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Ritagli

Una delle cose più pratiche che permette di fare un e-reader è sottolineare i testi e avere poi a portata di mano tutti i passaggi che si vogliono conservare.
Di seguito, una piccola raccolta di sottolineature, senza un particolare filo conduttore, tra saggi e narrativa, dagli ultimi tre anni circa di letture.

Alberto Grandi, Denominazione di origine inventata
Questo è il paese nel quale due tra le regioni più ricche del mondo, il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia, si fanno la guerra per stabilire la paternità del tiramisù, dove politici di levatura nazionale scendono in campo come cavalieri medievali per difendere l’onore di una salsiccia o di un formaggio. C’è qualcosa di medievale, in effetti, nell’impegno profuso da ogni singolo comune per ottenere una qualche forma di riconoscimento al suo prodotto locale. Quasi che i prodotti tipici siano “le sacre reliquie del Ventunesimo secolo, il pane di grano arso venerato come il braccio di Sant’Antonio, la colatura di alici come il sangue di San Gennaro, le strade del vino come il cammino dei pellegrini, la lotta per la Dop come l’ultima crociata”

Anatolij Kuznecov, Babij Jar (trad. Emanuela Guercetti)
Era in corso una fantastica guerra con la Polonia. Hitler da occidente, noi da oriente – e fine della Polonia. Naturalmente, per salvare le apparenze la chiamammo «liberazione dell’Ucraina Occidentale e della Bielorussia», e appendemmo manifesti dove una specie di servo della gleba tutto lacero abbracciava un valoroso liberatore dell’Armata Rossa. Ma così si usa. Chi invade è sempre il liberatore da qualcosa.

I sistemi della menzogna e della violenza hanno scoperto e sfruttato brillantemente un punto debole dell’uomo: la credulità. Il mondo va male. Si presenta un benefattore con un progetto di radicali cambiamenti. Secondo questo progetto oggi sono necessari sacrifici, ma in compenso sulla linea del traguardo sarà garantito a tutti il paradiso. Qualche parola incendiaria, una pallottola alla nuca per gli increduli – ed ecco già folle di milioni in preda all’entusiasmo. Una cosa incredibilmente primitiva – ma funziona!

Lawrence Wright, Dio salvi il Texas (trad. Paola Peduzzi)
La Humane Society degli Stati Uniti ritiene che ci siano più tigri che vivono in cattività in Texas che le tremila che vivono allo stato brado.

C’è un antico detto che dice che la ragione per i cui i battisti non avvitano nulla stando in piedi è perché qualcuno potrebbe pensare che stiano ballando.

Sfinita dal trattamento spietato riservato alle donne, Jessica Farrar, deputata liberal di Houston, introdusse la legge 4260, il Man’s Right to Know Act, usando lo stesso linguaggio paternalistico “lo faccio per il tuo bene” che caratterizza le molte norme riguardo all’aborto e alla salute delle donne – richiedendo per esempio un’ecografia e un esame rettale prima di prescrivere il Viagra.

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Legittima difesa – Maggio/Giugno 2012

Questa cosa dei libri del mese mi sta decisamente sfuggendo di mano.

More about El Borak and Other Desert AdventuresDella piacevolezza delle edizioni illustrate Del Rey dell’opera di Robert E. Howard ho parlato nella scorsa puntata. Questo El Borak and other desert adventures non fa eccezione; anzi, se possibile alza ancora di più il livello mettendo in campo i disegni di Tim Bradstreet, illustratore e copertinista che nello scorso decennio ha ricreato dalle fondamenta l’iconografia del Punitore, tra le altre cose. El Borak (“lo svelto”), il personaggio che dà il titolo a questa raccolta di storie, è un avventuriero texano che ha piantato le tende nell’Afghanistan degli anni Dieci, dove passa il suo tempo a sventare complotti, recuperare fanciulle in pericolo da città nascoste tra le montagne, cacciarsi fuori dai guai in cui si è cacciato. Come ogni avventuriero degno di tal nome. Anche se alcune di queste storie sono state nel corso degli anni trasformate in avventure a fumetti di Conan, cambiando quello che serviva, la magia e il sovrannaturale sono praticamente assenti (a parte lo yeti): si tratta di avventura pura e semplice, la stessa che si ritrova anche nelle storie di un paio di personaggi minori con cui si completa il volume. Una chicca è la prima versione di The Fire of Asshurbanipal, che manca del finale sovrannaturale, ritrovata nel 1972 e pubblicata solo un paio di volte.
È un volume che, nonostante una certa ripetitività di situazioni (il gruppo del protagonista assediato in una grotta sul fianco di una montagna da cui fugge perché trova un’uscita ignorata, per esempio), mostra la potenza della scrittura di Howard e la sua capacità di costruttore di storie. Non ci sono fronzoli, non c’è niente che non sia funzionale alla storia, neanche nelle psicologie dei personaggi. C’è molta ferocia e Son of the White Wolf, la storia di un disperato e rabbioso tentativo di far nascere un nuovo impero turco, ne è forse il punto più alto, pur nella sua brevità:

“We have reached the end of the Islamic Age. We abjure Allah as a superstition fostered by an epileptic Meccan camel driver. Our people have copied Arab ways too long. But we hundred men are Turks! We have burned the Koran. We bow not toward Mecca, nor swear by their false Prophet. And now follow me as we planned – to establish ourselves in a strong position in the hills and to seize Arab women for our wives.”
“Our sons will be half Arab,” someone protested.
“A man is the son of his father,” retorted Osman. “We Turks have always looted the harims of the world for our women, but our sons are always Turks.”

Finisce anche peggio di come si può immaginare, per la cronaca.
Narrativa di intratteimento da leggere magari non un racconto dietro l’altro perché alla lunga la ripetitività c’è, però comunque roba di buon livello, scritta nell’impareggiabile prosa vigorosa di Howard.

More about Hunger GamesSotto l’etichetta Young adults si sono consumati incredbili crimini contro l’umanità. L’idea è che gli adolescenti si bevano qualsiasi polpettone di amore e morte e che a volte, quando ti va bene, riesci a venderlo anche a chi adolescente non è. Hunger games di Suzanne Collins è finito sul mio kindle perché era in offerta a un prezzo ridicolo e perché ne sentivo parlare con toni positivi che non erano quelli del guilty pleasure da qualche tempo, altrimenti mai e poi mai mi sarei avvicinato al nuovo campione del genere. Doverosa premessa, che poi arriva nei commenti quell/o con il ditino alzato: non ho visto/letto Battle Royale in nessuna delle sue incarnazioni. Ma si dovrebbe parlare anche di due romanzi di Stephen King (pubblicati con lo pseudonimo Richard Bachman), La lunga marcia e L’uomo in fuga (da cui L’implacabile con il buon vecchio Arnie) da cui provengono sia l’idea della competizione mortale tra i giovani in un’America futuribile andata a scatafascio sia quella dello show televisivo a eliminazione diretta dei concorrenti.
Se dovessi definire Hunger Games con due soli aggettivi direi che è onesto e furbo, ovviamente secondo due aspetti diversi.
È onesto nelle intenzioni, nella scrittura assolutamente piana, nell’andamento della storia e nella costruzione dei personaggi. La Collins non cerca di fare lezioncine sull’animo umano, sulla violenza, la morte, i giovani bla bla bla. Racconta la storia di questo gioco televisivo in cui i sorteggiati dei dodici distretti in cui è divisa l’America del futuro si massacrano fino a che non ne rimane uno solo. È una storia di avventura, in cui a un certo punto arriva il twist. Che è la parte astuta.
Perché da qualche parte la storia d’amore ce la devi mettere, ma non è detto che tu ce la debba mettere in modo banale. Così, la Collins gioca con gli incassamenti della storia nella storia, con il fatto che il reality/talent è sempre una finzione e… non mi va di anticipare cosa succede perché per me è stata la parte più interessante del libro come idea e come sviluppo. Semmani ne parliamo nei commenti.
È con questo guizzo che il libro diventa non un capolavoro ma un oggettino interessante che se fossi ancora all’università e avessi una tesina di sociosemiotica da proporre ci farei un pensiero.
Non credo che farò un pensiero, invece, sugli altri due volumi della trilogia perché mi piace immaginare conclusa lì la storia di Katniss, almeno la parte che poteva interessare a me.
Però è stato davvero una piacevole sorpresa, un po’ perché partivo da aspettative molto basse e un po’ perché è un piacevole prodotto di intrattenimento che si merita il successo che sta avendo.

