Verso Oriente – Katmandu (8.1)

La prima giornata a Katmandu si apre con una colazione come Dio comanda, nella quale l’unico ostacolo è la competizione con una folta compagnia di famiglie indiane che devono avere fatto un master in “Lotta al buffet” in Italia. C’è da dire che le signore hanno degli abiti bellissimi e colorati a cui si perdona un po’ tutto. Sopravvissuti all’ordalia, nonostante un curioso equivoco di Lucilla che butta sui cereali una cucchiaiata di quello che credeva yogurt e invece era salsa all’aglio, siamo pronti per fare la conoscenza con la nostra nuova guida, Hiragyan.
Hiragyan è un signore dall’aria molto compita, basso e compatto, che parla italiano con un accento che, come ci aveva anticipato il giorno precedente la signora dell’agenzia che era passata a salutarci in albergo, ricorda un po’ quello tedesco. Hiragyan è un newari, l’etnia originaria della valle di Katmandu; lo stesso nome “Nepal” deriva da “newar”. Tra le altre cose, sono stati i newari a inventare la pagoda, che dalla valle di Katmandu si è diffusa, riadattata, in tutta l’Asia.
Abbiamo anche un nuovo autista, un ragazzo giovane con cappellino con visiera incorporato che ha tutta l’aria di quelle che in un film su una rapina dice “io guido e basta”. Un po’ un Ryan Gosling di Drive nepalese, ecco.

Lui sulla macchina non ha Ganesh, ma un Buddha avvolto in una sciarpa rossa

L’impatto con il traffico dell’ora di punta mattutina di Katmandu è ancora peggio di quello con il traffico del pomeriggio del giorno prima. Mentre Lucilla rivaluta positivamente il tratto urbano della Cassia, va in scena lo show di scatti, frenate, invasioni di corsia, colpi di clacson, mucche in mezzo alla strada, polvere, moto che passano da ogni parte, altre mucche.
È da notare che le moto hanno dei rostri attorno al motore, per proteggerlo da eventuali impatti. Alcuni, poi, li usano anche per appenderci i sacchetti della spesa.

Sbarchiamo dalla macchina nei pressi della prima meta del giorno, lo Swayambhunath, un complesso religioso il cui nome significa “sorto da sé”, importante soprattutto per i buddisti newari ma anche per gli indù.
E questo porta subito a una delle caratteristiche più salienti del Nepal: la serena convivenza di buddisimo e induismo, con i templi di una religione nella quale ci sono spazi dedicati all’altra, e viceversa. È una cosa inconcepibile, per noi occidentali abituati invece al paradossale odio che le tre “religioni del Libro” – ebraismo, cristianesimo e islam, ciascuna delle quali è la rielaborazione della precedente – hanno storicamente nutrito l’una per l’altra, pensare che invece due religioni distantissime possano convivere così. Ma è, alla fine, il bello dei sistemi politeistici, che possono assorbire tutto e accettano che non ci sia una Verità ma tante strade per arrivare alla stessa destinazione.
Uno dei motivi, più prosaicamente, per cui è famoso il tempio tra i turisti, sono le scimmie. Scimmie ovunque. Intente a fare le loro cose da scimmie; spulciarsi, rubare cibo, correre in giro, arrampicarsi sugli alberi.

È qui che succede una cosa un po’ imbarazzante: Hiragyan – che sa un sacco di cose – davanti a una di queste strutture inizia una dettagliatissima spiegazione dei mudra buddisti, con approfondimenti sul loro significato in relazione alle direzioni, agli elementi e qualsiasi cosa. Una cosa già abbastanza complicata da seguire in condizioni normali, figurarsi al caldo, con un’umidità spaventosa e con il tuo cervello che grida SCIMMIE SCIMMIE SCIMMIE, un po’ come quella famosa scena dei Simpson.

Lucilla a un certo punto si sgancia e inizia a fare foto alle scimmie, quindi resto solo io ad ascoltare.
Tutta l’area è una piccola giungla di stupa grandi e piccoli che fanno da contorno a quello, enorme, più importante, che si trova in cima alla collina e che è, appunto, quello che si è “creato da sé” quando il bodhisattva Manjushri prosciugò il lago che occupava la valle di Katmandu e il loto che si trovava al centro della valle diventò una collina con lo stupa in cima.

Più prosaicamente, in quest’area sorgevano luoghi di culto già dal V secolo d.C. (e forse anche prima). Il terremoto del 2015 ha danneggiato e distrutto molti degli edifici del complesso ma ha risparmiato la struttura centrale.

