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Finlandia, 2022

Giorno 1

Da Roma a Porvoo

In aeroporto succede questa cosa.
Al terminal c’è un pianoforte a disposizione dei viaggiatori. Per un po’ – se siete quelle persone come me che devono arrivare in aeroporto almeno tre ore prima anche se è un volo Schengen con solo bagaglio a mano e check-in online, al terminal ci state un po’ – alla tastiera si alternano persone abbastanza competenti. Stanno pur sempre imponendo della musica al prossimo, anche se in modo più socialmente accettabile che dalla cassa blutooth, però almeno si impegnano per farlo. Tutto sommato, sono piacevoli. Anzi, li invidio anche un po’.
Comunque, a un certo punto si impadroniscono del pianoforte due o tre bambini che percuotono la tastiera a mano aperta e non una o due volte.
Per dieci minuti. 
“E i genitori?” ci si chiederà.
Io per esempio me lo sono chiesto e quando ho allungato la testa verso il pianoforte ho visto – mentre uno dei bambini aveva scoperto il pedale del sostenuto, rendendo la situazione ormai ai confini delle più folli sperimentazioni rumoriste – un paio di adulti osservare compiaciuti e divertiti i propri figli che rendevano peggiore la mattinata di decine di persone. Mentre pensavo a come recuperare i loro indirizzi e regalare per Natale ai figli una battieria, sono comparsi due inservienti dell’aeroporto, che non hanno semplicemente chiuso il pianoforte: lo hanno portato via, per tutti, per chi sapeva suonare e per chi lo aveva scambiato per un attrezzo per far sfogare un po’ i figli.
Questa storia mi sembra che ci insegni qualcosa.

Non mettevo piede in aeroporto da due anni e mezzo.
L’ultimo viaggio del mondo prima io e Lucilla lo avevamo fatto a Budapest, nel febbraio del 2020. Anzi, eravamo partiti il 31 gennaio, il giorno dopo il ricovero per covid dei due turisti cinesi a Roma. Da Fiumicino. Quella mattina, l’aeroporto era pieno di gente che era corsa a procurarsi la prima mascherina che aveva a portata di mano: qualche chirurgica, forse recuperata da amici sanitari, moltissime da cantiere, i più intraprendenti una sciarpa ben stretta. A noi, quel giorno, sembravano ancora tutti matti.
Poi siamo rimasti separati tre mesi, io a Bologna e lei a Roma.
Ora, siccome ho più ferie di Lucilla ad agosto, sono partito per una settimana, da solo, in Finlandia.
È una cosa che non ho mai fatto: non andare in Finlandia (ci eravamo stati nel 2015), ma andare in viaggio da solo. Non solo, è la prima volta che faccio una vacanza guidando, visto che ho preso la patente, a 18 anni e qualche decina di mesi di troppo, solo a novembre del 2020.

Fiumicino mi ricorda una cosa: che viaggiare mi mancava, l’industria del viaggio meno.
Faccio venti minuti di coda per una brioche stopposa e un caffè che parliamone, in aereo per 9 euro acquisto da Finn Air un “cheese plate” neanche così orribile, se non fosse per l’hummus che sa di piedi. Il mio biglietto non prevede bagaglio da stiva, quindi ho un guardaroba minimale e devo fare attenzione a qualsiasi salsa.

Però per ora tutto bene. Scrivo bevendo una birra in lattina del supermercato (una gradevole Karhu Summer Ale da 3,50 euro per mezzo litro) seduto fuori da una casa di campagna fuori Porvoo dove ho affittato una stanza per la notte che mi è costata quanto la cena – l’hamburger blue cheese e blueberries è stato un ottimo azzardo, l’insalata di gamberetti finlandese con aneto pure. Ho il bagno in corridoio, ma ok, ci può stare.

Sono sopravvissuto non solo alla mia prima auto a noleggio, ma all prima con il cambio automatico (è bellissimo, la frizione è un retaggio ottocentesco da abbattere) (“nooo, perché io devo sentire il momento in cui il motore mi sussurra cambia ora, sarà bellissimooooh” dirà qualcuno, ma francamente la comodità non ha prezzo).

Porvoo è carina, una cittadina a mezz’ora da Helsinki che ha conservato un piccolo pezzo di città antica con gli edifici in legno colorati affacciati sul fiume. Il resto della città sembra abbastanza trascurabile, ma la città vecchia è piacevole. Certo, per una gita in giornata da Helsinki, come propone la Lonely Planet, mi sembra eccessiva. Però l’esperienza mi è stata utile perché mi ha permesso di decifrare un’altra delle espressioni ricorrenti del linguaggio Lonely Planet. Quando parlano di un posto dove dovete assolutamente pernottare, perché quando se ne vanno i turisti avete le strade tutte per voi dimenticano di specificare che tipo non c’è nemmeno più un posto dove mangiare e la tristezza e la solitudine possono diventare tangibili.