More about Esploratori perdutiA proposito di onestà, una cosa per cui nutro sempre sentimenti contrastanti è quando un editore riesce a vendermi dei libri facendoli passare per quello che non sono, per esempio dando a un saggio accademico l’aria di un divertente libretto divulgativo pieno di storie e aneddoti. È quello che hanno fatto le Edizioni Codice con Esploratori perduti di Stefano Mazzotti, che si propone di raccontare le storie, sconosciute ai più, delle spedizioni scientifiche italiane tra XIX e XX secolo. La copertina salgariana, in tutto lo splendore della cromolitografia ingrandita fino a diventare pop-art, e i paratesti fanno pensare a un volume scoppiettante dedicato alle vite avventurose e stravaganti di eccentrici individui alle prese con la sopravvivenza in ambienti ostili, magari raccontate con un filo di ironia (alla Bill Bryson, insomma). E invece no. Per lo più il libro di Mazzotti si concentra sulle conseguenze delle esplorazioni, sul loro apporto scientifico, sulle collezioni che hanno permesso di creare e che ancora oggi costituiscono l’ossatura di musei come quello di Storia Naturale a Genova (dove prima o poi devo fare una gita, quasi vent’anni dopo l’ultima) (mi accucciai per allacciarmi una scarpa nella sala del rinoceronte impagliato e… diciamo che il corno sul muso ha un gemello). Gli elementi avventurosi ci sono, ma sono sempre in sordina e non sembra che Mazzotti sia molto a suo agio con questo tipo di materiale. Certo, ci sono spunti eccezionali, come il viaggio che dovevano fare i campioni di animali dal cuore dell’Africa alle coste italiane, magari in vasi di vetro colmi di alcol, però purtroppo Esploratori perduti resta una specie di fonte per l’eventuale libro appassionante sulle vite di questa gente. Che spero qualcuno faccia in futuro.
More about Caccia grossaA proposito di pagine poco note della storia patria, c’è il fatto che l’Italia ha vissuto, negli anni successivi all’unità, la curiosa situazione di fare quelle che oggi ci sembrano a tutti gli effetti delle guerre coloniali ma sul suo stesso territorio. Le più famose sono ovviamente le operazioni contro i “briganti” nell’ex regno Borbonico, ma fino ai primi anni del Novecento l’esercito italiano ha dovuto riportare la sovranità su parti del territorio che stavano sfuggendo di mano. È successo in Toscana ed è successo anche in Sardegna, dove nel 1899 venne mandato tra gli altri un giovane ufficiale fiorentino, Giulio Bechi, che raccontò poi quegli eventi in un libro dal titolo Caccia grossa, che già dovrebbe fare capire quale fosse l’atteggiamento verso gli “indigeni”. Il libro, nonostante la lingua inevitabilmente datata, è interessante soprattutto per la curiosità antropologica che Bechi mostra verso la società sarda, le sue usanze e la sua arcaicità, come mostra questo passaggio dedicato al pranzo matrimoniale:

Parte indispensabile del menu è poi il cosidetto prattu de brulla (piatto di burla) e consiste in vivande poco lusinghiere per il palato come ossa spolpate, sassi, pezzi di legno, di sughero, erbe spinose, ecc. Ad Orosei il piatto di burla che si presenta allo sposo deve contenere un bel paio di corna… credo bene contro la iettatura! A Sarule se l’invitato non si accorge subito dello scherzo e non è lesto a scaraventare il piatto nella schiena del servo che glielo presenta, deve dargli una mancia di mezza lira. All’arrivo quindi del prattu de brulla, è un volar di piatti da ogni parte addosso ai poveri servitori, i quali, svelti come scoiattoli, cercano di presentare a quanti più possono il loro piatto per buscarsi altrettante mezze lire.

Comunque, con tanti saluti all’inno di Mameli, gli italiani dell’epoca si sentivano tutt’altro che fratelli e le differenze economiche e sociali tra le regioni più ricche e quelle meno fortunate come l’entroterra sardo erano tutt’altro che trascurabili.
La prima edizione elettronica del libro (che è quella che ho letto io) era letteralmente impestata di errori: creata con l’OCR, non era stata evidentemente riletta. Informata della cosa, la casa editrice (e/o) ha provveduto a distribuire una versione corretta. Per fortuna gli ebook permettono questo genere di correzioni al volo (l’utente deve solo riscaricare il libro dal sito dove l’ha acquistato), ma comunque lo stato del testo messo in vendita era davvero pietoso e un pessimo segnale della faciloneria con cui certe operazioni vengono svolte. Speriamo che con il tempo cresca la cura dedicata dagli editori agli ebook.

More about La verità dell'Alligatore…ed è la Sardegna la bellissima regione scelta come dimora dallo scrittore Massimo Carlotto, direbbe Mentana per riuscire a collegare il passaggio al prossimo titolo, che è La verità dell’Alligatore del suddetto Carlotto (avevo degli sconti sugli ebook e/o, non si vede?). Primo romanzo di Carlotto dopo l’autobiografico memoriale sulla latitanza, La verità dell’Alligatore ha dentro i temi dei libri successivi (sia con l’Alligatore sia senza), ma senza la lucidità e la padronanza della narrazione delle prove migliori (Arrivederci amore ciao su tutte). Il protagonista è una compiaciuta proiezione dell’autore, l’inserimento delle citazioni di brani blues è meccanico, il ritratto della provincia ricca annoiata e criminale è molto manicheo e sui personaggi femminili aleggia un’aria di misoginia parecchio sgradevole. Poi sì, la storia fila abbastanza e, salvo gli intoppi di cui sopra, si legge. Ma Carlotto ha fatto di meglio e qui l’inesperienza la paga tutta. Per completisti, come si dice in questi casi.

I sing of power, magick and faith…
Il fatto che il nuovo romanzo di Simone Sarasso si chiami Invictus mi permette di tirare fuori dall’armadio i Virgin Steele, anche perché nella vita dell’imperatore Costantino di potere, magia e fede ce n’è stata abbastanza. Vabbeh, forse non la magia. E forse la fede è stata più che altro uno strumento, ma il potere quello sì.
More about InvictusPubblicato nella nuova collana low cost con cui Rizzoli cerca di andare dietro alla fortunata serie di libri a 9,99 € della Newton Compton, Invictus è strutturalmente un romanzo classicissimo, in cui seguiamo la vita del protagonista dall’infanzia alla morte, che dalla copertina sembra indistinguibile da quel fortunato filone (a giudicare da quanti titoli vedo in libreria) dedicato all’impero romano e ai suoi protagonisti. Il classico feuiletton da ombrellone?
Non credo; credo anzi che Sarasso abbia fatto andare almeno un paio di volte la granita di traverso agli estimatori-tipo del genere.
In linea con i suoi romanzi precedenti dedicati alla storia dell’Italia del dopoguerra (Confine di Stato e Settanta), Sarasso tiene l’obiettivo ben puntato sul lato sporco del potere, sulle cose che vanno fatte, sulla soldataglia, sul sangue. Il linguaggio mantiene il vezzo sarassiano del fare parlare i personaggi come in un action movie doppiato alla meno peggio, adattando però il vocabolario al periodo storico (per esempio, non compare mai la parola “puttana”, di origine medievale, per quanto il concetto sia reso con termini più consoni all’epoca) e farà sicuramente storcere il naso a quelli convinti che nei romanzi storici chiunque debba esprimersi con aforismi ben formati ed eloquenti. Qua persino i filosofi vanno a tabularie.
Nella prima parte del romanzo giganteggia la figura di Diocleziano: soldato, padre dell’impero, carismatico. Puoi quasi sentire il dispiacere dell’autore quando è costretto a lasciarlo da parte nel suo buen ritiro sulla costa dalmata.
Il periodo storico è generalmente poco noto e gli eventi piuttosto caotici, con quell’altalenare tra frammentazione e ricomposizione dell’impero, ma la ricostruzione è sufficientemente chiara senza voler essere didattica o didascalica.
Poi, certo, il tono sempre “d’acciaio”, sempre alla ricerca della frase d’effetto, un po’ sulla lunga tende a dare fastidio e in alcuni momenti avrei preferito forse che la voce dell’autore facesse un passo indietro. Ma nel complesso è un’epopea ben raccontata, potente, che nelle parti migliori ti investe con la forza di un maglio e ha qualcosa delle storie di Re Conan o di Kull scritte da R. E. Howard. Mi aspetto un prequel su Diocleziano, prima o poi…

More about Sacré bleuTutte le volte che mi tocca di parlare di un romanzo di Christopher Moore mi sento in dovere di dire la stessa cosa: “non sarà mai bello come Il vangelo secondo Biff“. Secondo me Biff è uno dei più bei romanzi comici degli ultimi vent’anni e forse di sempre, quindi se non l’avete letto…
Però poi non è che uno può sempre stare lì a rivangare il passato. Moore ha scritto anche degli altri libri che non sono Biff e che a volte sono anche parecchio belli. E’ il caso ad esempio di Sacré Bleu, ambientato tra i pittori impressionisti francesi, alla prese con un misterioso colorista e una donna bellissima che, di fatto, il colore blu. Un po’ fantasy (in senso lato, non nel senso di “ruba l’artefatto fine-di-mondo all’oscuro negromante re del male”), un po’ romanzo storico, parecchio romanzo umoristico, questo nuovo nato in casa Moore garantisce qualche ora di spasso, qualche insegnamento sulla storia dell’arte e dei colori, una divertente caratterizzazione di Toulouse Lautrec (praticamente protagonista del libro) che ogni tanto sconfina nel Tyrion Lannister più scanzonato. L’umorismo di Moore è sempre efficace e la storia ben congegnata e di ampio respiro.
Certo, non è un capolavoro come Biff ma… Ma ricorda comunque alcune cose di Tom Robbins, il che è un pregio non da poco.