Esempio di convivenza: a sinistra una figura buddista, di fianco una statua di Hanuman, il dio-scimmia induista

La prima grande differenza rispetto al Tibet è quanto qui sia tutto più colorato. I fedeli gettano polveri colorate sulle statue (con un effetto che a noi occidentali sulle prime sembra quello di un atto di vandalismo). Ci sono fiori e bandierine di preghiera ovunque; gli stessi abiti, sopratutto delle donne, sono in un technicolor assoluto. È inebriante anche rendersi conto della densità della decorazione di certi elementi, con il moltiplicarsi di figure che solo un occhio allenato potrebbe riconoscere come ripetizioni identiche o variazioni minimali ciascuna dotata di un suo significato.
Nel Tibet c’era la sensazione a volte di trovarsi in un mondo religioso e simbolico enigmatico, ma in una sua maniera lineare e che si era sviluppato, per via di un certo isolamento, secondo linee ermetiche tutte dirette verso il proprio centro. Qui, al contrario, l’effetto è di avere davanti agli occhi un puzzle complicatissimo che ha inglobato tutto quello che passava in un’area decisamente più accessibile, producendo un intrico nel quale, forse, in pochissimi sanno davvero orientarsi.

Katmandu. Chissà che spettacolo sarebbe senza lo smog

La seconda tappa della giornata è l’area della piazza Durbar di Katmandu (“Durbar” significa “palazzo reale”), dove per la prima volta nella nostra vita incontreremo una dea in carne e ossa – letteralmente. La Kumari.
Ora, questa cosa della Kumari è uno degli argomenti più delicati da toccare parlando del Nepal, perché la credenza che la più potente divinità femminile induista, Durga (o Taleju), si incarni dall’infanzia alla pubertà nel corpo di una bambina proveniente da una famiglia newari buddista, per quanto assurda ci possa sembrare, è ancora oggi una delle ossature politiche del paese – la benedizione della Kumari ai sovrani prima e ai primi ministri ancora oggi è un momento importante.
È delicato perché la Kumari è una bambina che vive la sua infanzia, fino alla prima mestruazione, separata dalla propria famiglia, trattata come una divinità, con doveri di rappresentanza e (fino a tempi recenti) una scarsa istruzione – ma se avete visto The Crown, pure Elisabetta di Inghilterra ha avuto un’infanzia un po’ così e all’interno di un’istituzione che la considera comunque in un’ottica religiosa. Ed è delicato perché ci sono moltissime storie eclatanti sul processo di selezione della Kumari, che prevederebbero prove orripilanti tra bestie sgozzate e uomini mascherati che cercando di terrorizzare la bambina per capire se la dea è davvero in lei. Ci sono poi resoconti secondo le quali le Kumari, una volta tornate alla vita normale, vivono vite miserabili perché tutti hanno paura ad avere a che fare con loro (in realtà, no; è abbastanza significativo il caso di Rashmila Shakya, Kumari dal 1984 al 1991, che ha scritto un libro sulla propria esperienza, è diventata ingegnere informatico e oggi dirige una ONG nepalese che si occupa di lavoro minorile. Anche grazie al suo impegno le Kumari ricevono un’istruzione – cosa un tempo inconcepibile perché cosa si può volere insegnare a una dea?).
D’altro canto, però, la credenza nella Kumari ha anche dei tratti potentissimi: l’idea che il sovrano fosse costretto a prostrarsi davanti a una bambina per avere la legittimazione del proprio potere era una bella botta, nel 1700 nepalese in cui ebbe origine la tradizione. È anche interessante la leggenda che spiega perché questa dea potentissima, alla quale gli altri dèi concessero tutta la loro forza per fermare il demone Mahishasura, che non poteva essere sconfitto da alcun uomo, si incarni nel corpo di una bambina. Durga, infatti (copio da wikipedia per fare prima)

era di una bellezza accecante, con il viso scolpito da Śiva, il busto da Indra, il seno da Chandra (la Luna), i denti da Brahma, le natiche dalla Terra, le cosce e le ginocchia da Varuṇa (il vento), e i suoi tre occhi da Agni (il fuoco), il corpo dorato e dieci braccia. Ogni dio le diede anche la sua arma più potente: Śiva il tridente, Viṣṇu il disco, Indra la vajra, dalla quale scaturisce la folgore, ecc.

