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E forse quel che cerco neanche c’è

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Solitamente, si pensa che sia l’Isola di Pasqua il luogo abitato più remoto sulla Terra.
Benché in effetti sia parecchio lontana sia dalla costa cilena sia dalla Polinesia, non le spetta però il primato, che appartiene invece a Tristan da Cunha, isola principale dell’arcipelago omonimo nell’Oceano Atlantico, che dista ben 2.100 chilometri da Sant’Elena, l’isola abitata più vicina. Non c’è una pista per gli aerei, quindi ci si arriva solo con sei giorni di navigazione da Città del Capo (ma non c’è un vero porto).
Questo paradiso di insolazione fu scoperto per caso da un navigatore portoghese, Tristão da Cunha, che però non riuscì neanche a metterci piede per le pessime condizioni del mare (“Tranquilli, alla prossima isola sbarchiamo!”, avrà detto alla ciurma, senza immaginare che c’erano almeno altri 2.000 chilometri e rotti di mare da fare).
Oggi ci abitano circa 250 persone, cittadini britannici d’oltremare, che si dividono tra otto cognomi. Due dei quali italiani. Anzi, per la precisione, liguri di Camogli: Lavarello e Repetto.
Il che ci dimostra come tutte quelle battute sui liguri asociali sono assolutamente false, nel senso che non sono battute, ma pura e semplice cronaca.
I Lavarello e i Repetto di Tristan sono i discendenti di due marinai che arrivarono sull’isola dopo un naufragio nel 1892. La nave su cui viaggiavano aveva preso fuoco in mezzo all’oceano e il comandante era riuscito a farla arrivare fino alle coste dell’isola, con sei giorni di navigazione non proprio agevoli. Sull’isola c’era da tempo un avamposto inglese e i naufraghi furono accolti positivamente. Tanto che appunto Gaetano Lavarello e Andrea Repetto, quando nel gennaio del 1893 arrivò una nave che riportò in patria i loro compagni decisero di restare lì (perdendosi così la nascita del Genoa Football and Cricket Club, proprio quell’anno). A dire il vero, con loro rimase anche un marchigiano, tale Marcianesi, che però dopo quattro anni si fece portare a Città del Capo. Lavarello e Repetto, invece, senza milanesi tra il belino, prosperarono sull’isola e, ci piace immaginare, trasmisero ai loro discendenti tutta la loro visione del mondo. Per esempio, nel 1922 venne installata una stazione radio, che però non entrò mai in funzione perché gli abitanti decisero che l’antenna avrebbe potuto attirare i fulmini. Quando negli anni Sessanta gli abitanti furono evacuati in Inghilterra in seguito a un’eruzione vulcanica e a un terremoto, ruppero il belino fino a che non li riportarono a casa loro.

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I Repetto rimasti in Liguria, invece…

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Carlo Cane è pronto a credere in voi

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Fare l’indagatore dell’incubo può sembrare una buona idea, se non hai un lavoro, il tuo cognome è Cane e il tuo nome inizia con la stessa lettera.
Ma quando Carlo Cane decide di inscenare una messa nera in una chiesa diroccata per attirare l’attenzione della televisione non può immaginare le conseguenze delle sue azioni
Tra vecchi partigiani, un cane, ragazze sboccate, star della seconda serata televisiva, beghine, comunisti, un vescovo (anzi, un arcivescovo), storici dell’arte, vigili urbani, gerarchi nazisti, streghe, bariste, chiese diroccate e parecchi gatti, un racconto sovrannaturale ambientato tra Genova e il suo entroterra, ambientato nello stesso universo narrativo delle Storie dello Spadaccino.

Carlo Cane è pronto a credere in voi.