More about Two for TexasPer qualche strano motivo, continuo a incocciare in romanzi più o meno storici. Two for Texas di James Lee Burke, infatti, ha il suo culmine nella battaglia di Fort Alamo, lo storico assedio dei texani da parte dei messicani finito con la vittoria di questi ultimi e la morte di due personaggi del vecchio west come Davy Crockett e Jim Bowie (inventore dell’omonimo coltello). Sarà che la storia inizia in una colonia penale nelle paludi da cui i due protagonisti riescono a fuggire fortunosamente, sarà il tono anti-eroico e la generale crudezza della narrazione e delle vicende, ma il romanzo mi ha ricordato le atmosfere della serie a fumetti Ken Parker. Ho fatto un po’ di fatica a finirlo perché in realtà non è così avvincente come ci si potrebbe aspettare dal soggetto e perché comunque ho una visione della Frontiera più spensieratamente avventurosa (alla Tex, per intenderci) ma è comunque un lavoro solido.

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Autodifesa – Dicembre 2011

Ecco gli ultimi libri del 2011. Non c’è un consuntivo finale, non so se ci sarà.
Dovrei anche parlare di alcuni fumetti, ma lo farò in un altro post (una volta ci infilavo anche i fumetti in questi resoconti, poi chissà perché ho smesso; forse dovrei ricominciare).
Ah, si parla un sacco dei Queen. Siete avvisati.

More about HornsC’è sempre un disturbo di fondo, quando si parla di Joe Hill, perché Joe Hill è lo pseudonimo di Joseph Hillstrom King, uno dei figli di Stephen King. Hill non è il solo degli eredi del Re ad avere scelto la carriera dello scrittore ma, a differenza di suo fratello Owen, scrive racconti, romanzi e fumetti horror. Proprio come molti di quelli scritti da papà (ci sarebbe tutto un lungo discorso da fare sul fatto che l’identificazione di King come autore horror è incorretta e sciatta, ma magari un’altra volta), con il quale ha anche scritto un racconto a due mani come omaggio a Matheson.
È un dato di fatto che quello che ho letto finora di Hill richiami moltissimo le atmosfere dei romanzi horror del primo King, ma questo vale anche per un numero incredibile di altri scrittori (oggi rido pensando al fatto che lo scaffale “horror” delle librerie sia diventato lo scaffale “sesso con creature sovrannaturali”, ma quando ero ragazzino io era lo scaffale “cittadine americane con oscuri segreti”). E quindi il rischio di quelle cose tristissime alla “De André canta De André” c’è tutto; oltre all’ovvio spettro della posizione privilegiata di partenza nel rapporto con l’editoria (“è il figlio”, come direbbe Vulvia). Ma allo stesso tempo Hill ha un piglio nell’affrontare il genere che fa di lui un autore di tutto rispetto; almeno per me, che a parte la sua serie a fumetti Locke & Key ho letto tutto quello che ha finora pubblicato, una raccolta di racconti e i romanzi “La scatola a forma di cuore” e “Horns”.
Horns” (Morrow) non è ancora stato tradotto in italiano. La storia inizia senza alcun preambolo con Ignatius, un ragazzo ventenne, che si sveglia la mattina con un bel paio di corna che gli spuntano dalle tempie e in presenza delle quali le persone sembrano perdere ogni inibizione e gli raccontano tutto quello che gli passa per la mente. Cosa ha che fare questo con la sua visita la notte precedente, ubriaco, al luogo dove un anno prima la sua ragazza era stata stuprata e uccisa, un omicidio di cui mezzo paese pensa sia lui il colpevole? Continua a leggere

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Autodifesa – Novembre 2011

Bentornati ad Autodifesa, la rubrica di commenti sui libri letti nel mese precedente.
Questa volta, sembra quasi uno speciale a tema su alcune declinazioni sul tema del tempo o, sotto altri aspetti, uno speciale dedicato quasi tutto alla fantascienza.

More about L'occhio del purgatorioL’occhio del purgatorio di Jacques Spitz (Urania Collezione) non lo trovate più in edicola e dovete eventualmente chiederlo al servizio arretrati di Mondadori. Peccato, perché questo libro in un mondo più giusto dovrebbe essere un classico del fantastico assieme ai romanzi di H.G. Wells o a Frankenstein o a 1984 e meritarsi edizioni dalla vita commerciale meno effimera. La storia (reinterpretata da Gianfranco Manfredi in un Dylan Dog del 1994, “I giorni dell’incubo“) ruota attorno a una supercazzola scientifica grazie alla quale uno squattrinato e depresso pittore si trova, suo malgrado, a vedere le cose come saranno nel futuro e non più come sono nel presente. All’inizio lo scarto è solo di ore, poi diventa di giorni, poi settimane, mesi, anni, decenni, secoli, millenni, in un crescendo di dissoluzione. Non preoccupatevi: non ho spoilerato irrimediabilmente il libro, perché l’intreccio – che è poi abbastanza lineare – è un pretesto che permette a Spitz di mettere insieme visioni di ispirazione surrealista e riflessioni esistenzialistiche che costituiscono il vero senso del lungo racconto e che, per fortuna, non è possibile spoilerare. È un lungo e lucidissimo incubo, in cui il fantastico serve non a “mascherare” la realtà ma, al contrario, a farla esplodere, tenderla fino all’estremo per rivelarne l’essenza. Una vena di humour nero mitiga in parte il tono cupissimo della vicenda, lo stessa combinazione che si ritrova anche nel secondo romanzo breve ospitato dal volume, “Le mosche“, variazione sul tema della lotta tra esseri umani e invasori votati al loro sterminio in cui la minaccia non arriva però dallo spazio più o meno profondo ma dagli umili e fastidiosi insetti, che di colpo sviluppano un’intelligenza messa immediatamente al servizio di una lotta ferocissima e senza quartiere contro il genere umano. Anche qui Spitz si dimostra un abilissimo gestore del ritmo narrativo e la vicenda, per quando prevedibile, si snoda in un altro crescendo di orrore e ironia. Le parti migliori sono quelle che riguardano le reazioni di ogni stato all’invasione, con una particolare menzione per la figura da operetta dell’italietta fascista e per l’apocalittico scenario evocato per la Germania nazista. Ma in generale ci sono sparsi abbastanza spunti da dare vita a milioni di fan-fiction (in fondo è l’apocalissi zombi con le mosche al posto dei morti viventi).
Insomma, un volume che al prezzo di un pacchetto di sigarette mette insieme due bei pezzi di fantastico del primo Novecento. Tenete d’occhio bancarelle e remainders.

More about 11/22/63Se il protagonista di Spitz viaggia in avanti nel tempo con lo sguardo, il viaggio nel tempo di Jake Epping, il protagonista di “11/22/63” di Stephen King (Scribner) invece viaggia fisicamente indietro nel tempo fino al 1958. Era da parecchio tempo che non compravo un romanzo di King appena uscito; anzi, grazie ai potenti mezzi di Amazon, l’ho ricevuto sul Kindle proprio appena uscito. It’s a kind of magic, che mi sembrava giusto sfruttare per verificare subito se l’ambiziosa impresa del Re è stata coronata da successo. In “11/22/63”, infatti, lo scopo ultimo del viaggio nel tempo è impedire l’omicidio di John Kennedy il 22 novembre del 1963, nella speranza di cambiare in meglio il corso della storia. Da un’idea del genere può uscire una gigantesca cazzata o qualcosa di molto buono: King per fortuna sua ha pescato le carte giuste e ha costruito attorno a questa idea un romanzo fluviale in cui è riuscito a far stare insieme ricostruzione storica, personaggi tridimensionali e probabilmente più richiami alla sua cosmogonia di quanti io sia stato in grado di cogliere (sono stato un lettore della Torre Nera abbastanza distratto, ahimè).
Colpisce, rispetto a molti altri romanzi di King di questa mole, la rapidità con cui si entra nel vivo della vicenda: il varco temporale verso il 1958 (e ritorno) viene introdotto praticamente all’inizio del libro ed Epping, docente di un liceo del Maine uscito dal matrimonio con un’alcolista, fa il suo primo viaggio indietro nel tempo quasi immediatamente. È una cosa un po’ da episodio di “Ai confini della realtà”, ma che King riesce a spogliare da ogni possibile ingenuità e a farla sembrare assolutamente logica, così come succede con le “regole del gioco” secondo le quali il varco porta sempre nello stesso giorno del 1958 e nello stesso posto; qualunque azione effettuata nel passato che cambi il futuro viene annullata da un eventuale viaggio successivo; non importa quanto tempo si passi nel passato, nel “presente” saranno sempre passati solo due minuti.
Insomma, sembra che King abbia fretta di sbrigare le formalità il più in fretta possibile per buttarsi a capofitto nel vivo della vicenda, cosa a cui si dedica diligentemente. C’è qualche eco da Ritorno al futuro, che non poteva non essere evocato in qualche modo (l’almanacco con i risultati sportivi), e c’è un commovente incontro a Derry con due personaggi di It. La ricostruzione dell’America di fine anni cinquanta-inizio anni sessanta fatta King è precisa e oscilla tra il fascino per un mondo più semplice e il rigetto per un mondo molto più bigotto e rigido (oltre che ovviamente segnato dalla segregazione razziale); un mondo che in ogni caso sembra offrire un perfetto rifugio a una delle più persistenti ed efficaci incarnazioni del Male secondo Stephen King, vale a dire il padre di famiglia violento con moglie e/o figli. Qui ne abbiamo addirittura tre occorrenze, una delle quali è proprio Lee Oswald, l’uomo che uccise JFK (taglio la testa al toro per non entrare nel campo minato delle ricostruzioni della morte di Kennedy, argomento su cui onestamente non so abbastanza per propendere per questa o quell’ipotesi; vi segnalo solo questo breve spezzone su una delle figure di contorno più inquietanti e a suo modo kinghiane di quella mattinata texana, l’uomo con l’ombrello). Su così tante pagine di romanzo è fisiologico che ci siano alcuni momenti di stanca, specie nelle sequenze di raccordo tra le parti più importanti, ma generalmente King riesce a tenere alto il ritmo e, di tanto in tanto, a lasciare cadere senza troppo clamore frammenti di trama che troveranno completamento più avanti (così come alla fine vengono spiegate molte cose apparentemente senza senso che succedono nella prima parte del libro). Come nelle opere migliori di King, l’incantesimo per cui da un lato desideri di arrivare il più in fretta possibile alla fine del libro per scoprire che cosa succederà e dall’altro vorresti invece ritardare quel momento il più possibile per non dovere abbandonare i personaggi funziona benissimo e il libro si legge tutto sommato in fretta (anche se ovviamente leggerlo in inglese lo fa durare un po’ di più).
In questo caso, anticipare troppo della trama rovinerebbe il piacere della lettura; basti solo sapere che il finale è soddisfacente sia dal punto di vista delle implicazioni dei viaggi nel tempo sia da quello dello sviluppo dei personaggi. E che le due cose in qualche modo si sostengono a vicenda. Tenete a portata di mano i fazzoletti, in ogni caso.

