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My back pages – 09 edition

Una breve selezione di libri letti nel 2009 che mi hanno colpito particolarmente. La maggior parte sono, chi più chi meno, “romanzi criminali”. Poi c’è un capolavoro di fantasy umoristica, due volumi di non-fiction, un romanzo “di genere fantastico” e un romanzo con agenti segreti molto sui generis. Quello che accomuna tre libri del primo gruppo (Barbato, Scerbanenco e Ketchum) è la capacità di creare storie in cui i punti di riferimento morali a un certo punto sembrano perdersi nella nebbia. Gli altri due (Petrella e Sarasso) rappresentano tentativi riusciti di rielaborare l’ancora fertile lezione di Ellroy. Il romanzo sulla vita di Cristo di Christopher Moore è semplicemente perfetto nel suo mettere insieme grasse risate, sana avventura e una ricostruzione a suo modo plausibile degli “anni perduti” della vita di Gesù. David Foster Wallace e Bajani gettano sguardi acuti e intelligenti sul mondo e aiutano a capire meglio alcune cose. I romanzi di Murakami e Robbins invece creano dei mondi più veri del vero con la sola forza delle parole, quel genere di mondi che ti dispiace abbandonare dopo l’ultima pagina. Insomma: incantare, turbare, far pensare e informare, far ridere. Che è più o meno quello che mi sembra debba fare la letteratura.
Questo in sintesi. Le recensioni più lunghe sono qui sotto.

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“Praticamente una rockstar”

What is there left for me to do in this life?
Did I achieve what I had set in my sights?
Am I a happy man or is this sinkin’ sand?
Was it all worth it?

Due premesse:
1. Mi scuso con i lettori (ma soprattutto con le lettrici), ma si finisce sempre a parlare di lui;
2. il post che state per leggere parla della copertina del numero di dicembre di Rolling Stone Italia. Solo ed esclusivamente della copertina. Non so come siano gli articoli all’interno, ma per il discorso che voglio fare è irrilevante. Il post parlerà della copertina e della copertina soltanto, del modo in cui può essere fruita come testo autonomo e la lettura che ne consegue.

Ok. Un saluto ai tre lettori rimasti, venite pure qui davanti che c’è posto.

Non ricordo di preciso da quando Rolling Stone Italia si sia messa a distribuire il titolo di “rockstar dell’anno”. L’anno scorso era toccato a Roberto Saviano. Ho ancora il numero nello scaffale dietro di me in ufficio. Non perché ci tenga particolarmente, solo che non mi ricordo mai di buttarlo. Comunque, allora quella scelta mi era sembrata stridente. E continua a sembrarmi stridente oggi, solo che ora so anche spiegarmi le ragioni.
Nel mezzo, c’è stata la lettura del saggio di David Foster Wallace E unibus pluram (EUP). Contenuto in “Tennis, Tv, Trigonometria, Tornado”, EUP è un saggio che parla del rapporto tra la televisione e gli scrittori americani contemporanei, nel quale Wallace sostiene che il post-modernismo, con il suo ricorso all’ironia disincantata nel descrivere il mondo, abbia dato vita a una generazione di autori che non dicono più nulla “sul serio”. L’argomento è ripreso da Wu Ming 1 nel memorandum sul New Italian Epic, nel quale non a caso si cita più volte Saviano. Il perché spero sia chiaro a chiunque abbia un minimo di familiarità con la sua attività di scrittore (ma anche con i suoi due spettacoli televisivi con Fabio Fazio): Saviano è quanto di più lontana da una sensibilità post-moderna e disincantata ci possa essere. Tanto che a volte anche io trovo quasi straniante questo mio coetaneo che nemmeno per un secondo sembra mai cedere alla tentazione di fare la battuta, minimizzare, accennare un commento cinico.
Al contrario, Rolling Stone Italia è un tempio dell’approccio cazzarone. Nello stesso numero, per dire, si annuncia “l’incredibile faccia a faccia fra Elvis Costello + Nick Jonas (sì proprio lui, quello dei tre fratellini verginelli!)”.
Insomma, una copertina con la faccia di Saviano e sotto la scritta “rockstar” stride come unghie sulla lavagna, perché preleva di peso una persona da dove si trova e la cala più o meno nel contesto in cui amano collocarlo i suoi detrattori: “uno che fa spettacolo”.
Magari le intenzioni erano buone, ma il risultato mi lascia, ancora oggi, perplesso.

