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Who will save rock and roll? – I Dictators, il rock and roll e tutto quanto – 2

TheDictators

Continua e finisce la breve storia a punti dei Dictators.

10. Nonostante sia un disco oggettivamente parecchio bello, Blood Brothers fa fiasco come i suoi predecessori. E a questo punto la band va di nuovo in frantumi. Negli anni ’80 Ross the Boss fonda i Manowar, Top Ten i Del-Lords.

11. La reunion arriva in due parti. Nel 1990 esce, a nome Manitoba’s Wild Kingdom, il disco … and you?, in cui suonano Manitoba, Shernoff, Ross the Boss e il nuovo batterista “Thunderbolt” Patterson. Il singolo “The party starts now” finisce in heavy rotation su Mtv e un frammento pure nella colonna sonora di Un poliziotto alle elementari.

Il disco è più metalloso dello standard dei Dictators, con alcuni pezzi che sono in effetti puro metal; esce giusto in tempo per farsi poi spazzare via dal grunge un anno dopo e finire nel dimenticatoio. E’ comunque un discone pure lui. 25 minuti.

12. “Manitoba”, per inciso, è nel campo musicale un marchio registrato da Handsome Dick Manitoba. Infatti, il tizio che si fa chiamare Caribou in origine si faceva chiamare Manitoba, ma ha dovuto cambiare per una causa intentatagli da nostro.

13. Per avere un nuovo disco dei “veri” Dictators bisogna aspettare il 2001, quando esce Dictators Forever, Forever Dictators (DFFD per gli amici), che mostra un gruppo incredibilmente lucido e affilato, alle prese con un punk rock maturo e divertente al tempo stesso. Io ho lasciato il cuore su “Avenue A”, cantata da Shernoff, che racconta il quartiere di St. Mark’s Place e quello che è cambiato lì negli anni:

14. Benché DFFD non sia un successo irresistibile, serve almeno a fare tornare i Dictators in pista, che da allora inanellano uscite dal vivo e tour in Europa. Ovviamente non tutto va benissimo e attorno al 2010/11 Shernoff parlando del gruppo (in pausa, ma Manitoba, Ross e Patterson suonano in giro con il nome “Manitoba”) si lascia scappare qualcosa sul fatto che Manitoba comunque non è un vero cantante e che tutti i pezzi li ha sempre scritti lui e questa cosa non sarebbe mai stata riconosciuta. Segue un certo scambio di vaffanculi via web, al termine del quale le due parti sembrano trovare una qualche forma di accordo e il gruppo di Manitoba può fregiarsi del nome “The Dictators NYC”, che è un po’ quelle soluzioni tipo “La leggenda dei New Trolls”. Ma l’importante è che in qualche modo i ‘taters siano ancora in giro.

15. Un po’ di robe sparse.
– Una volta i Dictators si fecero cacciare dal tour dei KISS perché Manitoba imitò uno dei discorsi di Paul Stanley al pubblico sul palco.

– Attorno al 1977, i roadies dei Foreigner, con cui i Dictators erano in tour, rovesciarono una rete piena di patate sul palco mentre suonavano. Lo scherzone nasce dal fatto che il nomignolo della band, ‘taters, significa appunto “patate”.

– Su un numero della rivista Punk! uscì un fotoromanzo con Lester Bangs e Manitoba impegnati in uno scontro all’ultimo sangue. Il modo migliore per leggerlo è prendersi una copia di Punk: the Best of Punk Magazine, che contiene una quantità incredibile di cose bellissime.

– Una volta a New York nel 1977 gli AC/DC aprirono per i Dictators, al Palladium. Poi già che c’erano andarono a suonare al CBGB’s.

– Le cover registrate dai Dictators sono: California Sun (The Riviera’s), I got you babe (Sonny and Cher), Search and Destroy (The Stooges), Slow Death (Flamin’ Groovies), The Moon Upstairs (Moot the Hoople), Interstellar Overdrive (Pink Floyd), What Goes On (The Velvet Underground), I Just Wanna Have Something to Do (The Ramones).

– Handsome Dick Manitoba non è uno a cui piaccia starsene con le mani in mano. Negli anni ’80 ha fatto il tassista, oggi conduce un programma radiofonico su un canale diretto da Little Steven (un altro insospettabile fan dei Dictators), ma è stato pure per un certo tempo il cantante dei riformati MC5.

Già che c’è, gestisce pure un bar sull’Avenue B a Manhattan, il Manitoba’s.

– I Dictators sono stati uno degli ultimi gruppi a suonare al CBGB’s, due sere prima della chiusura (prima che diventasse una boutique di Varvatos). Per Manitoba tecnicamente sarebbero stati l’ultimo gruppo rock, perché l’ultima sera si esibì Patti Smith, che però considera “robaccia hippie” o giù di lì. Abbiamo un video.

– A proposito di CBGB’s, ecco i Manitoba’s Wild Kingdom con Joey Ramone nel 1991. I Ramones incisero California Sun probabilmente ispirati dalla cover che ne fecero i Dictators nel primo disco.