Secondo una delle leggende, il re Jayaprakash Malla (l’ultimo re newari di Katmandu prima della conquista da parte dei gurka induisti che unificarono il Nepal nel 1768) riceveva spesso le visite della dea, nella sua forma di sedicenne. Credo che si debba immaginare questa forma come l’ideale platonico di sedicenne bona, perché un giorno mentre erano lì che giocavano a scacchi a Jay passò fugacemente per la mente una roba del tipo “chissà come sarebbe toccarle le tette” (quelle scolpite dalla Luna). La dea ovviamente percepì il pensiero e si infuriò tantissimo, abbandonando il re e, per estensione, il suo regno. Jay passò mesi a fare ammenda e alla fine Durga decise che si sarebbe mostrato di nuovo a lui, e ai suoi successori, solamente nella forma di una bambina e, per giunta, di una casta bassa. E a questa bambina lui – e i suoi successori – avrebbe dovuto tributare tutti gli onori che si devono a una dea.
La tradizione è proseguita fino all’instaurazione della repubblica, con il primo ministro che offre alla dea il tributo che prima presentava il re.
E, a proposito di re, ricorderete tutti il massacro della famiglia reale del giugno del 2001, quando il principe Dipendra sterminò il padre, la madre e altri parenti per un totale di dodici persone, per poi spararsi in testa (e diventare per un breve periodo re lui stesso, benché in coma, prima di morire). Bene, l’anno prima la Kumari non benedetto il re perché si era addormentata prima del suo arrivo per la cerimonia annuale. Inoltre, in quel 2001 la Kumari aveva avuto un’eruzione cutanea, che era stata tenuta nascosta, e aveva avuto la prima mestruazione – il che voleva dire che la dea non era più in lei e si sarebbe dovuta sostituire al più presto.
E, sempre per una strana coincidenza, si dice che durante il terremoto del 2015 la Kumari fosse serenissima; certo è invece che, mentre molti edifici della piazza dove sorge il suo palazzo sono andati distrutti, la sua dimora ha subito pochissimi danni.
Ovviamente, questo è un riassunto parzialissimo della questione, ma se siete interessati all’argomento, che è interessantissimo, c’è un bellissimo libro di Isabella Tree (purtroppo solo in inglese), The Living Goddess, che ne sviscera ogni aspetto e dovrebbe essere una lettura obbligata prima di un viaggio in Nepal.
C’è anche un breve documentario della BBC, che dà un’idea della cosa.

Comunque, tornando a noi, la casa della Kumari nei giri turistici diventa invece una tappa un po’ enigmatica, perché le guide non sembrano voler scendere troppo nel dettaglio della questione – che immagino sia effettivamente lunga e complicata da spiegare al di fuori del proprio sistema culturale.
Così, si viene introdotti nel cortile di questo palazzo e si attende. Il cortile è molto bello, ci sono fregi decorati in legno, altre decorazioni in terracotta lungo tutto il gradino che circonda il cortile, c’è un albero e ci sono simboli buddisti e induisti. Un cartello avvisa che è severamente vietato fotografare la Kumari.

L’ingresso della casa della Kumari. Al centro, con le molte braccia, Durga.

Fino a che non si affaccia un signore dal balcone, ricorda ai visitatori presenti di non fare foto e poi si fa di lato per fare passare la Kumari.
La dea è una bambina di cinque anni, Trishna Shakya – anche se avevo pensato ne avesse un paio di più. È vestita di rosso e ha il viso truccato; non credo fosse il trucco delle grandi occasioni, forse solo gli occhi allungati con la matita. Ci guarda con un’espressione indecifrabile, un po’ imbronciata, un po’ scocciata. Io non so bene cosa fare, perché la situazione è indecifrabile. Credo di avere abbozzato un sorriso, forse un leggero inchino con la testa, tipo quando devo presenziare a una messa e non so bene come comportarmi perché non sono credente e cerco di mantenere una laica generica compostezza. Lei guarda senza vederci, per un tempo che sarà stato di trenta secondi, e poi, senza un singolo movimento dei muscoli del viso, rientra.
Ho scoperto solo poi che la Kumari non sorride ai visitatori perché essendo una dea un sorriso sarebbe un invito a raggiungere il paradiso, cosa che purtroppo non si può fare se non, ehm, morendo. Quindi probabilmente hanno pensato che non sia una cosa positiva per il turismo.
L’esperienza più surreale della giornata (e probabilmente dell’anno – e anche di quello successivo, fino a che non mi sono ritrovato confinato in casa per fermare la diffusione di un virus) si conclude lasciando un piccolo obolo per la manutenzione dell’edificio – perché alla fine la religione è sempre quella cosa che prima o poi qualcuno ti chiede dei soldi.

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