Quest’anno Dylan Dog ha compiuto trent’anni di vita editoriale, un evento festeggiato, tra l’altro, con il ritorno di Tiziano Sclavi alla scrittura, Dopo un lungo silenzio.
Siccome ho un grosso debito, a più livelli, con l’indagatore dell’incubo di Craven Road, volevo in qualche modo celebrare a mio modo questa ricorrenza. E quale modo migliore se non scrivere una storia che inizia con un coetaneo di Dylan Dog, ma genovese, che decide di darsi anche lui alla carriera di indagatore dell’incubo? Continua a leggere

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Gatto e Libertà. Una storia dello Spadaccino

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Alla fine Gatto e Libertà, la terza avventura dello Spadaccino (di cui forse avete sentito parlare) è uscita.
Si svolge tra il 1546 e il 1547, con una parentesi nel 1540; nella cronologia delle storie pubblicate finora sarebbe la seconda avventura, tra Colei che Canta e L’Isola del Teschio.
È una storia più lunga delle altre, circa il doppio, e contiene alcuni elementi del romanzo storico: ci sono personaggi realmente esistiti tra i suoi personaggi e parte della vicenda è collegata a un fatto piuttosto importante nella storia genovese, la Congiura dei Fieschi. Oltre a questo, c’è ovviamente una componente sovrannaturale e si racconta anche qualcosa sul passato dello Spadaccino.
Se avete letto i miei post di un paio di estati fa sulla Liguria, Terra leggiadra, potreste ritrovare alcune cose familiari.
Ecco intanto un assaggio: l’azione si svolge in Corsica, nel 1540.

I due genovesi furono gli ultimi a uscire dalla taverna.
Il vino aveva sciolto la lingua dello spadaccino e aveva barattato i racconti delle sue avventure nel mondo con i resoconti di quello che era successo a Genova negli ultimi anni. L’uomo con il cappello sembra sapere molte cose della politica cittadina.
La notte estiva era tiepida e profumata, il cielo sgombro di nuvole un tappeto di stelle.
La taverna di Ghjuvan era poco più in alto dell’abitato, sperata da un viottolo che correva tra i campi.
“Anche tu hai una bella spada, ragazzo mio,” disse lo spadaccino. “Deve esserti costata un sacco.”
Quello scrollò le spalle. “Il giusto.”
“Spero che tu la sappia anche usare bene, perché credo che ne avremo bisogno.”
I pisani. Sette di loro erano schierati sulla strada, in un semicerchio. Li aspettavano, armati di coltellacci.
“Avete la lingua lunga, genovesi,” disse uno di loro.
“O forse siete voi che avete le orecchie lunghe,” ribatté l’uomo con il cappello, così svelto che un paio di pisani risero senza pensarci.
“Zitti, idioti!” disse uno di loro, un po’ più sveglio dei compari.
I genovesi sguainarono le spade. L’uomo con il cappello proseguì: “È questo l’amor proprio dei figli della seconda Roma? Vi si dà dei conigli e ridete?”
Lo spadaccino girò lentamente su se stesso: i pisani li stavano accerchiando. Si trovò schiena contro schiena con il compagno. Sfoderò anche il pugnale, che sarebbe stato utile per parare. Il suo compagno fece lo stesso. Pensò che fosse un peccato non avere a disposizione una pistola, poi non ci fu più tempo per pensare.
Gli assalitori avevano il vantaggio del numero, i due genovesi armi più lunghe con cui potevano tenerli a distanza, o almeno provarci. Al primo assalto lo spadaccino rimediò un lungo graffio sul petto, il suo compagno un colpo di striscio alla gamba destra. Ma a due pisani era andata peggio: uno aveva ricevuto un colpo alla mano che gli aveva quasi segato il polso fino all’osso, l’altro, infilzato al basso ventre dallo spadaccino, si contorceva a terra in un lago di sangue. Gridava come un maiale scannato.
“Bastardi,” urlò uno dei pisani prima di guidare un nuovo assalto. L’acciaio danzò di nuovo, levando scintille, strappando vesti e carni, spillando sangue. Lo spadaccino uccise un altro avversario, lo stesso fece il suo compagno. I tre pisani rimasti in piedi, più quello con il polso devastato, si guardarono. I due genovesi sorridevano, sporchi ed ebbri di sangue, mentre loro erano feriti, ubriachi e spaventati.
Al diavolo, si dissero. L’onore di Pisa non valeva le loro vite.
Senza dire una parola, scapparono a gambe levate. Lasciarono lì il loro compagno ferito.
I due genovesi si guardarono. “È spacciato,” disse l’uomo con il cappello. “Può solo morire dissanguato.”
“No!” urlò l’uomo a terra. “Non è vero, aiutatemi, aiutatemi! Posso…”
“Shhh,” disse l’uomo con il cappello. “Come ti chiami, pisano?”
“Rainaldo, signore, Rainaldo di Guastaldo, vi prego, portatemi da un cerusico, vi prego.”
“Chiudi gli occhi Rainaldo. Abbandona la tua anima e muori in pace.”
“No, signore, no, vi prego, vi pre…”
Lo spadaccino distolse lo sguardo quando la lama affondò nella gola di Rainaldo. “Pace all’anima tua, Rainaldo di Guastaldo,” disse il suo compagno.
L’uomo con il cappello pulì la lama con un pezzo di stoffa. “Sai che cosa temo di più? L’agonia. Spero che se mai capiterà a me ci sarà qualcuno a porre fine ai miei tormenti.”
Lo spadaccino annuì. “Combatti bene per essere uno con dei batuffoli di cotone al posto della barba.”
“Attento.” Puntò la lama alla gola dello spadaccino. “Sono molto suscettibile sulla mia barba.”
Lo spadaccino mise via la sua spada e alzò le mani. “Come non detto. Però combatti bene lo stesso.”
“Ho avuto un buon maes… Attento!”
Lo spadaccino si voltò di scatto. Non vide niente. Poi qualcosa di duro cozzò contro la sua nuca. “Ma cosa…?” fece appena in tempo a dire. Poi fu tutto nero.