16. Le date italiane dei Dictators NYC sono:
– 29 luglio Bologna, Bolognetti Rocks
– 30 luglio La Spezia, Spazio Boss
– 31 luglio Brescia, Area Sonica
– 2 agosto Seregno, Tambourine

 

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The next big thing – I Dictators, il rock and roll e tutto quanto – 1

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I Dictators sono uno dei segreti meglio custoditi del rock and roll. E incidentalmente uno dei miei gruppi di sempre, amati di un amore che non avrei mai creduto di potere provare per un gruppo scoperto ormai lontano dall’adolescenza. Ne ho parlato un paio di volte, qui e nel resoconto del viaggio a New York.
Ma siccome i Dictators (o meglio i Dictators NYC, formula dietro alla quale si nascondono alcune menate tra i membri fondatori e il fatto che della formazione originale sopravvivono solo due membri) sono appena sbarcati in Europa per un tour che toccherà anche l’Italia per ben quattro date, mi sembra giusto condividere questo segreto con il mondo (inteso come: quelli che curiosamente hanno ancora questo blog nel feed reader).

Dalla Rolling Stones Record Guide del 1982. D.M. è Dave Marsh, cofondatore di Creem e una delle 120.000 persone che si contendono il titolo di "prima persona ad avere usato il termine PUNK parlando di musica"

Dalla Rolling Stones Record Guide del 1982. D.M. è Dave Marsh, cofondatore di Creem e una delle 120.000 persone che si contendono il titolo di “prima persona ad avere usato il termine PUNK parlando di musica”

1. I Dictators sono stati fondati attorno al 1973 da Andy Shernoff, bassista e cantante, che a 16 anni aveva fondato la fanzine Teenage Wasteland Gazette, per la quale scrisse qualcosa anche Lester Bangs.

2. Il loro primo disco è del 1973, si intitola The Dictators Go Girl Crazy ed è stato prodotto da Murray Krugman e Sandy Pearlman, che all’epoca gestivano anche i Blue Öyster Cult. Non fu propriamente un successo commerciale, però ispirò due ventenni di nome John Holmstrom e Legs McNeil a fondare una fanzine sperando di potere un giorno intervistare la band. Quella rivista si chiamava “PUNK!”, forse ne avete sentito parlare. Per sfiga, quando i due chiamarono la Epic per chiedere un’intervista al gruppo si sentirono dire che il gruppo si era sciolto e tanti saluti.
Toh, ascoltatelo tutto, tanto è breve:

3. Un paio di canzoni del primo disco sono cantante da “Handsome Dick Manitoba”, al secolo Richard Bloom, amico di Shernoff e roadie tuttofare della band. Narrano le cronache come roadie Manitoba fosse un disastro, in qualsiasi mansione (dalla guida alla cucina); in compenso una sera del 1974 salì sul palco (per la prima volta in vita sua) per cantare Wild Thing. Doveva essere una specie di scherzo, ma il pubblico impazzì letteralmente, non tanto perché Manitoba sia un grande cantante (anzi), ma per il carisma promanato a profusione. Da lì, è diventato la “secret weapon del gruppo” e quando Pearlman e Krugman hanno messo sotto contratto il gruppo hanno preteso che diventasse un membro ufficiale.

4. Tra le altre bizzarre decisioni di Pearlman ci fu anche quella di cambiare il cognome di Ross da Friedman a Funicello, perché l’idea dell’italo-americana tirava di più. Il cognome gli resterà appiccicato almeno fino ai primi dischi dei Manowar.

5. L’ultimo concerto prima dello scioglimento temporaneo nel 1975 fu a una roba che si chiamava Miss All Bare America. Abbiamo una foto dell’edizione del 1977 (mandate a letto i bambini):

Foto di Roberta Bayley

Foto di Roberta Bayley

Edizione del 1975

Edizione del 1975

6. Si riformano all’inizio del 1976. Shernoff si fa un po’ da parte e si presenta come bassista Mark “The Animal” Mendoza. Ha una testa di capelli afro da fare paura e suona come un mastro ferraio. Probabilmente le due cose non sono collegate, ma qualche settimana dopo il palazzo in cui provano crolla mentre loro non ci sono.

7. Manitoba è il protagonista di uno degli eventi più citati nei libri sugli anni punk di New York: “The Wayne County Incident”. Wayne County era all’epoca un cantante transessuale e si stava esibendo con il suo gruppo al CBGB’s. Ubriaco, Manitoba si mette a insultarlo. Questo è il punto su cui tutti i testimoni concordano, perché poi le interpretazioni divergono: per alcuni era un attacco omofobo in piena regola, per altri aveva sempre fatto parte del gioco. Fatto sta che a un certo punto Manitoba mette un piede sul palco. Il CBGB’s era un buco, pare che per andare in bagno fosse una strada obbligata. Oppure voleva menarlo? Anche qui i resoconti divergono. Quello su cui tutti concordano è l’epilogo: Wayne County urla una roba tipo “CICCIONEDDIMMERDAHAIROTTOILCAZZO” e schianta l’asta del microfono addosso a Manitoba. La scena pare sia stata molto buffa, perché i due protagonisti sono questi:

Handsome Dick Manitoba (a sinistra, l'altro è Muddy Waters)