(“Imparare a leggere la Lonely Planet” è il libro che scriverò un giorno)

Giorno 2

Da Porvoo a Savonlinna

La Finlandia ha un curioso primato.
È l’unico stato europeo confinante con l’URSS all’inizio della seconda guerra mondiale a non essere finito nel Patto di Varsavia. Non che i sovietici non avessero cercato di invaderli, ma come è andata finita lo sintetizza una battuta che girava durante la Guerra Fredda, ogni volta che lo spettro di un’invasione sembrava diventare più concreta: “In Finlandia è pieno di soldati russi. Sono tutti sepolti lungo il confine”.
La relazione della Finlandia con la Russia dal 1918 in poi è stata abbastanza complicata, soprattutto dal fatto che nella seconda guerra mondiale i sovietici invasero la Finlandia due volte – e la seconda i finlandesi si allearono pure con i nazisti, per poi passare l’inizio del 1945 a ricacciarli dalla Lapponia. Un po’, volevo che la presenza dell’ingombrante vicino fosse il tema di questa giornata di viaggio. Per andare da Porvoo a Savonlinna, infatti, sarebbe molto più rapido passare all’interno della regione dei laghi. Io, invece, ho scelto di fare tappa a Lappeeranta, costeggiando così un bel tratto del confine russo.
Come europei, con i confini non abbiamo più molta familiarità, dopo il trattato di Schengen. Eppure, fino a non molto tempo fa non era così: quando da bambino andavo in montagna a Bardonecchia, d’estate, per andare a fare i picnic o le escursioni in Valle Stretta bisognava mostrare i documenti alla guarnigione di confine francese (oggi la guarnigione non c’è più e il confine esiste solo se vieni dall’Africa e cerchi di andare in Francia). Per arrivare qui in aereo ho mostrato la carta di identità solo all’imbarco – l’ultima volta che sono stato allo stadio credo di aver dovuto passare tre controlli di identità. 

Ora, invece, il confine tra Finlandia e Russia è tornato a essere un confine vecchio stile, una linea che separa due mondi con interessi esplicitamente contrapposti, tanto più con la Finlandia in procinto di entrare nella NATO.

Dall’autostrada, ovviamente, il confine non si vede. Ci sono un paio di strade che portano in Russia, vedo i cartelli che danno la distanza da San Pietroburgo, ma le foreste che fiancheggiano la strada impediscono di vedere qualsiasi cosa. So solo che di là, da qualche parte alla mia destra, c’è la Russia, che è tornata a essere, come nel pieno del Novecento, un mondo alieno e vagamento minaccioso.

Lappeeranta dista solo 30 km dal confine. È l’undicesima città finlandese per dimensioni ed è più vicina a San Pietroburgo che a Helsinki. Secondo la vecchia Lonely Planet che mi sono portato dietro, era una meta amata dai russi dei dintorni per lo shopping. Ma i suoi rapporti con il vicino sono più profondi e radicati. Come molte zone di confine, anche questa ha cambiato appartenenza diverse volte: nacque svedese, diventò russa nel 1741 e poi finlandese nel 1917 con tutto il Granducato di Finlandia (che ottenne l’indipendenza dal neonato governo bolscevico). Nel 1856 era stato aperto un canale che la collegava con la città di Vyborg, tornata russa nel 1940. Dal 1963 la Finlandia ha una concessione per usare la parte russa del canale, rinnovata nel 2012 per cinquant’anni – ma chissà se le condizioni resteranno le stesse.
Nella città è ambientata la serie poliziesca Bordertown, sfruttando le possibilità offerte dalla sua natura di confine, e la sua principale attrazione turistica è quello che resta della fortezza che ben poco poté fare nel 1741 quando i russi strapparono la città alla Svezia. Nell’area si trova un’elegante chiesetta di rito russo ortodosso, con bei dipinti settecenteschi, e una sala da te in stile russo, nella quale sono stato giusto il tempo per ordinare del cibo ma che già mi ha fatto venire voglia di rivolgermi alla cassiera chiamandola per nome e patronimico, come in un romanzo di Tolstoj.

Dopo pranzo, accompagnato da un bel sole che fa sembrare probabilmente più belle di quelle che sono le strade ai piedi della fortezza, arrivo fino alla settecentesca chiesa in legno di Santa Maria, unico esempio sopravvissuto della pianta a doppia croce, un tempo tipico della Finlandia. All’interno, conserva dei dipinti di gusto molto naïf – o semplicemente molto grezzi, specie rispetto a quelli della chiesa ortodossa – ed è sobriamente colorata di bianco e celeste. Il campanile, invece, è staccato dalla chiesa e sovrasta un piccolo cimitero che si è venuto a trovare nel mezzo della città, come un parchetto. Qui, accanto alle tombe ottocentesche, ci sono le sepolture dei soldati morti nel 1939-1940 (la guerra d’inverno) e nel 1941-1944 (la guerra “di continuazione” a fianco dei nazisti contro i sovietici), semplici lapidi quadrate nel terreno, con fiori freschi. Ma ci sono anche un monumento ai morti rimasti nelle terre diventate russe nel 1940, agli orfani di guerra di quegli anni e la scultura di un cigno ad ali spiegate nel punto dove si trovava un rifugio antiaereo colpito da una bomba nel febbraio del 1940.
Insomma, l’area attorno alla chiesa è come una grossa ferita aperta e sanguinante che parla del rapporto di quest’area con il proprio passato, recente e non.