(volevo dire che comunque ho molti amici pisani)

Con Gatto e Libertà porto finalmente a termine il progetto originario, che era quello di avere tre titoli da pubblicare a breve. Colei che Canta era quasi finito quando pubblicai L’Isola del Teschio, pensavo di riuscire a scrivere un terzo episodio in fretta e invece c’è voluto più tempo del previsto. Ci sono state due false partenze, una poi confluita in questa storia, un’altra da riprendere da capo.

Gatto e Libertà è disponibile sul kindle store al prezzo di 1,50 € (gratis per chi ha sottoscritto il programma Kindle Unlimited)
È necessario avere un Kindle per leggerlo?
No.
L’applicazione Kindle è disponibile per tablet e telefonini Apple, Android, Windows e Blackberry oltre che per computer (ma non per Linux).
Inoltre, il file è privo di DRM e può essere convertito in ePub usando Calibre per poterlo leggere su e-reader che non siano Kindle.

Non posso prevedere quale sarà il prossimo racconto dello Spadaccino. Sto leggendo cose sull’epoca dei Conquistadores e sui monasteri cristiani nel Medio Oriente, tanto per capire che cosa può ispirarmi. L’idea è di tornare all’avventura pura dell’Isola del Teschio, ma non si può mai dire.

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Terra leggiadra. Due giorni in Liguria 4: Toirano

Oltre ventimila anni fa: all’inizio dell’inverno, spinti dall’istinto, orsi delle caverne, creature che popolavano l’Europa, delle dimensioni degli attuali grizzly, si inoltrano nel fondo di una grotta, fino alla stanza meno fredda e umida, dove fanno la loro tana. In primavera, i più deboli tra loro non riescono a rialzarsi. Succederà ogni anno, per innumerevoli anni.

Circa dodicimila anni fa: alcuni uomini (Sapiens, quindi come noi) entrano in una grotta sul fianco di una valle che va verso il mare. Hanno con sé delle torce, avanzano in quell’ambiente ostile tenendosi sempre vicini alla parete sulla loro sinistra, a un certo punto si mettono a gattonare sul terreno fangoso. Arrivano fino a una stanza più ampia, tirano delle palle di argille sul muro.

1950: alcuni ragazzi di Toirano (SV) danno la caccia ai pipistrelli in una grotta poco fuori dal paese. Per caso scoprono un passaggio fino a quel momento rimasto inosservato, si inoltrano nel profondo della montagna e trovano…

Non è l’inizio di un numero di Martin Mystère (anche se probabilmente sarebbe un bel numero di Martin Mystère) ma è la storia dei tre eventi principali che riguardano le Grotte di Toirano, una delle meno note attrazioni turistiche liguri. La storia dovrebbe in realtà partire molto, molto, molto tempo prima, quando l’acqua iniziò a scavare la pietra della montagna e continuò fino a formare un sistema di cavità, ognuna con diverse formazioni geologiche.
Quella che ho raccontato è infatti solo la storia della grotta detta “della Basura”, cioè della strega (ma questa volta Triora non c’entra nulla): le altre tre grotte (Santa Lucia superiore e inferiore, Colombo) non sono mai state visitate dall’uomo preistorico e hanno interesse prevalentemente geologico.