More about Chi non muoreChi non muore” di Gianluca Morozzi (Guanda) è un interessante tentativo da parte dello scrittore bolognese di riunire in un romanzo solo i due filoni della sua produzione – la commedia e il thriller-horror venato di sovrannaturale. In realtà, l’equilibrio tra i due elementi qui risulta sbilanciato sul primo versante: le tragicomiche vicende musical-sessual-sentimentali di Angie, giovane studentessa fuorisede che vive in un appartamento condiviso con improbabili coinquiline e cerca di conquistare un tormentato e sfuggente tastierista unico superstite dell’omicidio anni prima dei membri del suo gruppo, occupano la gran parte del libro e la decisa sterzata alla storia che danno le rivelazioni finali è davvero brusca. Ma nonostante questo difetto, il libro è uno spasso. Morozzi è riuscito a trovare una voce narrante femminile credibile attraverso la quale raccontare miserie, glorie e idiosincrasie del fuori-sedismo a Bologna, tra cui quella sensazione che hai che Bologna sia un po’ una di quelle cittadine lovecraftiane in cui gli abitanti hanno i loro oscuri segreti che li spingono a non dare poi così tanta confidenza a chi viene da fuori (e l’assoluta certezza che la città finisca al Parco Nord e che da lì in poi ci sia una terra misteriosa in cui può accedere di tutto, cosa implicitamente confermata nel romanzo). L’altra parte del romanzo ha degli spunti interessanti (e c’entra con i due libri di sopra) ma è troppo compressa e accelerata per sfruttarli appieno; se Morozzi fosse riuscito a bilanciare perfettamente le due parti, avrebbe tirato fuori il suo capolavoro. Così, invece, è “solo” un libro molto divertente con un finale parecchio what the fuck?

More about La vita sessuale di Alessandro BariccoA proposito di storielline divertenti, “La vita sessuale di Alessandro Baricco” di Gianluca Colloca (Coniglio Editore) è un racconto breve in cui un gruppo di giovani italiani in vacanza all’estero si spaccia a turno per un famoso scrittore italiano per impressionare delle turiste.
Il libro è una piacevole cazzatella pieno di quelle battute e situazioni che fanno tanto ridere noi maschi eterosessuali medi ma non è oggettivamente niente di che; una lettura piacevole per una mezz’oretta di treno, con un finale abbastanza scontato.

More about For the WinFinita la parentesi, torniamo a bomba sulla fantascienza, con il secondo romanzo per young adults di Cory Doctorow, vale a dire “For the win” (Tor; disponible per il download in inglese qua).
Secondo me, che di Cory Doctorow in italiano si trovi pochissimo (X, vale a dire Little Brother, il suo primo romanzo per young adults è da poco disponibile presso le librerie remainder) è un evidentissimo segno della povertà e della miopia del panorama editoriale italiano, perché Doctorow è un autore che si adopera in quella che si potrebbe definire con l’espressione desueta “narrativa d’anticipazione” o con la più precisa locuzione inglese “social science fiction”. In romanzi come Little Brother, Makers o appunto For the win Doctorow racconta di un mondo “venti minuti nel futuro” per spiegare come le tecnologie stanno cambiando o cambieranno il nostro mondo sociale ed economico.
FTW è un romanzo, come detto, per “ragazzi” ma ha il pregio di trattare i suoi lettori non come dei cretini e come tale può essere trovato godibile un po’ da chiunque, credo (o almeno da me); Doctorow in questo ricorda molto R. A. Heinlein, per esempio, che scrisse Starship Troopers come un juvenile, l’equivalente di allora della categoria young adults, nonostante sia un romanzo tremendamente politico appena appena mascherato da storia d’avventura. FTW parla, principalmente, dell’economia dei mondi virtuali dei giochi di ruolo online come World of Warcraft (e tutta una serie di altri inventati per il romanzo da Doctorow, tra cui uno ambientato nella Wonderland di Carroll) per parlare dell’economia del mondo reale, dei diritti dei lavoratori, della situazione nelle fabbriche cinesi e via discorrendo. Ogni tanto l’azione si interrompe e partono delle efficaci lezioni di economia, condite da gustose metafore, per quella quella in cui si paragona l’economia a un treno in corsa (traduzione mia):

So in practice, this big engine that determines how much food is grown, whether you’ll have to sell your kidneys to feed your family, whether the factory down the road will make Zeppelins, whether the restaurant on the corner can afford the coffee beans, all this important stuff has no one in charge of it. It is a runaway train, the driver dead at the switch, the passengers clinging on for dear life as their possessions go flying off the freight-cars and out the windows, and each curve in the tracks threatens to take it off the rails altogether. There is a small number of people in the back of the train who fiercely argue about when it will go off the rails, and whether the driver is really dead, and whether the train can be slowed down by everyone just calming down and acting as though everything was all right. These people are the economists, and some of the first-class passengers pay them very well for their predictions about whether the train is doing all right and which side of the car they should lean into to prevent their hats from falling off on the next corner. Everyone else ignores them.

Quindi, in pratica, questo enorme motore che determina quanto cibo viene coltivato, se dovrai vendere o no un rene per sfamare la tua famiglia, se la fabbrica in fondo alla strada costruirà Zeppelin o altro, se il ristorante sull’angolo si può permettere i chicchi di caffè e tutto queste genere di cose importanti non ha nessuno che lo controlli. È un treno in fuga il cui macchinista è morto ai comandi, con i passeggeri che cercano di aggrapparsi come disperati mentre ciò che possiedono vola fuori dai carri merci e dai finestrini, un treno che a ogni curva rischia di uscire dai binari. C’è un piccolo gruppo di persone in corsa al treno che discute animatamente su quando il treno deraglierà o se il macchinista è morto per davvero e se non fosse possibile fare rallentare il convoglio dandosi tutti una calmata e facendo finta che sia tutto a posto. Queste persone sono gli economisti e alcuni dei passeggeri in prima classe li pagano fior di quattrini per sapere se secondo le loro previsioni il treno sta andando bene e verso quale lato della carrozza dovrebbero piegarsi per evitare di perdere il cappello alla prossima curva. Tutti gli altri gli ignorano.

Doctorow spiega i meccanismi dell’economia mentre un gruppo di ragazzini e ragazzine, americani, cinesi, indiani, lotta per i diritti dei lavoratori digitali (e non).
È un romanzo che forse i quattro anni dalla stesura hanno reso ancora più attuale – leggevo le pagine sul funzionamento dell’economia mentre saliva la febbre da spread e si parlava di default – ed è il genere di cose che avrei voluto avere a disposizione quindici anni fa. Spero che qualcuno prima o poi lo traduca in italiano, ma ci credo poco.