Però non mi bastava. Non volevo arrivare fino a un varco di confine, ma volevo sentirlo da vicino, il confine. 
C’era un punto in cui l’autostrada ci sarebbe passata molto vicino, ma non abbastanza. Mi fermo a prendere un caffè, il terzo della giornata (i finlandesi sono tra i maggiori consumatori al mondo di caffè), studio un po’ su Google Maps e noto che c’è una strada secondaria che arriva a un passo dalla Russia. 
La deviazione mi porta in una strada sterrata che sfila accanto a case di campagna rosse e nere nascoste tra gli alberi o circondate da campi. Quando non manca molto al punto più vicino, sulla destra vedo un cartello, a bordo strada. Avvisa che è un’area di confine e che non si può proseguire oltre senza autorizzazione. Ci siamo. Il confine. Mi fermo, lo fotografo. 
Proseguo ancora, c’è una diramazione a sinistra, ma se proseguo dritto arriverò al punto più vicino. All’incrocio c’è una casetta, mi ricorda quella della guarnigione francese di Valle Stretta. Fermo la macchina, in mezzo alla stradina, tanto non c’è nessuno. Scendo con il telefono, c’è un cartello con un disegno della zona di confine, vorrei fotografarlo. 
Rumore di motore. In avvicinamento dalla strada che dovrei imboccare.
Sulla strada arriva un furgone dell’esercito. Batto in ritirata, salto in macchina, metto in moto, sgombero la strada e rinuncio a proseguire. Cercando di non dare l’impressione di essere in fuga, saluto i soldati sul furgone. Loro mi guardano un po’ perplessi e tirano dritti; probabilmente non sono arrivati perché mi avevano visto arrivare qui (dove non c’è alcun motivo per andare), forse stavano solo facendo il normale giro di controllo. Ma io ormai ero già entrato in modalità “confine” e avevo pensato che farsi trovare a fare foto accanto a un confine, uno vero, non fosse una buona idea.
Non ho il fisico, per il confine.

Savonlinna, invece, è nata attorno a un castello costruito per proteggere il confine orientale del regno di Svezia nel 1475. La fortezza, dedicata a sant’Olaf, da fuori sembra molto bella, arroccata sul lago, ma di più non so dire perché quando sono arrivato alle 17.30 era già chiusa e riapre alle 11, quando sarò già lontano da qui – gli orari di lavoro finlandesi sono una delle sette meraviglie del mondo moderno.
Però anche qui c’è un’altra traccia delle complicate relazioni più recenti tra Finlandia e Russia: nei pressi della cattedrale si erge la statua, enorme, di un uomo nudo che regge un elmetto militare (un albero strategicamente collocato evita a chi esce dalla chiesa la visione delle sue gigantesche chiappe di pietra). È circondato dalle lapidi di persone morte durante la guerra civile del 1918, nella quale si scontrarono i “rossi”, che dopo l’indipendenza volevano una Finlandia vicina alla neonata Unione Sovietica, e i “bianchi”, il cui referente politico era invece la Germania. Il conflitto fece 36.000 morti, lasciò 15.000 orfani (“what’s so civil about war, anyway?” diceva quello) e si concluse con la vittoria dei bianchi. La sua natura di proxy war tra le due nazioni che alla fine del 1918 erano alle prese – per motivi differenti – con una difficile ricostruzione permise alla Finlandia di prendere una propria strada, diventando per esempio una repubblica invece che una monarchia come progettato dalla Germania.
Se si pensa alla storia della Finlandia indipendente e alla dottrina della storia russa espressa da Putin a febbraio, si capisce facilmente perché dopo decenni di equilibrismo con l’URSS prima e neutralità poi il paese abbia chiesto di entrare nella NATO: se è stato un errore dei bolscevichi l’Ucraina, figuriamoci la Finlandia, uno stato vassallo della Russia zarista a cui venne frettolosamente concessa l’indipendenza subito dopo la Rivoluzione (e che per ben due volte nel corso della Seconda guerra mondiale ha combattuto contro l’URSS).

Chiudo la giornata prima di tornare in albergo passando davanti a un bar in riva al lago. Un cartello all’esterno, a due passi dalla fortezza costruita cinque secoli fa per scoraggiare i re russi dall’accampare pretese su queste terre, mostra un cavaliere in armatura medievale, disegnato con uno stile anni ’50, che regge un boccale spumeggiante di birra. Sul petto ha una stella a quattro punte, con i bracci bianchi e blu. Accanto, in uno scudo merlato è scritto a caratteri gotici “Olaf”. È una pubblicità della “famosa birra OTAN”. In piccolo, sopra la birra, si legge in inglese “un sapore di sicurezza con un sentore di libertà”.

Giorno 3

Da Savonlinna a Kuopio

Poco dopo aver fatto colazione con sei chili di salmone nella grande sala di un albergo anni Trenta, dal soffitto altissimo, la tappezzeria a righe, i lampadari di cristallo e in generale quell’aria che ti fa temere che da un istante all’altro arrivi Poirot per annunciare che il barone è stato trovato assassinato nella sua stanza e siamo tutti sospettati, mi accorgo che la Russia me la sono portata in tasca dal primo giorno.
Nel portafoglio ho infatti una moneta da 10 rubli, che per peso e dimensioni è simile a quelle da 1 euro (ma è fatta di un solo metallo). Come ci è finita? La prima sera, di ritorno in albergo, sono stato al supermercato a comprarmi una birra e patatine per il dopocena e ho pagato in contanti. Doveva essere nel resto che mi ha dato la cassiera. Lo sapeva di avere quella moneta truffaldina in cassa? E me l’ha rifilata di proposito? L’ipotesi un po’ mi ferisce, ma non è campata per aria.

