazione che a Ortolani dopo tanti anni inizi a stare stretto non solo il ratto ma anche il balloon ce l’avevo da un po’ e volevo vedere come se la poteva cavare sul formato lungo.
La curiosità, per fortuna, è stata più che premiata.
“Due figlie” è un libro che si regge in un equilibrio quasi perfetto tra raccontare un momento difficile e impegnativo, con le sue insicurezze, i suoi imprevisti e le sue gioie e non farne della pornografia dei sentimenti. Leggendo un po’ di recensioni su Anobii ho trovato commenti un po’ infastiditi di lettori interessati al tema dell’adozione che lamentavano di non aver trovato nel libro dei sentimenti espressi chiaramente. Sono critiche interessanti perché mi fanno pensare che siamo talmente abituati a una pornografia dei sentimenti che se questi non vengono urlati secondo formule standard non siamo più in grado di riconoscerli.
Perché è vero: Ortolani non ti sbatte in faccia i sentimenti suoi e della moglie, non dice niente sul passato delle figlie (che si intuisce non deve essere stato rose e fiori). Come un bravo narratore, quando può mostrare, mostra e non racconta. Se poi il lettore non è in grado di capire quando la battuta, l’iperbole e il paradosso sono degli scudi per rielaborare quello che prova, sono problemi del lettore. Se invece il lettore lo capisce si guadagna un biglietto per un sacco di risate e, allo stesso tempo, per una descrizione palpitante di un’esperienza tutt’altro che semplice.

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Basta solo il prologo iniziale, con il suo viaggio dai tentativi di avere un figlio al percorso burocratico-psicologico che intraprende quando si sceglie di cercare di adottare dei bambini a fare capire che Ortolani è un osservatore e un narratore della realtà come ce ne sono pochi. Fa ridere per l’autoironia, fa indignare per il bizantinismo dell’istituto dell’adozione, commuove per gli alti-bassi emozionale a cui costringe la coppia, ma nessuno di questi elementi prevale mai sugli altri: non diventa mai una farsa, un pamphlet o una narrazione patetica. Tutto resta mescolato insieme.
E il libro è tutto così; c’è un calo fisiologico a un certo punto, quando si sente che la stanchezza ha iniziato a reclamare quello che le spetta. E forse a un certo punto l’interesse per i movimenti intestinali di una delle due bambine diventano un po’ pesanti, ma sono difetti minori in un librino che è altrimenti perfetto.
Le lettere sono corredate da vignette che espandono o deformano gli episodi raccontate, nello stile classico di Ortolani, con i personaggi dal caratteristico “muso di scimmia”; all’inizio magari si fa un po’ di fatica ad abituarsi, dopo un po’ sembra la cosa più naturale del mondo.

Il blog di Ortolani, Come non detto, è in alcuni suoi post la naturale prosecuzione del libro.

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Manowar – The Lord of Steel (una recensione al volo)

Niente Ken Kelly. E’ la fine di un’epoca

Ognuno ha le sue debolezze. La mia sono i Manowar. Anzi, i ManOwaR.

E’ uscito un nuovo disco dei Manowar. Doveva uscire nel 2009 e doveva essere un concept album su Asgard scritto insieme a uno scrittore fantasy tedesco. C’era anche un sito, grandi progetti, poi le cose devono essere andate un po’ a puttane, perché nel frattempo Scott Columbus ha lasciato il gruppo (e nel 2011 è morto) e alla batteria è tornato Donnie Hamik, batterista del primo disco; con lui hanno riregistrato Battle Hymns nel 2011 (una roba più che Spinal Tap molto brutta perché i suoni scelti facevano cagare).
Alla fine il disco, uscito il 16 giugno in anteprima digitale, non è un concept (grazie al cielo). I due dischi precedenti, Warriors of the World del 2002 e Gods of War del 2007 erano senza mezzi termini molto brutti: il primo registrato da un gruppo allo sbando con una scaletta assurda (tre canzoni uguali una dietro l’altra, cover assurde come il Nessun dorma e un medley di brani tradizionali americani), il secondo pensato lungamente per essere un’accozzaglia di melassa pseudo-sinfonica che teneva insieme una manciata di brani piatti e banali.
Come sarà? Ecco, l’ho comprato e l’ho ascoltato. Qua sotto c’è quello che ho scritto mentre lo ascoltavo per la prima volta. Continua a leggere

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