More about Steve JobsDicevamo di numero speciale quasi completamente dedicato alla fantascienza; per certi versi rientra in questa categoria anche “Steve Jobs” di Walter Isaacson (Mondadori), biografia del co-fondatore della Apple morto a ottobre del 2011. Ci rientra perché in fondo Jobs è stato uno dei principali attori del cambiamento culturale per cui i computer sono passati negli anni settanta da cose gigantesche per utilizzi scientifici e industriali a oggetti di uso più o quotidiano per sempre più persone, non solo al lavoro ma anche in casa. È vero che Jobs non ha “inventato” nulla nel senso più stretto del termine, ma le sue intuizioni, la sua “visione”, sono state determinanti nel portare a un pubblico più ampio le scoperte di altri.
La biografia di Isaacson è una biografia autorizzata, un genere che di solito si presta particolarmente all’agiografia. È piuttosto sorprendente, quindi, scoprire che Jobs non ha fatto nulla o quasi per tenere fuori dalle pagine del libro gli aspetti più spigolosi e meno accomodanti del suo carattere, dalle astruse convinzioni sull’igiene personale (da giovane era convinto che mangiando solo frutta non avesse bisogno di lavarsi) al ruvido trattamento riservato alle persone con cui ha lavorato, passando per il rifiuto di riconoscere la prima figlia, Lisa. Restano però fuori controversie ben più serie degli ultimi anni legate ai suicidi negli stabilimenti cinesi della Foxconn, dove si assemblano diverse linee di prodotti Apple.
Isaacson è un biografo navigato e sa muoversi bene tra le decine e decine di interviste realizzate con le persone che hanno lavorato con Jobs, facendo scorrere una mole impressionante di avvenimenti senza particolari intoppi o momenti di stanca. Certo, il racconto della prima parte dell’avventura della Apple, che è anche il racconto della nascita dell’industria dell’home computer, è sicuramente molto più interessante di buona parte delle cose che succedono più avanti (non fosse altro perché gli eventi più recenti li abbiamo più o meno seguiti tutti “in diretta”).

Il tratto che emerge più spesso nel libro parlando di Jobs è la sua straordinaria capacità di persuasione delle persone, riconosciuta da più o meno chiunque abbia avuto a che fare con lui e definita quasi “magica”. Però allo stesso tempo quasi nessuno dà di lui un ricordo limpido, come se in un modo o nell’altro fosse riuscito nel corso della sua vita a infastidire in un modo o nell’altro, volente o nolente, più o meno tutte le persone con cui è entrato in contatto.
L’impressione finale è che la Apple senza di lui farà una fine abbastanza orribile, perché non sembra il genere di persona capace di lasciare eredi: il bizzarro mix di carisma, idee audaci e idiosincrasie che ha dato vita ai prodotti con cui la Apple si è risollevata dopo il suo ritorno a Cupertino è probabilmente destinato a morire con lui. Andranno avanti con i progetti a cui ha lavorato prima di morire ancora per qualche anno e poi, salvo sorprese, inizierà un nuovo declino. Un po’ tipo i Queen senza Freddie Mercury (tutto sommato due personaggi simili: origini esotiche – il padre biologico di Jobs era siriano –, stile di vita sregolato, idee folli sulla carta che si rivelano grazie al loro carisma vincenti, la malattia sotto i riflettori inseguiti dalla stampa scandalistica, al lavoro quasi fino all’ultimo respiro…).

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Autodifesa – settembre 2011

Settembre è stato un mese in cui, non so bene perché, forse perché mi sono capitati tra le mani libri parecchio svelti, ho letto parecchio. Per questo ci ho messo un po’ a finire il post. Ma ce l’ho fatta.

More about The StandIntanto, ho finito The Stand, di Stephen King, il romanzo in Italia noto come “L’ombra dello scorpione”. Un titolo enigmatico, quello italiano, che chissà da dove è saltato fuori (il titolo inglese significa più o meno “La resistenza”; in spagnolo e portoghese si chiama “La danza della morte”, in francese “L’epidemia” e in tedesco “The stand”) e che batte persino “Una splendida festa di morte” (titolo italiano della prima edizione di “The Shining”) come traduzione più casuale di un titolo kinghiano, visto che se non altro in Shining si fa cenno alle feste dell’Overlook e di morte ce n’è quanta se ne vuole. Di scorpioni e di ombre, invece, qui non ne ricordo.
Comunque, la storia la sanno pure i sassi, oggi: i militari sviluppano un super-virus, per un errore il virus sfugge di mano e stermina praticamente tutta la popolazione mondiale. In America, si fronteggiano due gruppi di sopravvissuti: i Buoni e i Kattivi. Benché il romanzo sia famoso per la presenza di Randall Flagg, il cattivo kinghiano per antonomasia, la parte davvero imperdibile è quella iniziale, in cui King avvolge le storie dei suoi personaggi attorno al diffondersi dell’epidemia e in cui descrive il progressivo sfascio della civiltà e della società così come le conosciamo. È un King pienamente a suo agio nel fare quello che sa fare meglio: raccontare le vite di gente normale, costruire personaggi un pezzettino alla volta, creare scene apparentemente normali in cui si inseriscono piccoli elementi disturbanti. Una menzione particolare per l’heinleiniano professor Bateman. Anche il capitolo in cui entra in scena Flagg è un capolavoro di scrittura e narrazione.
Poi, però, si formano queste due benedette comunità, i Buoni e i Kattivi, e la noia inizia a scorrere sovrana. Tra l’altro il finale è (letteralmente) un terrificante deus ex machina, e non ci capisce nemmeno bene che utilità abbia la spedizione della delegazione dei buoni a Las Vegas, visto che è del tutto ininfluente su quanto succede (nonostante sia stata “ordinata” dall’alto). E purtroppo Flagg, alla fine dei conti, è un super-cattivo allo stesso livello di inettitudine di Voldemort.
Boh, davvero boh. Se fosse tutto bello come la prima parte, sarebbe un capolavoro assurdo. Lo scontro tra il Bene e il Male (nei termini in cui è raccontato, poi!) lo rende invece un mattonazzo pazzesco nella seconda metà. Tra l’altro, la versione attuale è un’espansione pubblicata alla fine degli anni 80 dell’originale pubblicato dieci anni prima (che a quanto ho capito si dilungava meno sull’espansione dell’epidemia – che è appunto la parte migliore) e la vicenda che prima si svolgeva all’inizio degli anni 80 adesso si svolge all’inizio degli anni 90. Purtroppo il lavoro di aggiornamento dei riferimenti culturali e temporali non è stato particolarmente curato e i personaggi escono da degli anni 80 che assomigliano terribilmente agli anni 70.
Mentre leggevo mi domandavo come suonasse “Baby can you dig your man?”, il successo di Larry Underwood. Ho scoperto che è stata registrata da Al Kooper per una miniserie tv tratta dal libro:

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I libri di Dicembre

Ultimo appuntamento dell’anno con la rubrica dei libri (in anticipo, ma tanto dubito che riuscirò a finire Harry Potter and the Goblet of Fire entro domani, visto che l’ho iniziato ieri). Evidenziato, quello più consigliato.
La rubrica si vedrà anche nel 2011. Intanto vedo di mettere insieme tutte le uscite di questi cinque anni in un unico file.
Buone letture (e buon anno).

Harry Potter and the Prisoner of Azkaban – J.K. Rowling (Bloomsbury)
Secondo me i libri di Harry Potter sono fatti per essere letti quando fa freddo. Comunque. Come sanno anche i sassi, credo, questo è il terzo della serie e segue sostanzialmente lo schema dei primi due, introducendo però uno sguardo un po’ più ampio sugli eventi che portarono alla morte dei genitori di Harry e, soprattutto, un tono leggermente più cupo (i guardiani della prigione di Azkaban sono degli spettri che risucchiano tutte le emozioni positive delle persone lasciandole in preda alla più nera disperazione e incapaci di agire). La costruzione della trama è lenta come una nevicata a novembre, ma quando la Rowling inizia a tirare le fila della storia, beh, c’è solo da dire wow. Mi spiace solo che qui Snape (Piton) faccia un po’ la figura dell’idiota, perché è decisamente il personaggio più interessante di tutti (e l’unico a trattare con un po’ di polso l’altrimenti intoccabile Harry, a cui tutto è concesso). Qui si inizia a capire perché la serie di HP sia piaciuta così tanto.

Alice nel paese della Vaporità – Francesco Dimitri (Salani)
Dopo Pan, che è un robustissimo romanzo urban fantasy, mi aspettavo grandi cose da questa Alice. Invece, purtroppo, questo romanzo costruito come l’avventura di un gioco di ruolo (con una cornice metanarrativa che non ne risolleva le sorti) si è rivelato una lettura molto meno entusiasmante. Si capisce che Dimitri avrebbe un sacco di cose da raccontare sulla Steamland, la distesa allucinata che circonda una Londra retro-futuribile che ricorda un po’ il mondo della Torre Nera kinghiana, ma purtroppo quelle che ha scelto di mettere per iscritto non sono le più interessanti e la struttura della quest ogni tanto mi ha fatto inconsciamente venire voglia di dare un’occhiata alla scheda del mio personaggio. L’ambientazione è intrigante, ma non è supportata da una storia all’altezza: si legge piacevolmente, ma non mi ha soddisfatto del tutto.