In fondo, sono lo straniero, qui.
C’è quel dittico che gira molto in certi ambienti di internet, secondo cui il fascismo si cura leggendo e il razzismo si cura viaggiando. Che è una cazzata, anche se suona bene: tutti conosciamo fascisti che leggono e viaggiatori razzisti.
Però, è vero che viaggiare può darti la sensibilità di cosa voglia dire essere straniero, trovarsi in un mondo di cui non sai decifrare i codici e passi per cretino. Non è solo la questione della lingua: io so parlare un inglese tutto sommato comprensibile, ma se entro in un locale in America o in Inghilterra non so precisamente come comportarmi, il modo in cui ci si rivolge a chi sta alla porta, come si ordina. Da stranieri siamo tutti un po’ goffi, un po’ spaesati – succede persino all’interno dell’Italia, quando mi rendo conto che a Genova ordino la focaccia con molta più naturalezza di quella con cui, dopo due anni, do indicazioni a chi mi serve la pizza al taglio a Roma. E forse, viaggiare può aiutare non a combattere il razzismo quanto la xenofobia, a capire quanto debba sentirsi fuor d’acqua chi non è a casa sua e magari deve reinventarsi una vita in età adulta.
Oppure, invece, te ne sbatti e gli rifili quella moneta che sembra 1 euro ma vale 16 centesimi e vaffanculo, chiusura di cassa salvata (senza rancore, se è andata così mi ha dato qualcosa di cui scrivere e un bel souvenir di questo viaggio).

A tutte queste cose penso mentre mi muovo goffamente nel buffet self-service della caffetteria del monastero ortodosso di Valamo.
Il monastero ha una storia che, di nuovo, si intreccia con quella russa: Valamo, infatti, è il nome di un’isola nel lago Ladoga, che si trova oggi nella Carelia russa, e dove il monastero fu fondato nel 1717 (ristabilendo una presenza monastica andata perduta da un secolo ma che secondo alcuni risaliva al X secolo). All’epoca il monastero faceva parte del regno di Finlandia e rimase anche nei confini della Finlandia indipendente nel 1918. Nel 1939, però, all’avanzare delle truppe sovietiche verso il lago i monaci fuggirono verso ovest, portando con loro icone, libri e tutto quello che poteva servire per rifondare altrove il monastero. La scelta del luogo cadde su Heinävesi, un’amena località sulle rive di un lago, ben lontano dai confini, e dove erano state ritrovate le icone dei santi Ermanno e Sergio di Valaam, i supposti fondatori del monastero originale. Qui arrivarono poi i transfughi di un altro paio di monasteri, rendendo quello di Valamo l’unico monastero maschile della chiesa ortodossa finlandese (poco distante c’è quello femminile di Lintula).

È una dinamica che anticipa quella dei monasteri buddisti tibetani, che dopo la conquista cinese sono stati spesso rifondati in India o in Nepal, dando vita a coppie di monasteri con lo stesso nome in due luoghi diversi (e buona fortuna a decidere quale sia quello “vero”). Anche il monastero di Valamo “originale” esiste ancora, fisicamente e, dal 1989, dopo essere stato un avamposto dell’Armata Rossa, di nuovo come luogo di culto e sede di monaci. Un grande sponsor della sua rinascita era stato il patriarca Alessio II, il primo patriarca della chiesa ortodossa russa post-comunista, che aveva frequentato il monastero da bambino – e che nel 2000 canonizzò i Romanoff, una tappa molto significativa nel revival imperiale/zarista della Russia di Putin, così come molto pesante è il ruolo della chiesa ortodossa russa nella definizione dell’identità nazionale.
Devo dire che una certa aria tibetana si respira già all’ingresso del recinto del monastero, un cancello sormontato da una cupola “a cipolla” dorata. Il monastero è un insieme di edifici sparsi su un’area abbastanza ampia in riva al lago, che comprende anche due strutture ricettive e, appunto, il ristorante.
La chiesa nuova risale al 1977. È un edificio semplice ed elegante, dalle pareti bianche che all’interno sono ricoperte di icone e immagini di santi. La bellezza dell’arte ortodossa è che ha raffinato le tecniche, ma non ha mai modificato il linguaggio dai tempi di Bisanzio; i suoi santi sono immobili, ieratici, sospesi fuori dai luoghi e dal tempo. Ti fissano, severi, mentre ti domandi chi siano, perché il cirillico non lo leggi e la loro iconografia per chi è cresciuto nel mondo cattolico è da un lato riconoscibile ma dall’altro aliena, come quella (appunto) buddista.
È quasi commovente la chiesa più antica, quella costruita ottant’anni fa dai primi monaci: un capanno in legno con unico stanzone, basso e lungo. Qui, l’iconostasi, la parete che separa l’altare dallo spazio per i fedeli, sembra davvero, con la ricchezza delle icone che la decorano, nascondere un mondo segreto. In quella chiesa costruita in povertà, oltre la soglia si ripeteva il miracolo della transuntazione, senza bisogno di architetture raffinate; un’esperienza, che immagino, doveva riportare alla mente gli albori del cristianesimo.
Valamo oggi è una realtà consolidata, che si mantiene con le offerte e con le sue attività economiche, ma non è difficile immaginare quanti sacrifici siano stati necessari per renderla tale e che impresa inebriante, nella sua incertezza, debba essere stato per dei monaci rifondare un monastero, ridare vita a una comunità ripartendo da zero.
Un bel frammento di storia, di nuovo.