La visita alle grotte di Toirano è una passeggiata sottoterra di un chilometro circa, alla confortevole temperatura di 16 gradi centigradi. Di fronte alle grotte, c’è il fianco di una montagna sfigurato da una cava, ma se aguzzate la vista potrete notare che dalla roccia spuntano dei volti dipinti; sono opera di Mario Nebiolo, un pittore specializzato in pittura acrobatica su grandi superfici.
Si entra nelle grotte dal versante nord, nella grotta della Strega e quasi subito si incontra la stanza che ha dato il nome alla grotta negli anni Cinquanta: il salotto della strega, un piccolo lago sotterraneo in cui si specchiano formazioni rocciose da copertina di disco progressive rock, tutte create dal lento colare dell’acqua calcarea, che una goccia alla volta ha depositato granelli di roccia.
Poco più avanti c’è il cosiddetto corridoio delle impronte, con i segni del passaggio degli esseri umani (e una zampata d’orso) impressi nell’argilla indurita. Poi il laghetto, nelle cui acque vive un piccolo crostaceo, il nifargo, cieco e depigmentato, molto diffuso nelle acque sotterranee. Nell’acqua ci sono alcune monetine (sigh) e la guida deve esplicitamente ricordare di non buttare monete perché il metallo può danneggiare l’habitat del bestiolino (oltre a essere un’usanza idiota) (la realtà è che siamo in Liguria: se la guida, ligure, vede qualcuno che butta dei soldi si tuffa per afferrarli e questo è molto traumatico per il povero nifargo).
Impressiona la zona successiva, il cimitero degli orsi. Dal terreno emergono ossa, gigantesche, per una profondità di settanta centimetri, concentrate in questa zona da una barriera naturale che le ha bloccate qui quando si è formato un fiume sotterraneo che ha spazzato la zona. I tre scopritori moderni della grotta portano a Toirano, come prova della loro scoperta, un femore gigantesco; dal terreno ne emergono un paio che fanno capire che l’orso delle caverne doveva essere davvero una bestia impressionante. Siccome si è estinto dopo la datazione delle tracce umane nella grotta, potrebbe essere che la spedizione preistorica avesse come lo scopo la caccia di qualche esemplare del bestione; o forse la grotta con il suo carico di ossa era considerata un qualche tipo di luogo sacro.
In questo senso, la penultima sala, quella detta “dei misteri”, sarebbe significativa, con le sue palline di argilla tirate contro il muro: pare che un rito in uso ancora in Lapponia nel XVII prevedesse di lanciare palle di fango contro una pelle d’orso come rituale magico (questa l’ho letta su wikipedia). A ogni modo, la sala dei misteri è da anni esclusa dal percorso di visita per questioni di conservazione delle impronte, che non si sono pietrificate e su cui le luci potrebbero fare nascere muffe e microorganismi che finirebbero per distruggerle.
L’ultima sala della grotta, prima del tunnel artificiale che conduce alla grotta di santa Lucia, è detta “antro di Cibele”, la dea della fertilità, per le formazioni tondeggianti che ricordano delle mammelle (e/o dei grossi peni); un altro luogo surreale.
Poi si entra in un pratico tunnel scavato nella roccia viva per creare un percorso turistico più pratico tra due grotte. La grotta di santa Lucia superiore, che viene percorsa a ritroso, dal fondo all’imboccatura, è più interessante dal punto delle formazioni geologiche, con cristalli simili a coralli che fioriscono sulle pareti, ma lo è meno dal punto di vista della storia: fino alla metà del secolo scorso era nota la prima parte, molto spoglia, ma nessuno si era mi accorto che la grotta proseguiva più in profondità. L’attrazione più brutalmente spettacolare di questa grotta è quasi in fondo, ed è nota come la “torre di Pisa”: una colonna di otto metri di altezza, formatasi circa due milioni di anni fa in un sacco di tempo. Nella stessa sala si vede un’altra colonna spezzata in due (e poi rinsaldata) da un terremoto di un sacco di centinaia di migliaia di anni fa (sempre per quella faccenda della terra leggiadra).
La parte terminale della grotta, o meglio il suo imbocco, è oggi usata come spazio per concerti e spettacoli. Da qualche anno un’azienda vinicola la utilizza come cantina per l’invecchiamento dello spumante.