Handsome Dick Manitoba (a destra, l’altro è Muddy Waters)

Wayne County

Wayne County

Manitoba crolla a terra in un bagno di sangue. Il colpo gli ha sfasciato la clavicola.
Succede ovviamente un casino. I Dictators sono ostracizzati più o meno da chiunque, tanto che la rivista PUNK! si sente in dovere di fare qualcosa per il suo gruppo ispiratore. Per prima cosa, chiede un articolo a Lester Bangs. Bangs, che sta per trasferirsi a New York, manda una sbrodolata allucinante sulla “Mafia gay di New York”, poi rinsavisce e chiede che non venga pubblicato. Il pezzo si trova online e non è tra le cose migliori di Bangs. Tempo fa provai a tradurlo, ma è un inferno:

Ma questa non è una novità. Queste stronzate sono vecchie come Brian Epstein. Più vecchio. Se volessi tirartela davvero da artista e vantarti della tua erudizione potresti risalire a tutta la documentazione sul fatto che Nijinsky dovette lasciarsi fottere nel culo da Diaghilev per diventare “un successo”. È come tutte quelle stronzate che hai letto su Hollywood, le attricette e il divano per i provini, ed è tutto VERO, a parte che sono e sono stati i bei ragazzi quelli che qualcuno si vuole succhiare. Mi ricordo nel ’66, sto vedendo qualcosa su Warhol e i Velvet sulla tv pubblica, sono lì a fumare erba con mio nipote mentre guardiamo i Velvet al Dom che suonano un’ininterrotta jam “orientale” con Cale che incombe sulla sua viola accordata aperta e Lou Reed che strimpella davanti a una muraglia di amplificatori e poi c’è uno stacco sul pubblico che è tutto pieno di questi scenaioli warholiani che ballano come coglioni su questo bordone senza muovere gomiti e ginocchia, in una catatonia metamfetaminica, e con tutta l’ingenuità del 1966 guardo mio nipote e gli dico “cioè, mi domando come potresti mai entrare a fare parte di un gruppo di gente del genere”.

Okay, non ce l’ho con il fare i pompini e non ce l’ho con gli omosessuali. Una persona etero non può permettersi di fare nulla di neanche lontanamente vicino a una cosa del genere in questo momento storico, perché come per i neri la memoria delle terribili oppressioni è ancora troppo fresca – a dire il vero là fuori dove la maggior parte degli americani vive sono ancora cosa di tutti i giorni, il che vuol dire che mi scuso se suona paternalistico ma mi sento dispiaciuto per chiunque debba vivere tra completi rincoglioniti che ammiccano a loro con occhi che luccicano di gioia sadica solo perché capita che siano un po’ diversi in un modo o nel’altro. Ci sono delle sofferenze dietro all’essere alla moda, dietro alle stronzate S&M/D&D effeminate che qualunque sadico o masochista degno di questo nome dovrebbe odiare almeno quanto le odia l’autore di questo pezzo, dolori che hanno a che fare con sorrisetti alle spalle e individui chiaramente incompleti, coglioni repressi che ti vogliono fare mangiare merda perché ami o ami fare l’amore con persone del tuo stesso sesso o hai altre propensioni che non rientrano nelle strette maglie del loro eterno terrore…

Comunque l’altra cosa che fanno quelli di Punk! è organizzare ai Dictators un concerto, in un locale nuovo e fuori dal giro, che attira un sacco di gente incuriosita e che vuole vedere questi tizi di cui ha tanto sentito parlare.

8. Il secondo disco si chiama Manifest Destiny. Shernoff ci suona le tastiere. È il disco meno riuscito del gruppo, anche se contiene almeno due perle.
Una è Young, fast, scientific, che contiene il verso “rock and roll made a man out of me” che è talmente enorme che i KEAP hanno dovuto scrivere una canzone con quel titolo.

L’altra è la cover di Search and destroy degli Stooges che, beh, fate un po’ voi.

Neanche questo disco va bene e nel 1978 Mendoza se ne va, per finire poi nei Twisted Sisters. Shernoff torna a fare il bassista a tempo pieno e scrive le canzoni per un nuovo disco.

9. Bloodbrothers è il titolo del terzo disco, il primo in cui Manitoba canta TUTTE LE CANZONI. Il fatto che non sia un cantante è opzionale. Non ci fai quasi nemmeno caso.
Il disco è famoso per un featuring misconosciuto, quello di Bruce Springsteen.
New York in quegli anni era un posto dove succedevano un sacco di cose, musicalmente, e Springsteen era uno con le orecchie lunghe e frequentazioni variegate (come dovreste sapere, visto che scrisse Because the night per Patti Smith e Hungry Heart per i Ramones, salvo poi tenersela per sé) (se volete approfondire la NYC musicale di quegli anni, c’è un buon libro da poco pubblicato in Italia da Codice Edizioni: New York 1973-1978. Cinque anni che hanno rivoluzionato la musica). Fatto sta che Springsteen è nello studio di fianco che registra Darkness on the edge of town, in una pausa si affaccia e chiede se gli fanno fare qualcosa, nello specifico urlare ONE! TWO! ONE TWO THREE FOUR! alla fine dell’assolo di Faster and Louder.
Altri due pezzoni sono Stay with me, pezzo “alla Ramones”, e Baby Let’s Twist, che ebbe un minimo di vita radiofonica, una specie di Louie Louie in minore