In mattinata ero stato a visitare un’altra chiesa, con una storia del tutto diversa, un monumento invece alle ambizioni di una comunità religiosa. Si trova a Kerimaki, poco fuori Savonlinna ed è la chiesa in legno più grande del mondo, con i suoi 37 metri di altezza. Può ospitare 5000 persone, più o meno la metà della popolazione dell’intera regione di Kerimaki all’epoca della sua costruzione, tra il 1844 e il 1847. Purtroppo, l’ottimismo dei costruttori non fece i conti con la realtà: la chiesa non solo non si riempì mai, ma era anche impossibile da riscaldare in inverno, nonostante otto stufe. Così, fu necessario costruire sul retro una seconda chiesetta, da 300 posti, per i mesi invernali.
Dentro, la chiesa è semplicissima, come molte chiese luterane. Sui pilastri di legno sono dipinte marezzature a imitazione del marmo e l’unica concessione figurativa è una pala d’altare. La luce è bellissima, l’odore di resina ancora fortissimo, ma la chiesa non sembra un luogo religioso – almeno non nel senso che do io alla religione. È un luogo per radunare una comunità, pratico, essenziale. Razionale.
Quello che le manca è il senso del mistero, del mondo oltre il mondo che invece la semplice chiesa vecchi degli ortodossi, con i suoi spazi proibiti, il suo Cristo abbigliato come un imperatore bizantino su uno sfondo d’oro, riusciva a evocare pur dentro a uno stanzone di legno.
È buffo pensare che i sogni di grandezza di chi volle nell’Ottocento una chiesa così imponente in un paesino così piccolo si siano trasformati in una rogna per i loro discendenti, che devono trovare i fondi per mantenere un edificio che richiede molte attenzioni e che si è riempito, per un concerto di beneficenza, per l’ultima volta 50 anni fa.

Per finire, stasera stavo cenando in un ristorante sul porto di Kuopio, quando in lontananza si sono sentiti sette o otto colpi fortissimi, tipo tuoni – ma non erano tuoni. C’è stato un qualche scambio di sguardi perplessi tra noi commensali, ma purtroppo, o per fortuna, nessuno ha sentito la battuta che mi è venuta spontanea: “Uh? The russians?

Giorno 5

Da Kuopio a Tampere

Il giorno 4 è stato un altro giorno a Kuopio nel quale mi sono riposato – e ho lasciato riposare la macchina – in vista della giornata più impegnativa, quella a Tampere.
Tra le due città ci sono circa 300 km, durante i quali mi godo la mia ormai completa padronanza dei sistemi di bordo, da Apple Car Play che ho finalmente capito come attivare il cruise control adattivo che regola la mia velocità in base ai limiti che imposto io e alla distanza dalla macchina che mi precede. In pratica, sono diventato il passeggero della mia stessa macchina (ed è bellissimo).

A Tampere c’è una tappa importante di quello che ho deciso essere diventato il tema di questo viaggio: il museo di Lenin, nell’edificio in cui il “piccolo padre” e Stalin si sono incontrati per la prima volta nel 1905. Rinnovato alcuni anni fa, il museo non è più un museo dedicato a Lenin ma ospita un percorso legato al rapporto tra Finlandia e Unione Sovietica prima e Russia poi. Nell’impeto rinnovatore – che deve essere coinciso con il passaggio della gestione dalla società dell’amicizia finnico-sovietica al sindacato dei lavoratori che è proprietario del palazzo – si è forse un po’ perso il punto iniziale, ovvero, perché c’è un museo intitolato a Lenin a Tampere e proprio in quel palazzo. Si capisce che alcune parti del vecchio museo sono rimaste, ma sono rimaste vagamente decontestualizzate. C’è poi da stendere un pesante velo pietoso sulla photo opportunity con Lenin sul sidecar e Stalin accanto, due statue di cera vagamente inquietanti; per l’occasione si possono indossare una cuffia da pilota e una giacca di pelle che ricordano l’abito di scena di John Belushi in 1941: Attacco a Hollywood.
“Che cosa ci faceva Lenin a Tampere nel 1905” comunque si spiega abbastanza in fretta: era lì che si era tenuto, nel dicembre del 1905, il convegno del partito operaio socialdemocratico russo. Un convegno di cui non si sa molto perché fu tenuto nella massima segretezza, visto che dall’inizio dell’anno la Russia (di cui la Finlandia era parte, come Granducato) era scossa da moti rivoluzionari che lo zar reprimeva con la massima solerzia.
Ma perché proprio Tampere? Perché con la fondazione nel 1820 dell’industria tessile Finlayson (un marchio tutt’ora esistente) la città era diventata un polo industriale di prim’ordine. Nel 1900 contava 36.000 abitanti, 3.000 dei quali lavoravano per la Finlayson. Un pubblico molto fertile per le idee socialiste, come si può immaginare – tanto che Tampere fu poi durante la guerra civile una roccaforte dei “rossi”.
La Finlayson nel 1836 era stata ceduta a un uomo d’affari russo, Carl Nottbeck e al suo socio Georg Rauch. Nottbeck non andò mai, pare, mai a Tampere, ma mandò suo figlio Wilhelm a imparare come si dirigeva uno stabilimento. Wilhelm imparò in fretta e in breve fece diventare la Finlayson una città dentro alla città: all’interno delle mura della fabbrica gli operai non solo lavoravano, ma vivevano. Nel 1879 fece addirittura costruire una chiesa, che aveva il suo prete residente.
Se vi sembra una cosa lontana nel tempo, giusto la settimana prima che io partissi mio fratello è stato in Uganda per realizzare delle foto per una ONG e ha visitato uno zuccherificio gestito allo stesso modo – ma anche il tablet su cui sto scrivendo queste note è stato probabilmente assemblato in una fabbrica cinese retta con modalità di vita simili (e lo stesso qualsiasi device su cui mi state leggendo).