Usciti dalla grotta e tornati dai sedici gradi all’agosto ligure, si può salire ancora un pochettino e arrivare in un paio di minuti alla grotta di santa Lucia superiore, che sulle prime potrebbe non sembrare una grotta perché davanti al suo ingresso nel XV secolo è stato costruito un santuario. La grotta vera e propria si estende per circa 250 metri dietro all’altare e in alcuni giorni è visitabile. A noi è andata bene e, guidati da una ragazzina imbarazzatissima, ci siamo addentrati anche qui, per godere di ancora un pochettino di fresco.
La grotta non è paragonabile alle altre due: le poche formazioni geologiche interessanti sono state portate via nei secoli per decorare le “grotte” di ville e giardini della nobiltà ligure e restano solo alcune formazioni in cui la fede popolare ha voluto riconoscere gli “arredi” della santa durante la sua permanenza nella grotta. Abbiamo così il letto, il trono (santa Lucia aveva un sederino proprio piccolo), l’inginocchiatoio e il confessionale. Una tragica caratteristica della grotta è che è umidissima (all’ingresso c’è anche una piccola fonte di acqua ritenuta benedetta dalla santa e utile a guarire i disturbi alla vista) e che non ci sono passerelle, solo qualche ringhiera, così il visitatore potrebbe essere portato a credere che la colonna nella grotta inferiore sia stata in realtà spezzata da un’orribile bestemmia della santa, scivolata mentre andava in bagno di notte.
A ogni modo la grotta è stata molto frequentata nei secoli e sulle pareti si leggono firme di visitatori del santuario anche piuttosto antiche, roba del seicento, a cui si mischiano quelle degli abitanti della zona che usarono questa grotta e quella superiore come rifugi durante i bombardamenti del 1944. Addirittura su una parete c’è disegnato uno spartito con una melodia, che è un grazioso quasi-mistero (o un bello spunto per una qualche storia).

Toirano, che giustamente cerca di sfruttare le grotte per portare visitatori in paese, è un paesello grazioso che si gira in mezz’oretta intanto che cercate un posto dove mangiare qualcosa o bere. Non ha il fascino degli altri posti visitati il giorno prima, trovandosi banalmente in pianura e non arroccato su un qualche rilievo. Con il biglietto delle grotte si può visitare anche il museo etnografico, che noi abbiamo però bellamente snobbato.

Fine del breve resoconto sulla due giorni ligure.
Spero che possa servire come spunto a qualcuno che voglia farsi un paio di giorni in Liguria lontano dalle spiagge. Se devo fare una classifica delle cose che valgono lo spostamento, direi:

  1. Triora
  2. Dolceacqua
  3. Grotte di Toirano
  4. Bussana Vecchia
  5. Sanremo
  6. Seborga

Come al solito, grazie a Lucilla, la migliore compagna di viaggio (e non solo) possibile.

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Terra leggiadra. Due giorni in Liguria 3: Season of the witch, o delle “streghe” di Triora

Un carnevale a Triora. Per nulla inquietante.

Un carnevale a Triora. Per nulla inquietante.

Questa è una storia politica, in cui si intrecciano economia e religione.
Se fosse un romanzo sarebbe, ovviamente, un romanzo di Valerio Evangelisti con protagonista Nicholas Eymerich.
Ma questo non è un romanzo, questa è una storia vera.
E siccome questo è un blog e non Blu Notte posso anche smetterla con questa dozzinale imitazione di Lucarelli.
Sigla.