E oggi tocca a Silvio Berlusconi.
Metto la foto qui sotto per comodità.

Straaap

Ecco. L’immagine è opera di Shepard Farey, quello del poster “Change” per Obama.
Berlusconi è raffigurato con una specie di ghigno sul volto mentre strappa in due una bandiera italiana sulla quale è scritto il suo nome, sullo sfondo di un’altra bandiera italiana.
Non solo quale fosse di preciso l’intento dell’artista, né quale sia stata la richiesta di Rolling Stone Italia, ma trovo che l’effetto finale dell’immagine sia quello che si legge in questo articolo del Giornale:

Il rock è provocazione. Non guarda in faccia a nessuno. Entra nei sancta sanctorum e puzza di blasfemo. Non rispetta la nobiltà, la storia, le tradizione. È un talento barbaro, che i custodi del passato faticano a riconoscere. Ribalta i canoni. Il rock è costretto a mostrarsi giovane anche a 70 anni. Quando il Cav entra nel club esclusivo della politica estera lascia fuori i cappelli a cilindro della vecchia diplomazia. È il cucù, le corna (rock, molto hard rock), i kapò, voce alta, scacco alla regina e tutta la geopolitica della pacca sulle spalle. Il rock avvicina, cancella le distanze, alto e basso non si distinguono più. Il motto è: «Hi fratello».

“Distruggere” è un gesto che associamo alla cultura rock. E ha un valore positivo perché, in quella moderna epopea che è “la storia del rock” intesa come fenomeno socioculturale, il rock svolge un ruolo positivo, di rottura di consuetudini e di liberazione. “Elvis ha liberato i nostri corpi e Dylan le nostre menti” diceva John Lennon. Al rock associamo blue jeans, liberazione sessuale, assenza di formalismi, istintività. In parte per innegabili motivi storici, in parte perché sono collegamenti che ci siamo abituati a fare negli anni.
Ha gioco facile la stampa di Berlusconi a usare questa copertina per glorificare quegli aspetti della figura pubblica del PresDelCons che a me fanno rimpiangere il pentapartito e Tribuna Politica. Ha gioco facile perché quella copertina (che sopravviverà molto più a lungo di qualsiasi articolo la commenti all’interno del giornale) sembra proprio, per il contesto, per quello che c’è scritto, perché nasce già per essere un’icona pop (suppongo che a breve avere una propria foto manipolata da Farey diventerà come farsi ritrarre da Raffaello) e per essere letta all’interno del sistema di valori del “pop” e del post-moderno.
Ora, non credo spetti a Rolling Stone Italia fare da baluardo contro Berlusconi. Rolling Stone Italia è una rivista che opera in un regime di mercato ed è liberissima di fare le copertine che ritiene porteranno più lettori la cui attenzione vendere ai propri inserzionisti. E le polemiche, si sa, fanno vendere.
Però, ecco, secondo me questa copertina è così goffa nell’essere un omaggio all’immagine pubblica che il PresDelCons vuol dare di sé che a me sembra più un omaggio spudorato. Esattamente il tipo di ossequio verso un potente e verso il suo culto della personalità che vorrei non vedere mai mai mai.

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I libri dell’estate – parte terza (e ultima)

Ok, ora sono in pari. Evidenziato il Gran Figo.