A ogni modo, uno dei figli di Wilhelm, Peter, volle farsi costruire un palazzo sulla collina che sovrasta le fabbriche, al quale diede il nome di Milavida (una parola inesistente di cui nessuno ha mai saputo ricostruire il significato). La casa fu completata nel 1898, ma Peter non ci visse mai: lui e la moglie morirono entrambi quello stesso anno, lasciando orfani quattro figli, di cui due neonati perché lei morì di parto. I bambini abitarono brevemente nelle sale del secondo piano affidati a tutori, prima che l’edificio fosse venduto alla città.


Oggi, mentre al pianterreno si trovano un ristorante e un caffè, il piano nobile è un piccolo museo che ricostruisce quello che doveva essere l’arredamento originale, con tanto di statue di cera – vagamente inquietanti – di tre generazioni di Nottbeck: i nonni, i genitori e gli sfortunati figli. È una visita breve, ma sufficiente a preparare alla successiva tappa, il museo del lavoro all’interno dell’edificio del cotonificio.

Qui, sono stati ricostruiti vari ambienti lavorativi “di una volta” e c’è una mostra permanente sulla storia dell’industria in Finlandia, dalla lana filata alla Nokia – non c’è il 3310, ma davanti alla vetrina risuona in continuazione il “Nokia tone”. Rifà capolino lo spettro della Russia, perché nel dopoguerra, fino agli anni sessanta, l’industria finlandese ha lavorato per ripagare i danni di guerra all’URSS e anche dopo il mondo sovietico è stato un ottimo cliente per la Finlandia. 

Ma il vero pezzo forte è il motore a vapore che era il cuore pulsante dell’intera filanda, una ruota di acciaio di 8 metri di diametro mossa da due pistoni da 1650 cavalli (ai quali erano stati dati i nomi delle mogli dei due proprietari). Davanti a quel macchinario, ora immobile ma che non è difficile immaginare muoversi in un infernale clangore di metallo e sbuffi di vapore, puzzolente di grasso animale e sudore, il pensiero della ricca tavola apparecchiata di casa Nottbeck, appena qualche centinaio di metri più in su, è un contrasto stridente. Ed è facile la triangolazione tra i tre musei: quello di Lenin, quello di casa Nottbeck e quello del motore a vapore. Gli ultimi due spiegano l’esistenza del terzo. Spiegano quanto dimentichiamo che cosa fosse il lavoro quando nacquero e si diffusero le idee socialiste, lo shock che deve essere stata l’industrializzazione, che metteva l’uomo al confronto con macchine enormi e terribili che permettevano di moltiplicare a livelli inimmaginabili la ricchezza di chi poteva disporre del capitale per installarle, allontanando i prodotti da chi ci lavorava. Che aveva, magari, in cambio, il paternalismo e il controllo di una vita all’interno dei recinti della fabbrica. 
Da qui a pensare al macchinista ferroviere di Guccini che mette a confronto i velluti e gli ori del treno dei signori al magro giorno della sua gente attorno non ci vuole molto. 

Più amenamente, Tampere oggi è una città che ha recuperato il suo patrimonio industriale, dopo la dismissione nel 1995, in un modo spettacolare. Gli spazi della Finlayson sono diventati ristoranti, centri commerciali, musei e caratterizzano la zona della città in cui si trovano, dialogano con il verde e il fiume. Dopo quattro giorni di paesini, Tampere mi sembra probabilmente ancora più vibrante, ma il suo parchetto dove convivono sfattoni, skater, gente che ascolta black metal (a un volume garbatissimo per non disturbare gli altri), gruppi di ragazzini che chiacchierano, senza che nessuno sembri troppo infastidito dagli altri, è un posto dove avrei passato l’intera serata semplicemente a guardare la gente.

Domani, invece, mi tocca l’ultima tappa in macchina, fino all’aeroporto di Helskinki per restituirla e poi trascorrere due mezze giornate, forse meno, nella capitale. 