Triora è un paese nell’entroterra di Imperia. Uno dei tanti borghi fortificati medievali che si trovano da quelle parti, già roccaforte strategica della Repubblica di Genova e snodo commerciale tra Liguria, Piemonte e Francia.
Nel 1587, dopo due anni di scarsità di cibo, alla popolazione si pianta in testa l’idea che la carestia improvvisa non può avere cause naturali, ma deve senza dubbio essere stata causata dalle streghe. All’epoca quella di Triora era infatti una ricca e produttiva regione agricola, uno dei granai di Genova; tanto che oggi gli storici mettono in dubbio, documenti alla mano, che questa carestia si sia mai verificata. Cosa può essere successo, allora? Semplice: che i proprietari terrieri della zona avessero scoperto che era più redditizio destinare i raccolti a Genova che non venderli sul territorio. Continua a leggere

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Terra leggiadra. Due giorni in Liguria 2: Terremoto

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Quella volta che i Queen vinsero Sanremo per interposta persona.

Scesi dal colle su cui sorge Seborga puntiamo verso uno dei luoghi simbolo dell’Italia nazional-popolare: SANREMO.
Nessuno di noi due c’è mai stato prima e non sappiamo bene che cosa aspettarci se non le cartoline dall’Ariston: viali con le palme, il casinò, una specie di Montecarlo o Cannes in sedicesimo con molte pretese, qualcosa del genere.
Il primo impatto è proprio quello: parcheggiamo nell’area della vecchia stazione ferroviaria, che adesso che la linea è stata spostata a monte resta lì come una nave tirata in secco, con ancora dentro il bar, il tabacchino, l’edicola. Sopra di noi c’è il casinò con la sua bella insegna e i fiori e il tabellone luminoso con il jackpot delle slot. Non avendo grande curiosità per il gioco d’azzardo tiriamo decisamente dritto, anche perché la tristezza del tabellone del jackpot è la stessa che suscitano tutte le sale slot spuntate come funghi negli ultimi anni. Segnalo però che a Genova il casinò di Sanremo dovrebbe chiudere perché ampiamente entro i 300 metri da una chiesa.

Esiste una foto di me di fianco a questa statua, ma non la vedrete mai.

Esiste una foto di me di fianco a questa statua, ma non la vedrete mai.

Andando dritti vediamo stagliarsi in lontananza l’insegna dell’Ariston. Per terra lastre in metallo con incisi i nomi dei vincitori di ogni edizione del Festival scorrono a ritroso nel tempo. Non faccio a tempo a dire “spero che ci sia una statua di Pippo Baudo” (quando si parla di Sanremo sono un Baudiano di ferro: Big e Nuove Proposte, valletta bionda e bruna con due cambi d’abito a testa, chiusura in ritardo attorno all’una, Dopofestival) che in una traversa del corso avvisto un Mike Bongiorno in metallo a grandezza naturale. Nella mano sinistra brandisce una cartellina su cui si legge ALLEGRIA.
E poi c’è l’ingresso dell’Ariston, visto mille volte in televisione, che dal vivo è ancora più brutto e squallido di quanto non sia già brutto e squallido in televisione. Per fortuna manca il sosia di Pavarotti (all’interno della mia perversa fascinazione per Sanremo ho una subfascinazione perversa per il sosia di Pavarotti, quello che tutte le volte che lo inquadrano fa OOOOOOOOOOOOH con il vocione).

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Soddisfatte le nostre perversioni nazional-popolari, mangiamo. Dopo avere schivato un paio di posti ürendi ci imbattiamo in un posto molto poco italiano, un baretto colorato e accogliente, il Cocoon. Fanno dei panini grossi, che non costano molto, hanno dei tavolini sulla via che porta al centro storico e le persone che ci lavorano sono gentili e giovani (siamo in Liguria, non date per scontata nessuna delle due cose).

Soddisfatte le necessità fisiche, visto che abbiamo ancora un po’ di tempo prima che scada il ticket del parcheggio, saliamo verso il centro storico. Di colpo, varcata la Porta di Santo Stefano, ci troviamo lontanissimi dalla città rivierasca tutta jet set e modulazioni sull’ultimo ritornello e siamo di nuovo in un borgo, dalle strade strette e buie e in salita.
Il quartiere si chiama Pigna e deve il suo nome ai palazzi che si affastellano verso l’alto come le scaglie di, appunto, una pigna. È ovviamente la zona più “degradata” e malfamata della città, ma se non vi dà fastidio un po’ di “sporco” la visita vale l’eventuale senso di disagio: quasi ogni svolta c’è una sorpresa, una piazzetta, un portale antico. Il contrasto con la città bassa e la sua decadenza novecentesca non fa altro che aumentarne il fascino.