(continua)

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Well NYC really has it all (persino un ebook, ora)

Una veloce comunicazione di servizio: i post sul viaggio a New York del 2011 sono diventati, grazie al lavoro barabbista del Many (che non ringrazierò mai abbastanza), un ebook, scaricabile liberamente in epub e mobi.
Per l’occasione ho dato una rispolverata ai testi e corretto qualche erroruccio (un lavoro che prima o poi dovrei fare anche per i post sul blog). Ovviamente tutti gli errori rimasti sono responsabilità mia.
In appendice trovate anche le “cartoline” da New York di Sir Squonk, che non avevo mai letto e che in un paio di punti almeno presentano uno sguardo molto simile su alcune parti della città. C’è anche un’introduzione, che trovate qui.

In caso, buona lettura.

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Well NYC really has it all (10 di 10)

È giunto il momento di chiudere.

Sono andato a New York solo per comprare quella maglietta (nemmeno poi così somigliante), ora posso dirlo

Nel 1880 il signor Edward Clark, proprietario della fabbriche di macchine da cucine Singer commissionò allo studio dell’architetto Hardenbergh il progetto di un palazzo residenziale da costruire nell’Upper West Side dell’isola di Manhattan, all’epoca talmente poco popolato e distante dal centro della città che secondo una fortunata leggenda urbana tutti iniziarono a chiamare il futuro edificio “Dakota” perché era come se si trovasse nell’omonimo territorio indiano. In realtà la diceria pare risalire agli anni trenta del XX secolo. Semplicemente, al signor Clark piacevano i nomi indiani, almeno tanto quanto al signor Hardenbergh piaceva un’architettura di sapore tedesco e dall’aspetto vagamente inquietante.
All’epoca della sua costruzione, visto dal laghetto ghiacciato di Central Park, il Dakota si presentava così:

Tipo la dimora del vampiro. Continua a leggere

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Well NYC really has it all (9 di 10)

Avete mai sentito parlare di Strand?
Strand è una libreria vicino a Union Square il cui claim è “18 miglia di libri”. Nel senso che hanno calcolato che le loro scaffalature si estendono per quella lunghezza, cioè circa 30 km. Come se non fosse abbastanza, tengono dei banchetti all’esterno con libri vecchi a 1 o 2 dollari l’uno.
Lo so che vi aspettate che dica che è il paradiso. Ma come sono entrato mi si è congestionato il naso e ho iniziato a lacrimare. Allergia a qualcosa? Raffreddore istantaneo e temporaneo? Non lo so. So solo che ho iniziato a starnutire. E io quando starnutisco, starnutisco. La mia onomatopea è qualcosa del tipo ATCHUM (Impact, extrabold, 72pt). Dico solo che una signora mi ha guardato e mi ha detto “God bless you”, che è la formula con cui gli americani dicono “salute”; solo che l’ha detto con un tono che secondo me voleva proprio dire “che dio ti benedica che ne hai tanto tanto bisogno”. Questo per dire che, ecco, la mia user experience è stata un po’ guastata dal fatto che stavo facendo attenzione a non morire. Però mi è piaciuto molto che c’erano tanti tavoli su cui erano disposti libri organizzati per percorsi tematici e che c’erano parecchi libri (remainders, direi) a basso prezzo. In realtà la cosa delle 18 miglia se guardi bene è un po’ un pacco, nel senso che tantissimi libri sono assolutamente irraggiungibili da chiunque perché sono tanto in alto e comunque c’è un sacco di fuffa che vegeta sugli scaffali da chissà quando. Ora che ci penso, sarei curioso di vedere come fanno a fare l’inventario, in quell’inferno di carta. Continua a leggere

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Well NYC really has it all (8 di 10)

Il bello di dilazionare così tanto i resoconti delle vacanze è che in fondo è un po’ come prolungare la vacanza: guardi le foto, gli appunti, torni almeno per un po’ a quei giorni in cui la tua preoccupazione massima è non confondere le linee locali con quelle espresso e trovare un buon posto dove mangiare la sera.
Il brutto è che più ti avvicini alla fine più diventa faticoso scrivere perché la malinconia per la fine della vacanza si raddoppia: a quella provata allora devi sommare anche quella che stai rivivendo.
Comunque. Bando alle ciance.