The Innswich Horror – Edward Lee Jr. (Deadite Press)
Senza H.P. Lovecraft, chissà cosa sarebbe oggi l’immaginario orrorifico e sovrannaturale. Questo romanzo breve di un autore di cui non so nulla, ma che è uno di quei paperback writer capaci di sfornare decine di romanzi per il mercato dei tascabili mettendo una parola dietro all’altra con grande senso del dovere e amore per lo splatter, riprende uno dei topoi più tipici della narrativa post-lovecraftiana, vale a dire l’idea che Lovecraft abbia raccontato nelle sue storie fatti reali per avvisare l’umanità dei pericoli che corre. Così, qui abbiamo un gentiluomo di Providence, lettore di Lovecraft, che negli anni Trenta si reca in vacanza a Innswich, località del Rhode Island nella quale lo stesso Lovecfrat si era recato (nella finzione di Lee) e a cui si era ispirato per scrivere uno dei suoi capolavori, La maschera di Innsmouth (che se non hai mai letto puoi anche trovare in inglese o in una qualunque antologia di Lovecraft). Ovviamente, ci vuole poco perché il viaggiatore si renda conto che Lovecraft non si è ispirato solo all’aspetto esteriore della cittadina per la sua storia. La storia ricalca quella originale di Lovecraft, aggiunge solo uno sguardo più smaliziato, un po’ di orrore esplicito e di sesso e un colpo di scena che fa più che sorridere. Non è niente di che (ed è stampato malissimo), ma è un romanzo onesto di un onesto professionista che non ha altre pretese che non rendere omaggio a uno dei titani dell’immaginario fantastico del Novecento.

Song of Kali – Dan Simmons (Gollancz)
Questo è uno di quei casi in cui le aspettative ti rovinano la lettura di un romanzo: ne avevo sentito parlare in alcune discussioni (qui, per esempio) in termini decisamente lusinghieri e mi aspettavo grandi cose. Ora che l’ho finalmente letto, sono abbastanza perplesso perché a ben vedere non è che abbia trovato che questo libro si distacchi così tanto dagli standard del genere, né per lo svolgimento né per la qualità della rappresentazione del Male o per le descrizioni di Calcutta. La storia è quella di un redattore di una rivista di poesia che viene mandato in India a cercare di scoprire se è vero che un poeta indiano creduto morto ha invece ricominciato a scrivere. Si porta dietro la moglie (indiana) e la figlioletta di pochi mesi (che ha la data di scadenza in fronte; non è uno spoiler, è evidente dalla prima pagina) e viene invischiato in una storia torbida di presunte resurrezioni, adoratori di Kali, ladri di cadaveri, ecc. Alla fine scoprirà che il Male vive tra noi, che viviamo in un’era dominata dalla furia distruttrice della Dea e c’è ben poco che possiamo fare prima di andare a gambe all’aria tutti quanti. Forse mi aspettavo troppo, però mi è rimasto ben poco dalla lettura di questo libro (ma nonostante questo, qualcos’altro di Simmons voglio leggerlo, perché comunque qua e là dei lati interessanti li ho trovati).

Little Brother – Cory Doctorow (Kindle)
Più che un romanzo per young adults, lo definirei un juvenile, come quelli di R.A. Heinlein, con cui ha in comune il desiderio di essere non solo una storia appassionante ma anche una sorta di manuale di comportamento, con al centro i temi di cui Doctorow scrive di solito, vale a dire l’utilizzo consapevole della tecnologia, il software libero, l’ossessione per la sicurezza post-9/11. La storia è quella di un ragazzino di San Francisco che dopo un attentato al Bay Bridge organizza una resistenza al controllo militaresco operato in città dal DHS, il Department of Homeland Security. E benché non sia difficile appassionarsi alle sue vicende, è chiaro che il cuore del libro siano le informazioni che Doctorow dà ai suoi giovani lettori sull’attenzione che dovrebbero prestare al modo in cui usano i computer e sulle contromisure che si possono adottare. La risoluzione della storia è abbastanza deludente (il giornalista investigativo buono come deus ex machina), ma prima di arrivarci ci si diverte parecchio. Come dice Neil Gaiman, è un libro da far leggere a qualunque ragazzino e ragazzina un minimo svegli che si conoscano. Ovviamente, l’edizione cartacea italiana è fuori commercio. Si trova un ebook che grazie al cielo è privo di DRM (sarebbe stato paradossale, vista la storia). Se avete un e-reader e leggete in inglese, la versione originale in Creative Commons è liberamente scaricabile dal sito dell’autore (come tutti i suoi libri).

Il porto degli spiriti – John A. Lindqvist (Marsilio)
Dalle grinfie di Lovecraft non si scappa, se si racconta di una comunità che vive in riva al mare (in questo caso un’isola svedese) in cui ogni tanto scompare misteriosamente della gente. Lindqvist si porta dietro l’etichetta di “Stephen King norvegese”, che non è del tutto campata per aria, a giudicare dallo svolgimento di questo romanzo, che abbraccia le vite di due generazioni di personaggi (tratteggiati con grande abilità) i loro amori, i loro drammi, i loro segreti e il loro rapporto con gli eventi sovrannaturali. C’è qualche eco di A volte ritornano nei due demoniaci fan degli Smiths (l’ho sempre detto io di non fidarsi di Morrisey e soci…), ma comunque il modo che ha Lindqvist di costruire la sua storia e il suo sovrannaturale è decisamente personale. E anche quando sconfina nel fantasy più esplicito (lo Spiritus), riesce a farlo senza stonare con il resto del mondo che ha creato e senza concedere nulla o quasi allo spiegone. In effetti la qualità più interessante del libro è proprio l’atmosfera di non detto e l’imperscrutabilità del potere del mare (che richiama anche il buon Hodgson), che danno l’impressione di trovarsi davanti a uno scrittore che non solo ha alle spalle un’ottima conoscenza dei meccanismi del genere ma anche una capacità di costruire storie, ambienti e personaggi superiore alla media.

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The day the music died. Twice.

L’8 dicembre, oltre a essere una festa religiosa su cui la gente di solito ha le idee poco chiare (è il giorno in cui viene concepita Maria che è, i soliti raccomandati, immune dal peccato originale, non quello in cui l’angelo mette incinta Maria) è la Giornata Nazionale di Sparare ai Musicisti.
Tutti sanno di John Lennon, ma pochi sanno che il vero assassino non è Mark Chapman bensì Stephen King. Quest’anno sono 30 anni tondi tondi e il livello di moleste celebrazioni zuccherose del Cristo Ateo sarà ancora più elevato del solito.
A me questo tipo di glorificazione fa un po’ ridere, perché Lennon era un personaggino abbastanza lontano dal santino che ne è stato fatto nel corso degli anni. Sia nei turbolenti anni di Liverpool prima e Amburgo poi (dove i Beatles vissero da Rolling Stones tra amfetamine, prostitute, malavitosi e spacciatori), sia in quelli successivi.
Una delle infamie più memorabili perpetrate ai danni di Paul McCartney all’epoca in cui i Beatles stavano andando in frantumi è la registrazione di The Long and Winding Road, canzone che Macca aveva pensato perché diventasse uno standard per i Grandi Cantanti. E che, incidentalmente, Phil Spector o non Phil Spector, è una lagna mortale. All’epoca i quattro volevano tornare alle registrazioni in presa diretta, così Ringo suona la batteria, George la chitarra, Paul il piano e John Lennon il basso.
Il risultato è questa traccia, in cui il basso fa un po’ di tutto fuorché le note giuste (ed è facile immaginare John che sogghigna mentre sbaglia).

Ian McDonald, autore del monumentale e fondamentale “Revolution in the head”, in cui analizza tutte le registrazioni dei Beatles, definisce quello di Lennon un vero e proprio sabotaggio per rendere inutilizzabile quello che doveva essere un demo e che poi ha finito per diventare la traccia vera e propria. A me fa impazzire la “scivolata” a 1:03, che non c’entra nulla.  Comunque, le foto del Getty sono bellissime (occhio che parte Imagine a tradimento).
C’è anche un curioso aneddoto sul giovane John raccontato da Lemmy nella sua autobiografia. In pratica, i giovani Beatles sono al Cavern a suonare, tra un pezzo e l’altro un tizio urla “Lennon sei un frocio”. Lennon mette giù la chitarra, scende e chiede chi è stato. Si fa avanti uno e dice “Sono stato io, e allora?” BAM! BAM! Due craniate sul naso, il “Liverpool kiss”. E poi di nuovo sul palco. “Qualcuno ha qualcos’altro da dire? No? Ok. Il prossimo pezzo è Money”. Living life in peace, yu-hu, uhuhuh.

Ma l’8 dicembre 2004 a Columbus, Ohio, è morto, ucciso a colpi di pistola sul palco, Dimebag Darrell, chitarrista dei Pantera.
Spiegare il ruolo dei Pantera nell’evoluzione del metal alla fine degli anni ottanta in poche parole non è semplicissimo. Ascoltare Vulgar Display of Power è molto più semplice e divertente. Qui magari basta dire che per qualche anno prima che il mondo del metal piombasse nella più bieca restaurazione ottantiana, i Pantera sono stati la bandiera di uno svecchiamento del genere, di un metal che non sembrava la caricatura di qualcosa. Poi sono arrivati gli Hammerfall.
A ogni modo, Dimebag come chitarrista aveva tutto: un immenso senso del ritmo, velocità e ignoranza e un suono enorme (dato, almeno fino al 2004, solo da amplificatori a transistor; cosa molto inusuale visto che di solito i chitarristi prediligono quelli a valvole). E poi è stato seppellito in una bara dei Kiss.
Uno dei progetti a cui aveva lavorato prima di morire era il disco di Southern Metal Rebel meets Rebel, insieme al cantante country David Allan Coe e al batterista e al bassista dei Pantera.
Che è un bel disco cialtrone e rumoroso e divertente. E che spiega che i cowboy si bombano più droga che i musicisti rock.