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È la Liguria terra leggiadra, come ben sanno tutti gli scolari della regione, costretti a studiare a memoria l’agghiacciante poesia di Cardarelli, ma questo non vuol dire che non sia una zona sismica.
Chiedetelo per esempio agli abitanti del piccolo paese di Bussana, su un colle sopra Sanremo, che il 23 febbraio del 1887 vennero colpiti da un terremoto così poderoso che decisero che era più pratico abbandonare il paese e costruirne uno nuovo a valle piuttosto che riparare le case danneggiate. Del resto si erano già beccati tre terremoti significativi nei cinquant’anni precedenti e avevano messo in atto tutte le misure antisismiche conosciute dall’architettura dell’epoca.
Il terremoto del 1887 colpì all’alba del mercoledì delle ceneri; chi era in chiesa morì per il crollo della volta, altri morirono nelle proprie case.
Bussana diventò Bussana Vecchia e dal 1894 fino alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso rimase disabitata. Poi gradualmente iniziò a essere popolata da artisiti, che cercarono di creare una specie di comunità libera dove vivere e creare liberamente.
La storia è un po’ lunga da raccontare qui, ma la trovate facilmente.
Oggi Bussana Vecchia è una piccola comunità che oscilla tra il folklore turistico e gioiosa autogestione degli spazi. All’ingresso del paese si trovano un paio di locali, c’è un bed and breakfast e molte botteghe di piccolo artigianato artistico.
È impressionante la visione della grande chiesa, scoperchiata e spogliata della maggior parte delle decorazioni; le case abitate hanno decorazioni all’esterno, ogni tanto si incontrano statue e dipinti che si affacciano alle pareti.
La zona più curiosa e piacevole la si incontra nei pressi della chiesa piccola ed è “l’area relax”: alcune fasce di terreno riadattate da un paio di ragazzi del posto con sdraio, poltrone, divani, amache, a ingresso libero. C’è anche un bancone da bar ma, spiegano, non è un bar: ti dicono che è come se fossi a casa loro e che sei libero di servirti di quello che vuoi. Se vuoi, puoi lasciare un’offerta. Intanto ti gironzolano attorno galline e un’oca assonnata.
Visto che fa caldissimo ci serviamo una coca cola e un’acqua e menta e ci sediamo a un tavolo. Dietro di noi, schiantato su un divano, un uomo sulla quarantina dorme il sonno dei giusti; a un altro tavolo un’anziana signora legge il Secolo XIX e mangia grissini. L’oca un po’ ci tiene d’occhio un po’ sonnecchia.
Bussana Vecchia è un posto bizzarro. Non è così bizzarro come vorrebbero forse vendervelo: non è una comunità di Elfi o cose del genere. Ma è, con Seborga, uno dei posti più curiosi che possa capitarvi di visitare da quelle parti. Il paese è ancora in buona parte disabitato e diroccato, ogni tanto si trova qualche bottega, qualche decorazione, qualcosa di curioso. Vale la pena di arrampicarsi fin lassù.

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Terra leggiadra. Due giorni in Liguria 1: My name is Prince

La domanda è: dopo i 15 post per 15 giorni in Polonia, quanti post scriverò per due giorni in giro per borghi e paesi in Liguria?

Si chiama, in inglese “staycation”, da stay+vacation, cioè grossomodo “casanza” o “caseggiatura” o “vacasa”: fare le ferie a casa o poco lontana da essa, con viaggi di uno o due notti fuori. È la formula che abbiamo scelto quest’anno, in attesa del Grande Viaggio di novembre (e lì altro che 15 post, temo).

Tipico residente di Spotorno in spiaggia.