Italiani brava gente – Angelo Del Boca (Neri Pozza)
La storia del nostro Paese è sempre un argomento interessante, per il semplice fatto che alla stragrande maggioranza è sostanzialmente ignota in molte sue parti. Per esempio quelle relative alle nostre imprese belliche non propriamente eroiche. Del Boca stila un catalogo di alcuni dei crimini di guerra compiuti dall’unificazione in poi, partendo con la guerra al brigantaggio (che fu di fatto una specie di guerra civile) e arrivando alle imprese coloniali in Africa e alla seconda guerra mondiale. Un utile appunto per ricordarsi pagine poco note della nostra storia.

La melancolia del corpo – Shirley Jackson (Minimum Fax)
Racconti inquietanti e surreali, in cui l’autrice smonta la realtà e la ricostruisce, dotandola di nuova coerenza, in mondi che tanto più sono simili a quello reale tanto più sono inquietanti per i dettagli che li differenziano.

Il sogno di Naarom – Marco Redaelli (Edicolors)
È il romanzo di esordio, uscito per una piccola casa genovese, di un ragazzo di 18 anni. L’ho letto perché me l’ha mandato un amico che ci lavora. Cosa c’è di buono? Che riesce a gestirsi una storia piuttosto lunga – anche se qualche sforbiciata si poteva dare – e che si è premurato di ambientarla in un mondo che sembra il Giappone che si vede nei manga e negli anime di ambientazione scolastica. E c’è anche un personaggio davvero riuscito (il ratto parlante). Di male c’è che la scrittura ha dei frequenti momenti di cedimento, vuoi verso la “purple prose” vuoi verso il parlato o il cliché e che diversi passaggi della trama avrebbero avuto bisogno di personaggi delineati meglio e meno bidimensionali per essere credibili. In più, il libro è funestato da una quantità di errori editoriali un po’ troppo alta e il risultato complessivo è ancora amatoriale. Però il ragazzo ha della stoffa, se riuscisse a maturare potrebbe fare qualcosa di interessante.

I ragazzi del massacro – Giorgio Scerbanenco (Garzanti)
Scerbanenco ai vertici assoluti della sua durezza. L’inizio, con la descrizione della scena del delitto (una professoressa di una scuola serale stuprata e massacrata dai suoi alunni), è un pugno nello stomaco. E il resto del romanzo contiene scene da girone dantesco, come il lungo interrogatorio notturno dei sospetti. Oltre a uno sviluppo rigoroso e impeccabile degli aspetti dell’indagine. Il ritratto della società che emerge dal romanzo è spaventoso e senza appello, tanto più perché Scerbanenco non calca mai la mano al punto di diventare caricaturale, ma resta sempre, pur nell’orrore e nella disperazione che racconta, assolutamente sobrio. Un capolavoro.

Se consideri le colpe – Andrea Bajani (Einaudi)
Un giovane italiano va in Romania, dove la madre, imprenditrice, è morta durante uno dei suoi lunghi soggiorni di lavoro. Una storia tenue, dove il dolore privato per la perdita diventa il pretesto per raccontare il rapporto tra i due paesi, il mondo degli italiani che vanno ad aprire fabbriche in Romania. Scritto molto bene, riesce a trattare due temi sensibili senza mai scadere nel patetismo o nel didascalico.

L’inattesa piega degli eventi – Enrico Brizzi (Baldini & Castoldi – Dalai)
Enrico Brizzi si cimenta con l’ucronia: l’Italia non ha perso la seconda guerra mondiale, il fascismo non è mai caduto, le colonie d’Africa sono diventate saldamente italiane. Per raccontare la vita oltremare si inventa la storia di un giornalista sportivo mandato a seguire il campionato africano, fatto di squadre miste (malviste dal regime) e di squadre di purissima razza italica. I pregi sono che riesce a cogliere del calcio quel senso profondo (e un po’ idealizzato) di epicità e appartenenza – tanto che ha affascinato me che sono stato tre volte allo stadio, tutte prima dei 14 anni – e una costruzione credibile della vita nelle colonie. Il difetto è che alcuni passaggi sembrano essere funzionali, più che alla storia, alla dimostrazione delle ricerche fatte per l’ambientazione. Il bilancio è però positivo e il romanzo mette in mostra un lato piuttosto inedito di Brizzi (che comunque è sempre stato sbagliato identificare solo con “Jack Frusciante”).