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Well NYC really has it all (6 di 10)

Eravamo rimasti a Bowling Green.
Appena attraversata la strada, proprio sulla punta meridionale di Manhattan si trova il Battery Park, detto anche il parco della sfiga, visto che pullula di memoriali a categorie di gente morta.
Appena entrati, però, c’è un bel monumento ai coloni olandesi che fondarono la colonia di Manhattan, gentilmente offerto dalla stessa Olanda. Un bassorilievo raffigura il momento in cui Peter Minuit acquista la proprietà dell’isola dagli indiani.
Fun fact: Manhattan, oltre a essere ricoperta di boschi, era collinosa. Nella lingua dei Lenape, gli indiani che la abitavano, Manhattan voleva dire “isola con un casino di colline ma proprio un casino che non ne hai idea”. Con il piano regolatore del 1811 si decise che era più pratico avere una tavola pianeggiante su cui stendere il reticolo delle vie. Così, la parte più antica di Manhattan ha vie irregolari, poi dalla 1st street in su è tutto ortogonale, con la sola eccezione di Broadway Avenue che va in diagonale (e in parte ricalca l’antico sentiero indiano che attraversava l’isola, ma solo in parte).
Battery Park si chiama così perché qui si trovavano le batterie di cannoni preposte alla difesa della città nei suoi primi anni di vita. Oggi c’è ancora un forte, Fort Clinton, che in passato è stato usato come centro di raccolta per immigrati, prima di Ellis Island (c’è un memoriale anche per gli immigrati passati da Fort Clinton).
Ma la cosa che più colpisce è la sfera che si trova oggi nel parco ma che in origine era al centro della piazza del World Trade Center. Estratta dalle macerie, oggi si presenta così:

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Well NYC really has it all (5 di 10)

Gli autobus a Manhattan sono una cosa parecchio semplice: la maggior parte delle linee fa avanti e indietro lungo una street o una avenue, coprendo zone non toccate dalla metropolitana.
Così, per esempio, il 42 si fa la 42nd street da una parte all’altra, dal palazzo dell’ONU a est fino al molo 83 a ovest. Ed è proprio in direzione ovest che una bella, calda, mattina prendiamo il 42 a Times Square: il programma della giornata si apre infatti con un (mezzo) giro su un battello della Circle Line, compagnia di navigazione che offre giri attorno all’isola di Manhattan. È un’attrazione abbastanza storica, tanto che c’ero stato pure nel lontano 1982. Terrorizzati dall’idea di fare tardi, arriviamo con una fantozziana ora di anticipo e visto che la sera precedente eravamo svenuti appena toccato il letto decidiamo di andare a svaccarci nel parchetto sul molo di fianco.
Al molo di fianco ancora c’è ormeggiata una portaerei, che ho scoperto poi essere l’Intrepid, adibita a museo sui mezzi a disposizione dell’aviazione americana. Sapete cosa risveglia il bambino reaganiano che dormiva in me?
Questo, di cui avevo la versione dei G.I. Joe, uno dei più bei regali di natale di tutti i tempi:

HIGHWAY TO THE DANGER ZONE!

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Well NYC really has it all (4 di 10)

Spero che nessuno si aspetti da me una descrizione approfondita del MoMA, il Museum of Modern Art.
Per darvi un’idea, da una sala a caso dell’ultimo piano, il MoMa è questa cosa qui:

C’è talmente tanta di quella roba famosa che l’effetto è quello di camminare dentro le pagine del tuo libro di storia dell’arte dell’ultimo anno di superiori. Continua a leggere

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Well NYC really has it all (3 di 10)

She's been living in her uptown world

E così domenica mattina ci alziamo ed è il nostro primo giorno tutto intero da trascorrere a New York.
Superato agevolmente l’ostacolo “colazione” grazie al negozio sotto l’albergo che fa bagel, pancakes, waffle e quant’altro (in realtà “agevolmente” un paio di palle: per l’intera settimana ho avuto pesantissimi problemi di comunicazione con l’intero personale, la ragazza alla cassa in primis, culminati nell’aver rischiato la morte quella volta che stavo portandomi via il bicchierozzo di caffè di un altro cliente; però era un posto così comodo che ci siamo andati tutte le mattine) c’è da superare quello, apparentemente più ostico, della metropolitana. La Lonely Planet fa abbastanza terrorismo in proposito, spiegando che spesso gli stessi abitanti del luogo si sbagliano e prendono la linea espresso invece di quella locale, saltando la fermata a cui dovevano scendere; infatti, su ogni linea della metropolitana circolano due diversi tipi di treno, quelli locali che fermano in tutte e le fermate e quelli espresso che fanno solo alcune stazioni (indicate sulle cartine da un pallino bianco).
Però il primo impatto è decisamente user-friendly: a fare l’abbonamento settimanale, la Metrocard di cui sopra, ci vuole davvero un attimo: ci sono macchinette ovunque e, per dirla con Steve Jobs, they just work. La prima cosa che devi sapere quando prendi la metro è se devi andare verso nord o verso sud, ovvero uptown e downtown (la questione di uptown/downtown è sempre stata una delle bestie nere dei traduttori dall’americano; ci sono vecchi gialli in cui New York sembra Bergamo, divisa tra la “città alta” e la “città bassa”). Alcune stazioni della metropolitana hanno ingressi separata a seconda della direzione in cui devi andare. Una coppia di turisti italiani di cui non faremo il nome ha canticchiato per una settimana “uptown girl” tutte le volte che le è capitato di prendere la metropolitana uptown. La seconda cosa da sapere, se sali a una stazione in cui passano anche i treni espresso, è se alla tua stazione di destinazione fermano anche i treni espresso. La terza cosa da sapere è che durante il finesettimana la rete metropolitana viene gestita con le regole del Calvinball. Ma ci torniamo.