Conclusioni

Ho scritto i paragrafi precedenti in diretta, alla fine di ogni giornata.
Ora, scrivo da Roma, due giorni dopo essere tornato.
Le due mezze giornate a Helsinki sono state un lungo respiro prima di tornare a casa. Ho lasciato la macchina in aeroporto dopo aver controllato almeno tre volte di non averci lasciato niente dentro, preso il treno per il centro città, sono arrivato in un albergo un po’ triste, la cui natura era resa ancora più evidente dal mio essere da solo.
Poi sono uscito e sono andato verso la piazza del mercato, al porto.
Dopo un hot dog di renna (!) e una birra da cinque euro e 2,5 gradi che aveva il sapore di quando per sbaglio versi l’acqua nel bicchiere dove c’era ancora un dito di birra, sono salito sul traghetto e me ne sono andato a Suomenlinna. Suomenlinna è un piccolo arcipepago di otto isole, sei delle quali collegate da ponti e trasformate nel 1748 in una fortezza, il cui scopo era quello di proteggere i possedimenti svedesi da… i russi. Ovviamente. Non servì però a molto perché nel 1808 la fortezza si arrese all’esercito dello zar quando tutta la Finlandia entrò a far parte del regno russo.
Dal 1973 Suomenlinna non ha quasi più funzione militare ed è sostanzialmente un grande parco sul mare, con musei, ristoranti e anche case private. Nella loro breve estate, come già avevo visto nel 2015, gli abitanti di Helsinki vanno a godersi il sole e il mare sui suoi prati e i suoi scogli. Quest’anno, sarà per il gran caldo, l’erba secca (che non ricordavo sette anni fa) dà al tutto un’aria particolarmente mediterranea e a un certo punto, sdraiato sugli scogli piatti a prendere un po’ di sole, mi sono trovato a chiedermi se non fossi invece a Genova, sulla passeggiata di Nervi – dove però avrei potuto comprare una birra a prezzi ben più umani.
Per la prima volta da giorni sento parlare italiano, da due coppie, in due momenti diversi: in entrambi i casi c’è del nervosismo (perché non si trovano i prezzi segnati su dei souvenir, perché non si capisce quando bisogna mettere la carta di credito nella macchinetta dei biglietti del traghetto). È curioso, perché all’estero mi sembra sempre che siamo gli unici un po’ stressati.
Ritorno a Helsinki alle 17:30, quando la giornata lavorativa di gran parte dei negozi, di sabato, sta volgendo al termine. Tolti i supermercati e alcune catene internazionali, per lo più i negozi chiudono alle 18. Dopo aver aperto tra le 9 e le 10. E quelli che sono aperti la domenica è raro che aprano prima delle 12 – anche grandi centri commerciali in centro città.
È una cosa spiazzante, ma in Finlandia la settimana lavorativa media è di 36,3 ore. È facile immaginare che orari del genere sembrino meno strani nel lunghissimo inverno nordico, quando alle 18 buio e freddo non invogliano certo ad andare a fare compere. Però è altrettanto facile immaginare come permettano a chi lavora nel commercio di avere una vita un filo più normale, più tempo da dedicare a famiglia, amici, interessi. Preservando al tempo stesso la possibilità di fare acquisti essenziali al supermercato fino a tardi (in media, chiudono alle 22).
Certo, poi camminare la domenica mattina in un centro quasi deserto, se non per altri turisti perplessi, è curioso. Come è curioso scoprire che una caffetteria da quel giorno (14 agosto) è passata all’orario “invernale” e la domenica è aperta 12-17.
Però, se per il quinto anno consecutivo la Finlandia sembra essere il “paese più felice del mondo” secondo il World Happiness Report (posizione dell’Italia nel 2022: 31°, con un punteggio misero nella categoria “libertà di fare scelte sulla propria vita”), forse anche questo incide un po’.

Ma è meglio chiuderla qui, perché mettersi a fare l’elogio di paesi in cui si è stati sei giorni da turista è sempre avventurarsi su un terreno scivoloso.

Grazie per la pazienza, alla prossima.

ps: a parziale deroga di quanto scritto prima, sul giudicare altri paesi, cinque giorni di guida in Finlandia mi hanno aiutato a mettere fuoco quanto sia tossico il modo di guidare italiano, per cui se sei su una statale devi stare 5/10 km/h sopra al limite e anche così avrai comunque lo stronzo che ti si attacca al culo e ti fa i fari prima di superarti rischiando il frontale con chi arriva sulla corsia opposta, perché i limiti di velocità sono un’offesa alla sua capacità di guida. Lì, un po’ probabilmente per la diffusione di cambio automatico e cruise control, un po’ per la grande presenza di autovelox, forse anche un po’ per rilassatezza generale, ho fatto un migliaio di chilometri serenamente, senza incontrare fenomeni (nonostante per altro i limiti di velocità abbastanza bassi; ma magari è anche sapere che il rischio di schiantarsi su una renna c’è sempre, che aiuta)

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Finlandiamo, Ep. 6: chitarre infernali a Helsinki

Riassunto delle puntate precedenti: siamo andati in Finlandia, per la precisione a Rovaniemi. La sera prima di arrivare in Norvegia (la nostra destinazione è Capo Nord), scopriamo che la macchina a noleggio non può uscire dalla Finlandia. Per fortuna, un intraprendente finlandese ci mette una pezza.Arriviamo così in Norvegia, dove andiamo a fare due passi nel nulla, prima di venire invitati a tornare indietro. Poi incontriamo degli italiani e ci fingiamo morti come gli opossum. Arriviamo a Capo Nord e ci imbamboliamo per ore a guardare l’orizzonte. Poi torniamo indietro e per tornare a Helsinki dobbiamo aspettare che ci aprano l’aeroporto.

Obbligatoria foto di gabbiani

Obbligatoria foto di gabbiani

Un mio amico ha questo interesse per i lavori che sul medio termine non saranno più eseguiti da esseri umani ma da macchine. Non è l’unico, perché c’è anche un sito che vi calcola la percentuale di possibilità che un giorno veniate sostituiti da un robot o da un software.
Sicuramente avrebbe apprezzato l’Omena Hotel di Helsinki, che ha una reception totalmente automatizzata: del resto, gestire la disponibilità delle stanze di un hotel è un’operazione che un software sa fare senza alcun problema. Così tu prenoti e un paio di giorni prima del tuo arrivo ti arrivano una mail e un SMS che ti dicono il numero della stanza e un PIN che apre il portone, l’ascensore, la tua stanza. Una cosa che mi sarei aspettato di trovare in Giappone (dove invece tutti i nostri albergatori erano umani, in un caso pure troppo) e che invece ci è toccata a Helsinki. La cosa è sulle prime un pelo spiazzante, poi non ci fai più caso. Certo, poi crea dei momenti di imbarazzo quando sali in ascensore insieme a qualcuno e guardi dall’altra parte mentre uno digita il codice, come i cassieri quando ti passano il POS. Ma forse la cosa più surreale, se ci pensi, è che le persone che rifanno le camere quando i clienti le lasciano – uniche presenze umane – probabilmente ricevono i loro turni di lavoro pure loro da un computer.

Helsinkiani felici.

Helsinkiani felici.