Men and cartoons – Jonathan Lethem (Minimum Fax)
Raccolta di racconti. Di cui ricordo piuttosto poco, se non che il primo gira attorno al gioco di società che io conosco come “lupus in tabula” e altri probabilmente come “lupi”, “licantropi” o simili.

I tre moschettieri – Alexandre Dumas (Mondadori)
Il problema grosso è che Dumas veniva pagato un tot alla riga. Quindi succede che ci siano delle parti meravigliose, che sono quelle per cui il romanzo è diventato celebre, e delle parti di una noia mortale che servono solo a fare volume. E spesso le seconde sovrastano le prime, purtroppo.

Verso occidente dirige l’impero il suo corso – David Foster Wallace (Minimum Fax)
È un’operazione complicata, una specie di meta-romanzo che dialoga con un racconto di John Barth e ha al suo interno una digressione sulla meta-narrativa. Ha degli spunti molto buoni e molto divertenti, ma nel complesso mi sono un po’ perso e annoiato…

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I libri dell’estate – parte seconda

Seconda parte del riepilogo. Evidenziati con il rientro, i Gran Fighi.

Hellgate – Alan D. Altieri (TEA)
Seconda raccolta di racconti di Altieri, questa volta dedicata ad Andrea Calarno, poliziotto apparso per la prima volta in “L’uomo esterno”. Raccogli diversi racconti “d’occasione” (tra cui uno che ha come protagonista Duca Lamberti, personaggio-icona di Scerbanenco) e spesso il tono sarcastico e sopra le righe va un po’ troppo sopra le righe – come nel romanzo breve che chiude il volume.

La regina dei castelli di carta – Stieg Larsson (Marsilio)
Conclusione della trilogia di Larsson, di fatto è la seconda parte del secondo libro. Il problema più grosso è che, a un certo punto, c’è troppa roba. Troppe coincidenze, troppe sottotrame. E, per un lettore italiano, un’inspiegabile fiducia nella legge e nell’ordine costituito. Oltre a un manicheismo che stona con il realismo delle parti dedicate ai rapporti tra politica, economia e giornalismo. Però lo stesso si va avanti una pagina dopo l’altra, intrappolati dalla macchina macina-trama di Larsson.

Guida alle case più stregate del mondo – Francesco Dimitri (Castelvecchi)
Nei primissimi anni novanta, il secondo Almanacco di Dylan Dog ospitava un lungo speciale dedicato ai fantasmi e al ghost-hunting. Questo libro ne è un po’ l’erede spirituale: non solo recensisce una gran quantità di dimore e luoghi infestati in giro per il mondo, ma fornisce anche all’aspirante cacciatore di fantasmi una certa quantità di nozioni su come affrontare il suo nuovo hobby. La parte più interessante, però, è quella teorica, in cui Dimitri spiega come la realtà che percepiamo sia, a grandi linee, costruita da noi stessi e da ciò in cui crediamo (o vogliamo credere).

Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi – Tom Robbins (Baldini & Castoldi – Dalai)
È la prima volta che leggo qualcosa di Robbins. E ne sono stato completamente rapito. Personaggi sopra le righe ma allo stesso tempo credibili, ambientazioni esotiche e sospese tra sogni e realtà, veloci cenni sulla storia delle religioni, dialoghi spumeggianti. Da leggere.

La Torre Nera – Stephen King (Sperling&Kupfer)
E così un lungo viaggio arriva alla fine. Il giudizio è per tutta la serie, non per il libro in sé che ha dei momenti anche un po’ imbarazzanti (lo scontro con il Re). Ma King ha davvero costruito un incredibile monumento (anche a se stesso e al suo lavoro), un atto di amore verso la scrittura e le storie da levare il fiato.