I confini tra finzione e realtà svaniscono

La prima tappa è Times Square, per trovare uno sportello dove cambiare gli euro che ci siamo portati dall’Italia (il giorno prima siamo andati avanti a colpi di bancomat; qui i bancomat si trovano spesso dentro ai negozi e, suppongo, la quota di 2$ a transazione che ti ciucciano è il guadagno del negozio ospitante). Times Square, nella domenica che precede il Memorial Day, la festa nazionale celebrata l’ultimo lunedì di maggio in cui si celebrano i soldati morti in guerra, si presenta con il suo vero volto: l’Inferno. Una bolgia infernale di luci, gente, luci, gente, tabelloni luminosi animati, headlines che scorrono alla velocità della luce, fumo misterioso che esce dalle viscere della città incanalato in camini bianchi e rossi, gente, luci, rumore, trappole per turisti a ogni passo. Cerchiamo il cambiavalute, non lo troviamo, chiediamo a due poliziotti scoglionatissimi, io esordisco con “excuse me officier”, uno dei due ha un gigantesco tatuaggio della Madonna con Gesù bambino sull’avambraccio. Alla fine ci indicano da che parte andare, arriviamo a cambiare i nostri soldi e ci rifugiamo di corsa nel ventre accogliente della metropolitana.
Lo sapevate? Le banconote americane sono stampate su tessuto, per l’esattezza 75% cotone e 25% lino. L’incremento del costo del cotone sta rendendo le banconote da 1$ troppo costose da stampare e prima o poi potrebbero venire soppiantate dalle monete (che già esistono ma sono abbastanza rare). Dal 2003 gli Stati Uniti hanno iniziato a differenziare le banconote per colore – altrimenti tutte le banconote hanno le stesse dimensioni e lo stesso colore, indipendentemente dal valore; con le monete è ancora peggio, perché la monetina da 10 cent, il decino di Paperone, per intenderci, è più piccola di quella da un centesimo.
Sempre per la serie “sapevatelo”, le stazioni della metropolitana, almeno quelle in cui sono stato io, sono fottutamente calde e umide. A dire il vero, per quattro giorni tutta New York è stata fottutamente calda e umida; ma anche quando la città ha smesso di sembrare una giungla vietnamita le stazioni sono rimaste l’equivalente di due topi che scopano in un calzino di lana (Joe R. Lansdale, come faremmo senza il tuo sguardo sul mondo?).
Comunque, sopravvissuti all’ordalia, sbuchiamo finalmente ad Harlem. Che come primo posto da cui iniziare a vedere New York immagino possa sembrare un po’ inusuale, però in questo modo si può andare a vedere una messa gospel.
Prima, però, facciamo due passi in un parco costruito sopra a un depuratore (un po’ come a Quinto), da cui si gode di una piacevole vista sul New Jersey, il Riverbank State Park.

Sullo sfondo il New Jersey, in primo piano giovani harlemiani e i loro sederi.