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Finlandiamo, Ep. 3: Norwegian Wood

Riassunto delle puntate precedenti: siamo andati in Finlandia, per la precisione a Rovaniemi. La sera prima di arrivare in Norvegia (la nostra destinazione è Capo Nord), scopriamo che la macchina a noleggio non può uscire dalla Finlandia. Per fortuna, un intraprendente finlandese ci mette una pezza.

Varcare la frontiera con la Norvegia non è particolarmente eccitante, in condizioni normali. Schengen è una figata, ma ci ha tolto il brividino delle frontiere. Quando da piccolo andavo in montagna a Bardonecchia con i miei genitori, ricordo l’impressione che mi facevano le guardie francesi alla dogana per entrare in Vallé Étroite. Bisognava fermarsi, tirare fuori i documenti, a volte il tizio in divisa (e armato) guardava dentro la macchina e tu ti ritraevi come fossi stato colpevole di qualcosa. Adesso invece, niente. Persino per prendere l’aereo in Europa tiri fuori la carta di identità meno spesso che per andare allo stadio.
Però le nostre non sono condizioni normali, perché è molto probabile che nel momento in cui usciamo dalla Finlandia stiamo guidando una macchina non assicurata. Quindi ecco che, anche se la frontiera è una linea immaginaria per terra, bandiere che cambiano, cartelli scritti in un’altra lingua e alci disegnate diverse sui cartelli stradali, il brividino lo sentiamo tutto.

L'alce finlandese (questi cartelli vanno letteralmente a ruba e i paesi nordici spendono un sacco di soldi ogni anno per rimpiazzarli)

L’alce finlandese (questi cartelli vanno letteralmente a ruba e i paesi nordici spendono un sacco di soldi ogni anno per rimpiazzarli)

L'alce norvegese

L’alce norvegese.

Non cambia neanche granché il paesaggio: sempre foreste, sempre strada a due sole corsie, che se ti si piazza davanti un camion o un camper è una sofferenza superare perché tra dossi e curve è raro avere una buona visuale della strada. Continua a leggere

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Finlandiamo, Ep. 2: Lapponia (just don’t go to Russia)

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Schermata 2015-08-30 alle 18.01.12

Quando facciamo una vacanza che preveda il noleggio di un’auto all’estero, non ci preoccupiamo di noleggiare anche un navigatore satellitare. Né abbiamo un piano dati sul telefonino per connettersi dall’estero. Troppo semplice.
Invece, Lucilla cerca su google maps i percorsi che dobbiamo fare e li stampa.
Una volta in loco a me (che non guido) tocca il ruolo del navigatore.
La cosa è ovviamente foriera di drammi perché non sempre le indicazioni di Google coincidono perfettamente con quelle che trovi scritte realmente sui cartelli. Per questa ragione, all’avvicinarsi di ogni bivio mi sorge una vaghissima forma di ansia. C’è gente a cui piace rovesciarsi addosso la cera bollente, noi passiamo il tempo così.
Tanto per cominciare bene, lasciato il villaggio di Babbo Natale invece di dare l’indicazione di tornare indietro per prendere la strada verso la nostra nuova tappa, semplicemente faccio andare Lucilla dritta. Per fortuna, sulla stampata del percorso era ancora visibile il percorso alternativo, che era esattamente quello che avevo fatto imboccare per errore. Solo di quei quaranta minuti più lungo. Continua a leggere

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Finlandiamo, Ep. 1: Rovaniemi

La decisione di andare in vacanza in Finlandia l’abbiamo presa prima che arrivasse il caldo feroce di luglio e agosto. Per allora, era diventata una delle decisioni migliori della nostra vita: abbiamo trascorso le due settimane prima della partenza a guardare ossessivamente il meteo dei posti dove saremmo andati. La prima idea era quella di andare in Islanda: ma se già i paesi scandinavi sono cari, l’Islanda era totalmente fuori budget. Quindi benvenuta Finlandia (l’ipotesi di recuperare il viaggio saltato l’anno scorso, con Georgia e Armenia, invece l’abbiamo scartata per motivi scaramantici).

La partenza è la solita sequenza di trasporti noiosi: una sveglia a orari inumani, un taxi da casa alla stazione di Genova Principe, poi in pullman fino a Malpensa (la geniale idea di costruire un aeroporto in un posto scomodo a più o meno chiunque non abiti a Ferno), dove arriviamo comunque con quel solito anticipo da volo intercontinentale. Grazie a un tattico check-in online, però, abbiamo gli ambitissimi posti di fianco all’uscita di sicurezza, quelli dove puoi stendere le gambe. A patto che tu sappia l’inglese o almeno sia bravo a fare finta di capire la hostess quando viene a verificare se riesce a comunicare con te in inglese (un tizio seduto dall’altro lato dell’aereo non è stato abbastanza scaltro ed è stato abbastanza penoso vedere la hostess che non riusciva nemmeno a fargli capire che doveva spostarsi) (la morale è: bambini, state attenti a scuola nelle ore di inglese, se volete stare comodi in aereo).
L’amara sorpresa, invece, è che sui voli continentali Finn Air, anche se in orari di pranzo, non ti danno da mangiare. Ma nemmeno la scelta tra stuzzichino dolce o salato che ti concede(va?) Alitalia. Niente. Succo di mirtillo, acqua, caffè o te. Tutto il resto si paga con moneta suonante.
Passiamo il volo a leggere o sonnecchiare, fino all’arrivo a Helsinki. Qui ci aspetta la coincidenza con il volo per la nostra prima tappa: Rovaniemi (volo durante il quale capitoliamo e compriamo un pacchetto di Wasa farciti al formaggio – due – per due sanguinosissimi euro). Continua a leggere

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