Monster nation – David Wellington (Mondadori)
Il primo della serie iniziava lento e si impennava solo verso i tre quarti della storia. Questo inizia lento e resta uguale fino alla fine. È difficile sbagliare con gli zombi, ma qui Wellington ce l’ha fatta.

Acque oscure – Valerio Evangelisti (Mondadori)
Antologia un po’ (molto) altalenante, dove per fare volume è stato infilato di tutto, compresi due raccontini d’occasione come quelli su Palahniuk e Dan Brown. Il piatto forte è il racconto finale, che però miscela “Il nodo Kappa” e “Sepultura”, racconti già editi. Divertente il racconto, molto fantascienza vecchio stile, “Stanlio e Ollio terror detectives”.

Let it be – Paolo Grugni (Mondadori)
“Noir” all’italiana, che mescola semiotica e canzoni dei Beatles. Sulla carta, un capolavoro. Ma Grugni appesantisce il tutto abusando di quella che gli anglosassoni chiamano “purple prose”, vale a dire infiocchetta tutto con uno stile che cerca di mescolare la durezza del noir con un lirismo assolutamente fuori luogo. Si arriva alla fine con una certa stanchezza.

Animere nere reloaded – AA. VV. (Mondadori)
Seconda puntata dell’antologia di racconti crudeli curata da Altieri. L’accumulo di sesso, violenza, sesso, violenza, sesso, violenza produce rapidamente una certa noia. Qualcosa di interessante c’è, ma va cercato bene. O forse sono racconti che andrebbero letti uno ogni tanto e non tutti di seguito.

Settanta – Simone Sarasso (Marsilio)
Rispetto a “Confine di Stato”, il balzo in avanti di Sarasso è notevole. Se il primo romanzo era tutto scritto come fosse un film d’azione tradotto, qui c’è un’attenzione alla resa delle diverse parlate dei personaggi (a seconda della loro provenienza) del tutto inedita – e che non sfocia mai nella macchietta. Sterling fa un passo indietro, non è più il motore principale delle vicende, e tutta la storia ne guadagna in credibilità e incisività. Anche il pastiche di stili e prestiti altrui (in CdS c’era un pezzo di “54” di Wu Ming e il racconto di una famosa storia con Superman di Garth Ennis) lascia posto a una scrittura più organica e compatta – resta ancora qualche debito con Genna, evidentissimo in una scena con lo Svedese.

La ragazza dai capelli strani – David Foster Wallace (Minimum Fax)
Tanto mi piace il DFW saggista e articolista, tanto ho difficoltà con le sue storie. Non so cosa sia di preciso, forse che applicata alla narrativa la sua capacità di analizzare e scomporre le cose mi annoia, fatto sta che non riesco a godermi i suoi racconti come i suoi saggi. Racconti che pure sono tutt’altro che disprezzabili. Sono io che non ce la faccio.

Al servizio di chi mi vuole – Giorgio Scerbanenco (Garzanti)
Scerbanenco è stato uno dei grandi artigiani della narrativa italiana, capace di sfornare pagine su pagine, di qualsiasi genere. Questo è un romanzo di guerra che racconta l’assalto di una banda di mercenari a un deposito d’armi in Florida per conto dei ribelli cubani, dal punto di vista di un ex paracadutista italiano. Solida narrativa di genere, con quel tono di fondo malinconico tipico dei romanzi noir di Scerbanenco e la durezza tipica di tempi in cui il “politically correct” non esisteva. In appendice, un racconto, altrettanto duro e malinconico, di ambientazione partigiana.

La città perfetta – Angelo Petrella (Garzanti)
Uno dei più convincenti tentativi di adattare gli stilemi di Ellroy alla narrativa in italiano che mi sia capitato di leggere. Petrella racconta la Napoli dei primi anni Novanta intrecciando tra loro le storie di tre personaggi (un poliziotto corrotto, uno spacciatore, un ragazzo che passa dal movimento studentesco alla lotta armata) e nel farlo lascia intravedere l’Italia che sta sorgendo. Ellroy lo si ritrova non tanto nella forma ma nel tono generale, nella voce dell’autore, nel modo in cui riesce a raccontare la città. Gran romanzo.