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I libri di Gennaio

Anno nuovo, stessa rubrica. Evidenziato il titolo più interessante

La scatola a forma di cuore – Joe Hill (Sperling & Kupfer)
Joe Hill è uno dei figli di Stephen King. Se è vero che per chi si vuole dedicare a un’attività è utile avere qualcuno di bravo a cui chiedere consiglio, Joe è stato fortunato perché gli bastava salire le scale o aspettare l’ora di cena.
Il romanzo è una ghost-story che ha per protagonista un attempato musicista rock (un po’ Alice Cooper) con la passione per il macabro che compra un abito infestato da un fantasma. Hill dosa abbastanza bene la tensione, trascinando i suoi protagonisti nell’incubo a poco a poco, e piazza nella storia un cattivo che fa paura. Forse non è ancora abbastanza bravo a tenere la tensione per tutta la durata del romanzo e a un certo punto c’è un po’ di stanchezza. Però come esordio sulla lunga distanza è considerevole. Da tenere d’occhio anche la sua serie a fumetti “Locke & Key“, il cui primo volume è stato pubblicato da Magic Press.

Veracruz – Valerio Evangelisti (Mondadori)
Nel mondo dei suoi pirati dei Caraibi Evangelisti sguazza contento come un delfino, libero di dare sfogo alla descrizione di personaggi amorali e privi di qualunque remora, corrosi da un incessante desiderio di distruzione. Prequel di “Tortuga”, del quale rivela alcuni antefatti, ne supera uno dei difetti principali che era quello di “un’informazione che non sapevi sul mondo dei pirati a ogni capitolo”. Qui Evangelisti non vuole dimostrare di avere fatto i compiti e va dritto a raccontare una storia d’avventura che fila come un treno, senza che il sottotesto “politico” (i pirati come precursori estremi del liberismo più sfrenato che punta all’accumulo di ricchezze fine a se stesso, senza rispetto per le vite umane) risulti troppo invadente. Divertimento feroce.

La visione del cieco – Girolamo De Michele (Einaudi)
Il terzo romanzo di De Michele è il meno riuscito. Non ha l’asciutta tristezza di “Tre uomini paradossali”, né la vastità dell’affresco di “Scirocco”, ma si risolve nella descrizione, troppo estremizzata e incattivita per non sembrare una goffa caricatura, di un paesino di provincia nel quale “i notabili” sono l’epitome di tutti i mali e di tutti i vizi possibili, ambientandoci un delitto ispirato a quello di Cogne. Il tutto resta diviso tra buoni e cattivi in modo troppo netto e raccontato in modo non irresistibile. Il tratto più interessante è quello stilistico, con l’abolizione del verbo “essere” (ma ho trovato un paio di “siamo” – nella versione pdf gratuita che sembra però essere una bozza non definitiva, visto che banalmente mancano i titolati correnti in cima alle pagine), ma in realtà non è che produca poi particolari effetti stranianti. Niente, un libro brutto. Capita. (nota pignola: sarei curioso di sapere in quale manifestazione del G8 genovese uno dei personaggi si sia trovato in dei vicoli, visto che erano tutti in piena zona rossa).

Capitano Alatriste – Arturo Pérez-Reverte (Il Saggiatore)
Bell’esercizio di stile, quello di scrivere un romanzo di cappa e spada come se fosse coevo di quelli di Dumas. E il Capitano è un personaggio affascinante che Pérez-Reverte riesce a dotare di una sua tridimensionalità, con il suo carattere malinconico. Piacevole.

Quando ero un Beatles – Giampiero Orselli (Theoria)
La storia di Pete Best, primo batterista dei Beatles, scaricato impietosamente poco prima di registrare il primo disco è la storia degli anni perduti dei Fab Four, quelli di cui Brian Epstein ha fatto svanire quasi ogni traccia fisica (centinaia di foto acquistate e distrutte), prima che i quattro facessero il resto imponendosi con un’immagine da bravi ragazzi. È la storia di concerti a turni massacranti nei locali di Amburgo, tra malavitosi, puttane, droghe, risse. Ed è anche per un pezzo la storia dell’altro Beatle perduto, Stu Sutcliffe.
Purtroppo il libro è poco più che un riassunto dell’autobiografia di Best, più volte citata. E va bene come primo assaggio sull’argomento ma lascia insoddisfatto chi voleva saperne un po’ di più su quello che è rimasto fuori dall’Anthology.
Bizzarre scelte nella resa dei nomi tedeschi: lo storico quartiere di St. Pauli diventa “San Paolo”, il fiume Elba resta “Elbe”.

La voce della nostra ombra – Jonathan Carroll (Fazi)
È un po’ deludente, questo romanzo di Carroll dei primi anni Ottanta. Perché se c’è già tutta la sua bravura nel descrivere personaggi realistici e le loro relazioni, non è ancora integrato bene l’aspetto sovrannaturale. Si resta così in attesa di un’esplosione che non arriva mai, neanche nel frettoloso finale.

Revolution in the head – Ian McDonald (Vintage Books)
La storia dei Beatles è una delle grandi storie del XX secolo. Non ci sarà mai più un fenomeno paragonabile ai quattro di Liverpool, per quello che possiamo osservare da qui, non per motivi musicali ma perché è irripetibile quell’intreccio di fattori che ha portato i Beatles a incarnare l’essenza stessa degli anni in cui hanno operato. Questa è, in estrema sintesi, la tesi che Ian McDonald espone nell’introduzione e nella postfazione di questa opera, che è una delle più complete ed esaurienti mai compilate sulle canzoni dei Fab Four. McDonald ha infatti schedato una per una tutte le canzoni incise dai Beatles, analizzando per ognuna le fonti di ispirazione, eventuali fatti musicali degni di nota, l’impatto e la fortuna commerciale, i musicisti presenti nelle sessioni e i loro ruoli, tutto quanto, non risparmiando bordate critiche quando sono necessarie. McDonald infatti è splendidamente idiosincratico e non si appiattisce mai sulla posizione “tutto quello che hanno fatto i Beatles è bellissimo, sempre”. Trova velleitaria buona parte della produzione di Harrison (il che rende per contrasto ancora più importanti gli elogi a “Something”), critica apertamente la faciloneria del confuso periodo post-Pepper, storce il naso davanti ai momenti più “rock” degli ultimi anni, nei quali secondo lui i quattro sacrificano e semplificano il loro talento (“While my guitar gently weeps” diventa addirittura una premonizione dello stadium rock), non risparmia frecciate alla musica dei decenni successivi agli anni Sessanta. Insomma, non un noioso e pedante fan ma un signore con delle idee ben precise e una penna vivace con cui esporle. Da qualunque lato si osservi, biografia dei Beatles, analisi di costume, prontuario di consigli spicci di produzione musicale, questo libro è un monumento che non dovrebbe mancare a chi si interessa di cultura pop. A completare il tutto, c’è poi una dettagliata cronologia comparata che dà conto degli eventi nella carriera dei Beatles, nel mondo e nella cultura di quegli anni.
In Italia è pubblicato da Mondadori, ma l’edizione tradotta è la prima; l’ultima edizione originale dà invece conto anche dei brani contenuti nei tre volumi dell’Anthology (e McDonald non si è particolarmente commosso davanti alla collaborazione postuma dei tre superstiti con John Lennon, per la cronaca).

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The catcher is on the table

La mia professoressa di inglese del triennio del liceo io non la sopportavo.
Era una di quelle persone nate negli anni cinquanta che avevano iniziato a vestirsi e pettinarsi in un dato modo (la frangetta, la gonna scozzese al ginocchio, la camicetta) attorno al 1965 e che da allora non hanno mai cambiato stile. Così tu te la immaginavi che tornava a casa e continuava a sospirare su una foto di Paul McCartney* ascoltando And I love her. Più in generale, era una persona scioccamente vendicativa nei confronti degli studenti e con una netta preferenza per la stolida ripetizione a pappagallo rispetto al ragionamento, quando si parlava di letteratura inglese. Quando le nacque il secondo figlio*** fui l’unico a non mettere una lira per non so quale regalino e a non firmarle il biglietto. Perse ogni mia stima quella volta che citai l’esistenza leggendaria di Ned Ludd in un compito in classe sulla rivoluzione industriale e lei mi chiese perché mi fossi inventato quell’origine del termine Luddismo.
Più in generale, detestavo la sua fissazione per la letteratura vittoriana, e la capacità di rendere noioso e inoffensivo praticamente qualsiasi testo che ci toccasse leggere.
C’era una cosa sola nel libro di testo che era riuscita a resistere intatta alla mortificazione scolastica. Ed era un brano del Giovane Holden.
Mi ci ero imbattuto per caso sfogliando il libro durante un’interrogazione, dopo che mi ero stufato di fare la controscena a una compagna di classe interrogata, tenendo il segno e annuendo mentre lei ripeteva quasi parola per parola non so che scheda su non so quale romanzo di Jane Austen. Ero lì che sfogliavo e di colpo, bam!, inizio a leggere questa cosa che, ehi, stava parlando a me. Stava parlando a me come da quarant’anni era lì che parlava a tutti gli adolescenti annoiati, arrabbiati e insofferenti di quella parte di mondo in cui puoi permetterti di essere un adolescente. Devo avere controllato un paio di volte che fosse lì sul serio, che non me lo fossi immaginato. Sembrava qualcosa capitato lì in mezzo per un errore, per un sabotaggio:

If you really want to hear about it, the first thing you’ll probably want to know is where I was born, and what my lousy childhood was like, and how my parents were occupied and all before they had me, and all that David Copperfield kind of crap, but I don’t feel like going into it, if you want know the truth.