Harlem non è più da parecchio tempo il quartiere pericolosissimo e off-limits che era una volta. Ha avuto la sua bella gentrificazione e oggi è un posto dove passeggiare, caldo vietnamita a parte, è piacevole. L’archiettettura di molte vie è quella di case di pochi piani con mattoni a vista, una di fianco all’altra. Harlem deve il suo nome alla cittadina olandese di Haarlem ed nasce nel 1658 come insediamento orange nella parte nord di Manhattan. Ma, miei adorati olandesi a parte, il motivo per cui siamo qui è vedere una messa gospel. La Lonely Planet sull’argomento è un po’ evasiva: cita una chiesa in cui si fanno delle messe spettacolari ma dice che tanto tutti i turisti vanno lì quindi è sempre un casino e allora tanto vale infilarsi nella prima che si incontra che comunque non si rimane delusi. Possiamo forse opporci al volere della Santa?
No. E allora ci rivolgiamo alla Convent Avenue Baptist Church, proprio sulla strada che stiamo percorrendo. La messa, che dura due ore, è già iniziata, ma sono attrezzatissimi per accogliere i visitatori curiosi e un tizio enorme con delle treccine lunghissime e le mani come badili ci invita ad accomodarci sulla balconata, dove si trovano già un buon numero di curiosi dotati di guide turistiche. Dentro non si possono fare foto, quindi ci mettiamo buoni buoni a goderci lo spettacolo. Che è più o meno esattamente come te lo immagini: c’è gente che urla “yeah!” e “halleluhia!” durante le prediche o in certi momenti di canto particolarmente intensi, ci sono le donne dell’alta borghesia nera in meravigliosi abiti che neanche la zia di Willie e i loro mariti elegantissimi. Poi c’è anche quello che non ti aspetti, tipo che a un certo punto tre giovani parrocchiane mettono in scena un balletto su una base registrata che sulle prime ti fa un po’ l’effetto di saggio di fine anno della scuola. Poi vedi che una delle cantanti del coro nella balconata di fronte è esaltatissima da questa cosa e inizia a saltare come una matta, che tutti sono contenti e ti rendi conto che, in fondo, ma neanche tanto in fondo, questa gente ha un modo di vivere il suo rapporto con la propria fede molto più sano e spontaneo. Vuoi lodare il Signore cantando? Fallo. Vuoi farlo ballando? Fallo. Il pastore dice una roba figa? Urlagli “bella lì, fratello”. Insomma, questi passano due ore a tessere le lodi del Signore e sembrano parecchio contenti di farlo e di farlo tutti insieme.
Poi, vabbeh, io sono totalmente rapito da quei piccoli tocchi protestanti tipo le copie della Bibbia sparse ovunque (così vai a controllare quello che dice il pastore) e, soprattutto, dal fatto che lette con l’accento afroamericano le citazioni del Vangelo fanno tanto Pulp Fiction e ti aspetti che da un istante all’altro il pastore spari sulla folla con la pistola in orizzontale.
Comunque usciamo dopo un’oretta, soddisfatti di quello che abbiamo visto e sentito. Fateci caso: dai cori gospel delle chiese sono decenni che escono cantanti spaventose. Il Concilio Vaticano II al massimo ha generato cretini che suonano la chitarra classica con le corde di metallo (“sì ma le messe cantate di Vantellino da Pusurpino per la cattedrale di Sbrillona del 1632…” ecco: 1632, appunto).
Ci infiliamo a mangiare in un Applebee, catena di ristoranti che ci offre il wifi gratis, permettendomi così di scaricare controllare cosa fa l’internet in mia assenza per la prima volta da quando abbiamo lasciato Roma. Credo sia stato il mio più lungo periodo senza connessione da quando ho un iPhone. Sul menu, sommo terrore, sono indicate la calorie di ogni piatto; il numero più frequente si aggira sul migliaio. Ce la caviamo con chips, condite con una salsina al formaggio che fa subito amicizia con le tue arterie e una bistecchina di un tenero, ma di un tenero, ma di un tenero che faccio finta di dimenticare tutto quello che ho letto in Ecocidio di Rifkin sull’industria alimentare della carne e mi godo lo spettacolo. Una cosa a cui scopro di non essere ancora abituato è la disponibilità di chi ti serve a tavola. In America i camerieri sono pagati dal datore di lavoro con un minimo sindacale e portano a casa la pagnotta grazie alle mance lasciate dal cliente. La buona creanza impone di lasciare dal 15 al 20% del totale al netto delle tasse – sempre indicate a parte, dell’8 e qualcosa per cento – e una regola rapida è quella di lasciare giù il doppio della cifra indicata come tasse (ricorderete la puntata di Friends in cui Ross si vergogna perché il padre di Rachel lascia solo il 4% di mancia a un cameriere). Il risultato di questo meccanismo è che chi serve ai tavoli deve pensare di stare lavorando non tanto per il datore di lavoro (che in pratica è come se gli desse un posto per esercitare il suo lavoro) ma per il cliente. Di conseguenza la cordialità e la disponibilità (almeno nelle persone che ho trovato io) è incomparabile con la media dei loro colleghi italiani. C’è chi si presenta, chi ti chiede come va prima di ordinare, chi passa ogni cinque minuti a riempirti il bicchiere d’acqua… Quando ho fatto notare alla cameriera che mi avevano portato una birra light (nel senso di “con meno calorie” WTF) invece di quella che avevo chiesto, venti secondi dopo avevo sul tavolo la bottiglia giusta e neanche un mugugno. È sempre un po’ menoso stare lì a pensare a quanto ti costerà davvero un pranzo, sommando ai prezzi sul listino tasse e mancia, però i vantaggi tutto sommato superano la rottura di scatole.
Mentre gironzoliamo per le vie di Harlem guida alla mano, mi domando quanto dovesse sembrare più aliena una volta agli occhi di un italiano questa porzione di città. Oggi siamo abituati a vedere persone di colore in giro, ma un tempo doveva sembrare davvero un mondo strano ed esotico. Poco lontano dallo storico Apollo Theatre, c’è appesa questa bandiera:

Afro-American Flag

È opera dell’artista David Hammons e riproduce la bandiera degli USA con lo schema di colori della bandiera pan-africana. Un bel promemoria sulle origini della presenza dei neri in America, a New York soprattutto. Nieuw Amsterdam prima e New York poi hanno fatto grandissimo uso di schiavi e la compagnia olandese delle indie occidentali (che fondò l’insediamento) era una delle principali organizzazioni nella tratta degli schiavi dall’Africa. Nel XVII e nel XVIII secolo il commercio degli schiavi era uno dei pilastri della fortuna economica della città.
Oggi si trova una traccia di questo a Lower Manhattan, dove vent’anni nel corso di scavi vicino a Elk Street è stato riportato alla luce un cimitero in cui si seppellivano gli schiavi. Secondo le stime nel corso dei due secoli sarebbero state seppellite lì sotto oltre 15.000 persone. Oggi sul posto è stato eretto un memoriale, noto come Africal Burial Ground, che cerca di rendere omaggio a queste persone e alla loro storia. Fa impressione leggere sul pavimento del memoriale il contenuto delle bare portare alla luce, uomini, donne, bambini tutti senza nome, senza identità. E fa sorridere (in un certo modo strano) leggere che per legge ai funerali degli schiavi non potevano partecipare più di un numero molto ristretto di persone, mi pare sette.
I neri americani di oggi sono discendenti di schiavi e i più anziani di loro non hanno potuto sedersi sugli autobus insieme ai bianchi per buona parte della loro gioventù. È difficile riuscire a immaginare come una società possa continuare a reggere con una simile frattura al suo interno. Eppure, in qualche modo, lo fa (c’è da notare che tutte le volte che siamo incappati in qualche scolaresca era sempre tendenzialmente mono-etnica: bianchi, latinos, neri; e se faccio mente locale di coppie miste ne ricordo pochissime, o forse non ne ricordo affatto).
Esaurito il giro da quella parte di Harlem, abbiamo in mente un giro abbastanza intricato di metropolitana per arrivare a East Harlem. Ma incappiamo nel grande Calvinball del weekend. Funziona così: sabato e domenica il Joker (o Trenitalia) diventa direttore della metropolitana. E decide che, per dire, tutte le linee locali dalla 72nd street a chissà dove diventano espresse. O vengono soppresse. O diventano zucche. Il tutto viene annunciato con cartelli affissi unicamente sul binario (al centro della terra) o con annunci che suonano più o meno così “pffzzz ‘ouncem pfzzz Q line pfzzzzz ‘oca’ pzfzzzz ‘zzi vostri”. Così prima prendiamo un treno espresso invece che uno locale e poi, cercando di tornare indietro, ne prendiamo un’altro che era espresso ma era diventato locale perché c’erano sopra più di dieci persone con meno di 12 $ dollari nel portafoglio, che ci riporta al punto di partenza (c’è da dire che questo cambiamento era stato annunciato da un qualche messaggio all’altoparlante, a seguito del quale il vagone si è svuotato. Ma io ho tranquillizzato L. fingendo la stessa sicumera di Fantozzi al ristorante giapponese. Il fatto che non mi abbia mandato a girare per Harlem con un cappuccio del KKK mi lascia ancora adesso basito).
Alla fine, visto che abbiamo perso un sacco di tempo, elaboriamo un piano d’emergenza con visita alla facciata del Dakota Building e alla porzione antistante di Central Park (in cui poi torneremo con più calma) e torniamo in albergo a cambiarci che ci aspetta la seconda serata newyorchese organizzataci da un’amica di L. e suo (futuro) marito.
Facciamo esperienza dei taxi newyorchesi (pratici, relativamente economici, si fermano solo se hanno la sola luce centrale accesa, altrimenti sono fuori servizio. Per fermarsi tagliano la strada a qualsiasi cosa si frapponga tra loro e il marciapiede, non è uno spettacolo per deboli di cuore) e incappiamo nell’unico taxista taciturno, quindi niente aneddoti buffi.
La serata, tanto per stare in tema con Harlem, è dedicata al jazz: concerto al Lincoln Center, nel Dizzy’s Club, che è un posto da cui si gode una vista eccezionale sulla skyline di Manhattan.

Mi domando ogni quanto debbano ripristinare la "A" di jazz cancellando la "I" fatta dai buontemponi

La serata prevede l’esibizione di Ernestine Anderson (voce) e Houston Person (sax), accompagnati da una band di contrabbasso, batteria e piano. Il luogo mi dicono essere una specie di istituzione e il livello della musica è effettivamente bello alto. Inizia la band da sola e mette in mostra un gran bel tiro (il bassista va che è un piacere e suonano belli sciolti e compatti), poi la signora Anderson (83 anni) si fa strada verso il palco sorretta dal gestore del locale e il suo passo infermissimo mi fa temere il peggio. Poi però si siede e tira fuori da non so dove (pesava cinquanta chili con la parrucca) una voce sicura e potente, che se intanto che canta ti distrai e guardi fuori dalla finestra non ti passa nemmeno per l’anticamera del cervello che abbia più di ottant’anni e non una quarantina di meno. Il jazz non è propriamente il mio campo e sono più a mio agio quando il gruppo sta su territori più vicini al blues, però tutto l’insieme, il panorama, il suono, la compagnia, il posto, è squisitamente metropolitano. New York, o meglio una delle tante facce di New York, esattamente come te lo aspetti. Sotto di te sfrecciano veloci i taxi, le luci della città si accendono una per una e tu sei a sentire musica sofisticata in un posto fico. Forse avrei dovuto ordinare un Manhattan, per completare il quadretto (o più probabilmente per svenire sul tavolo per la stanchezza)

(continua)

They are blue, yes indeed

Bonus track: se viaggiate in treno in America e il capotreno vi dice di mettere su la vostra valigia invece che tenerla tra i piedi, anche se non sta dando fastidio agli altri passeggeri, fatelo. Subito. La nostra ospite non l’ha fatto e si è trovata alla stazione dopo due poliziotti che l’hanno fatta scendere dal treno ammanettata in quanto “persona non gradita”, trattenendola un paio d’ora in cella alla stazione di polizia e ora ha un processo penale per questa cosa. Land of the free, home of the brave.

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