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I libri di Aprile

Primo appuntamento sul “nuovo” Buoni Presagi con la rubrica dei libri del mese precedente. Evidenziato, quello che mi è piaciuto di più.

In un paese bruciato dal sole: l’Australia – Bill Bryson (TEA)
Bryson sta a Severgnini come Joe Cocker sta a Zucchero. Vale a dire che è la buona idea da cui noi abbiamo tratto una copia ridicola (trash, per chi ha letto Tommaso Labranca). Questo è un reportage di viaggio dall’Australia, che ha il merito di raccontare un sacco di cose interessanti sul continente che ha dato al mondo i Men at work e di farlo facendo fare anche un sacco di risate. A parte quando parla di tutta la roba velenosa che c’è in Australia, facendoti passare qualunque voglia di mettere piede nell’ex colonia penale britannica.

Grande Madre Rossa – Giuseppe Genna (Mondadori)
Nato per essere una sorta di non-thriller, che costruisce una tensione, una trama cospirativa secondo tutti i crismi del genere e non la risolve, GMR in questa sua ristampa nella collana Segretissimo (storica serie da edicola di spionaggio) vede esplodere ancora di più questa sua contraddizione. Mi domando che ne pensino i lettori “classici” della serie, di questa vera e propria imboscata ai loro danni. La ricostruzione delle conseguenze di un devastante attentato terroristico al Palazzo di Giustizia di Milano è credibile e tesa al punto giusto. Ho letto il libro nei giorni immediatamente dopo il terremoto in Abruzzo, mescolando tra loro la polvere degli edifici veri e di quelli di carta, i lutti reali e quelli virtuali. Potente, dannatamente potente.

Un disco dei Platters – Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli (Mondadori)
Seconda prova per la coppia Guccini-Macchiavelli, ambientata nei primi anni Sessanta. Rispetto al primo episodio si perde un po’. Ma il fascino dei luoghi e il piacere della narrazione restano a livelli più che accettabili.

Tennis, tv, trigonometria, tornado – David Foster Wallace (Minimum Fax)
Per me, questo libro (raccolta di vari saggi e articoli) andrebbe comprato anche solo per il fondamentale saggio sul rapporto tra tv e scrittori americani, in cui DFW espone la sua teoria sull’abuso dell’ironia. Un testo che mi azzardo a dire fondamentale e ancora oggi centrato e attuale (voglio dire, abbiamo un partito di centro che ha come slogan un calembour, “l’estremo centro”; voi vi fidate di gente che, al di là di tutto, vi chiede il voto con una battuta?). Ma non è l’unica perla: il saggio su Lynch, i due sul tennis, che fanno venire voglia di (ri)prendere in mano la racchetta anche a un pigrone come me. Il resoconto della fiera agricola. Bellissimo (e in originale dentro c’era pure “Una cosa divertente che non farò mai più”, immagina che libro)

Il corpo e il sangue d’Italia – AA. VV. (Minimum Fax)
Una raccolta di otto reportage sull’Italia di oggi: l’islam, l’Ilva di Taranto, il doping nelle palestre, la condizione delle donne sul lavoro, l’etica della rappresentazione del dolore nel giornalismo,per citare i più interessanti. Lo stile varia da autore a autore, tendendo ora più ora meno a uno stile letterario, ma l’attenzione alla scrittura è in tutti casi molto alta, così come la presenza nel testo del narratore stesso, che più che cercare di raffigurare verità assolute dà la propria testimonianza di fatti e opinioni, conscio che il suo essere osservatore contribuisca comunque a modificarle. Un buon libro che in qualche modo cerca di proseguire quanto iniziato da Saviano in Gomorra, non riproponendo sterilmente una formula ma cercando di riprodurne le logiche e le urgenze più profonde.

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