Oh, certo, avevo già letto il Jack Frusciante di Brizzi, che al vecchio Holden fa più che un paio di riferimenti. Però trovarsi davanti the real thing, in un libro scolastico, era tutta un’altra cosa.
Il giovane Holden è stato l’unico libro che abbia mai preso dalla biblioteca della scuola, qualche giorno dopo. Mi sembrava giusto. L’edizione Einaudi costava troppo per le mie tasche, natale o compleanno erano troppo lontani.
Mentirei se dicessi che la lettura di Salinger mi ha cambiato la vita. Ricordo di avere letto il libro molto di fretta, in mezzo a mille altri scazzi dell’età, forse con l’ansia di riconsegnarlo in tempo.
Però quando oggi ho letto che Salinger è morto (“Uh, era ancora vivo?”) mi è tornata in mente quell’eccitante scoperta fatta tra le pagine di un libro scolastico, quel giorno in cui la scrittura ha operato la sua magia, il suo essere – come dice Stephen King – trasmissione a distanza del pensiero.

* chiaramente parteggiava per il perfido Macca, perché quando ci fece vedere in lingua originale Forrest Gump – che senza Tonino Accolla di mezzo è un film molto più bello – fui l’unico tra tutti, lei inclusa, a ridere quando Forrest ispira a John Lennon** il testo di Imagine.
** poiché tutto è collegato, Mark Chapman aveva con sé una copia di The Catcher in the Rye quando ha sparato a John Lennon.

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I libri dell’estate – parte seconda

Seconda parte del riepilogo. Evidenziati con il rientro, i Gran Fighi.

Hellgate – Alan D. Altieri (TEA)
Seconda raccolta di racconti di Altieri, questa volta dedicata ad Andrea Calarno, poliziotto apparso per la prima volta in “L’uomo esterno”. Raccogli diversi racconti “d’occasione” (tra cui uno che ha come protagonista Duca Lamberti, personaggio-icona di Scerbanenco) e spesso il tono sarcastico e sopra le righe va un po’ troppo sopra le righe – come nel romanzo breve che chiude il volume.

La regina dei castelli di carta – Stieg Larsson (Marsilio)
Conclusione della trilogia di Larsson, di fatto è la seconda parte del secondo libro. Il problema più grosso è che, a un certo punto, c’è troppa roba. Troppe coincidenze, troppe sottotrame. E, per un lettore italiano, un’inspiegabile fiducia nella legge e nell’ordine costituito. Oltre a un manicheismo che stona con il realismo delle parti dedicate ai rapporti tra politica, economia e giornalismo. Però lo stesso si va avanti una pagina dopo l’altra, intrappolati dalla macchina macina-trama di Larsson.

Guida alle case più stregate del mondo – Francesco Dimitri (Castelvecchi)
Nei primissimi anni novanta, il secondo Almanacco di Dylan Dog ospitava un lungo speciale dedicato ai fantasmi e al ghost-hunting. Questo libro ne è un po’ l’erede spirituale: non solo recensisce una gran quantità di dimore e luoghi infestati in giro per il mondo, ma fornisce anche all’aspirante cacciatore di fantasmi una certa quantità di nozioni su come affrontare il suo nuovo hobby. La parte più interessante, però, è quella teorica, in cui Dimitri spiega come la realtà che percepiamo sia, a grandi linee, costruita da noi stessi e da ciò in cui crediamo (o vogliamo credere).

Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi – Tom Robbins (Baldini & Castoldi – Dalai)
È la prima volta che leggo qualcosa di Robbins. E ne sono stato completamente rapito. Personaggi sopra le righe ma allo stesso tempo credibili, ambientazioni esotiche e sospese tra sogni e realtà, veloci cenni sulla storia delle religioni, dialoghi spumeggianti. Da leggere.

La Torre Nera – Stephen King (Sperling&Kupfer)
E così un lungo viaggio arriva alla fine. Il giudizio è per tutta la serie, non per il libro in sé che ha dei momenti anche un po’ imbarazzanti (lo scontro con il Re). Ma King ha davvero costruito un incredibile monumento (anche a se stesso e al suo lavoro), un atto di amore verso la scrittura e le storie da levare il fiato.

Monster nation – David Wellington (Mondadori)
Il primo della serie iniziava lento e si impennava solo verso i tre quarti della storia. Questo inizia lento e resta uguale fino alla fine. È difficile sbagliare con gli zombi, ma qui Wellington ce l’ha fatta.

Acque oscure – Valerio Evangelisti (Mondadori)
Antologia un po’ (molto) altalenante, dove per fare volume è stato infilato di tutto, compresi due raccontini d’occasione come quelli su Palahniuk e Dan Brown. Il piatto forte è il racconto finale, che però miscela “Il nodo Kappa” e “Sepultura”, racconti già editi. Divertente il racconto, molto fantascienza vecchio stile, “Stanlio e Ollio terror detectives”.

Let it be – Paolo Grugni (Mondadori)
“Noir” all’italiana, che mescola semiotica e canzoni dei Beatles. Sulla carta, un capolavoro. Ma Grugni appesantisce il tutto abusando di quella che gli anglosassoni chiamano “purple prose”, vale a dire infiocchetta tutto con uno stile che cerca di mescolare la durezza del noir con un lirismo assolutamente fuori luogo. Si arriva alla fine con una certa stanchezza.

Animere nere reloaded – AA. VV. (Mondadori)
Seconda puntata dell’antologia di racconti crudeli curata da Altieri. L’accumulo di sesso, violenza, sesso, violenza, sesso, violenza produce rapidamente una certa noia. Qualcosa di interessante c’è, ma va cercato bene. O forse sono racconti che andrebbero letti uno ogni tanto e non tutti di seguito.

Settanta – Simone Sarasso (Marsilio)
Rispetto a “Confine di Stato”, il balzo in avanti di Sarasso è notevole. Se il primo romanzo era tutto scritto come fosse un film d’azione tradotto, qui c’è un’attenzione alla resa delle diverse parlate dei personaggi (a seconda della loro provenienza) del tutto inedita – e che non sfocia mai nella macchietta. Sterling fa un passo indietro, non è più il motore principale delle vicende, e tutta la storia ne guadagna in credibilità e incisività. Anche il pastiche di stili e prestiti altrui (in CdS c’era un pezzo di “54” di Wu Ming e il racconto di una famosa storia con Superman di Garth Ennis) lascia posto a una scrittura più organica e compatta – resta ancora qualche debito con Genna, evidentissimo in una scena con lo Svedese.

La ragazza dai capelli strani – David Foster Wallace (Minimum Fax)
Tanto mi piace il DFW saggista e articolista, tanto ho difficoltà con le sue storie. Non so cosa sia di preciso, forse che applicata alla narrativa la sua capacità di analizzare e scomporre le cose mi annoia, fatto sta che non riesco a godermi i suoi racconti come i suoi saggi. Racconti che pure sono tutt’altro che disprezzabili. Sono io che non ce la faccio.

Al servizio di chi mi vuole – Giorgio Scerbanenco (Garzanti)
Scerbanenco è stato uno dei grandi artigiani della narrativa italiana, capace di sfornare pagine su pagine, di qualsiasi genere. Questo è un romanzo di guerra che racconta l’assalto di una banda di mercenari a un deposito d’armi in Florida per conto dei ribelli cubani, dal punto di vista di un ex paracadutista italiano. Solida narrativa di genere, con quel tono di fondo malinconico tipico dei romanzi noir di Scerbanenco e la durezza tipica di tempi in cui il “politically correct” non esisteva. In appendice, un racconto, altrettanto duro e malinconico, di ambientazione partigiana.

La città perfetta – Angelo Petrella (Garzanti)
Uno dei più convincenti tentativi di adattare gli stilemi di Ellroy alla narrativa in italiano che mi sia capitato di leggere. Petrella racconta la Napoli dei primi anni Novanta intrecciando tra loro le storie di tre personaggi (un poliziotto corrotto, uno spacciatore, un ragazzo che passa dal movimento studentesco alla lotta armata) e nel farlo lascia intravedere l’Italia che sta sorgendo. Ellroy lo si ritrova non tanto nella forma ma nel tono generale, nella voce dell’autore, nel modo in cui riesce a raccontare la città. Gran romanzo.

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