La cosa era nata con “andiamo un giorno a vedere Triora” e si è trasformata in un viaggio da sei paesini, più grotte, in meno di 36 ore, tutti nel Ponente ligure.
Per me, genovese, il Ponente è una terra misteriosa che inizia da dopo Albisola, probabilmente popolata da gente con la faccia sullo stomaco, altri con un solo grande piede che probabilmente usano per farsi ombra quando si sdraiano sulla schiena, credo governata dal Prete Gianni o da Pippo Baudo assiso sul suo trono di ossa umane nei sotterranei del teatro Ariston. Dove poi a un certo punto ti trovi, di tutti i posti al mondo, in Francia. Per dire, per anni ho creduto che “Spotorno” fosse un nome buffo inventato, un po’ come Poggibonsi. Poi ho scoperto che esistevano davvero entrambi.

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Quella che vedete ritratta qui sopra da un vedutista di belle speranze, un tale Monet di cui forse avrete sentito parlare, è Dolceacqua, prima tappa del nostro viaggio dal nome tolkieniano (in una provincia con un nome mussoliniano).
Ai piedi del castello medievale si arrampica lungo il colle il centro storico, un borgo fatto di strade strette, spesso coperte dai collegamenti tra un palazzo e l’altro, su cui si aprono le porte di botteghe e bottegucce. Oggi un’architettura del genere è un piccolo paradiso per gli amanti dei bei tempi andati (e dell’ombra), all’epoca della sua realizzazione era un incubo per qualsiasi esercito assalitore, che si trovava costretto ad avanzare per stretti budelli prima di riuscire di arrivare ai portoni del castello. In pratica, un bel live action tower defense.
Il castello in cima sarebbe anche visitabile, ma la ragazza ci dice che metà delle sale sono chiuse per restauri e che, insomma, il gioco non vale la candela.
Ci consoliamo con la michetta, un dolce tipico del paese (un maritozzo, più o meno), dalla storia bizzarra. Vuole infatti la leggenda che sia stato creato per la prima volta nel 1300 dopo che al malvagio marchese Doria che dominava la città era stata estorta con un pugnale alla gola l’abolizione dello jus primae noctis. C’era di mezzo una bella popolana, Lucrezia, che di farsi vidimare dal nobile proprio non ne voleva sapere e alla fine prima tentò il suicidio lanciandosi da una finestra poi, rinchiusa si lasciò morire di fame e sete (di solito si muore di sete, per la cronaca). Il fidanzato allora si intrufolò nel castello e come detto riuscì a ottenere l’abolizione dell’odioso privilegio; per festeggiare, le donne del paese crearono un dolce che, dicono, dovrebbe avere la forma del sesso femminile.

Impastando la farina con uova, zucchero ed olio crearono varie forme , sicchè una di loro, la più smaliziata individuò in una delle sagome di pasta un’evidente allusione al sesso femminile ed esclamò: «Sachì le che che ghe va (questa è quella che ci vuole), la chiameremo “michetta”»
Preparato l’impasto e cotte si precipitarono in piazza gridando: «Omi, au, a michetta a damu a chi vuremu nui (uomini, adesso la michetta la diamo a chi vogliamo noi)»

Forse l'anatomia delle donne del ponente ligure nel XIV secolo era un po' diversa da quella delle donne attuali

Forse l’anatomia delle donne del ponente ligure nel XIV secolo era un po’ diversa da quella delle donne attuali.

Abbandonata Dolceacqua ancora dubbiosi sulla forma delle michette che abbiamo portato con noi ci dirigiamo all’estero, verso un piccolo principato ricco di legami con l’Italia.
Montecarlo, diranno i miei piccoli lettori.
No.
Seborga.

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L’esistenza di Seborga, o meglio la sua pretesa di indipendenza dall’Italia, è sempre stata per chi scrive una grande fonte di meraviglia.
Seborga, sostengono gli indipendentisti, non avrebbe mai fatto parte del regno di Sardegna e quindi la sua annessione al regno d’Italia sarebbe stata priva di valore. Dal 1963 Seborga ha anche un principe (eletto), batte moneta, emette francobolli, passaporti, targhe automobilistiche e patenti di guida, che hanno all’incirca lo stesso valore legale dei Disney Dollars con cui puoi cambiare i dollari nei parchi Disney.

Nei negozi trovi cartelli così.

Nei negozi trovi cartelli così.

Una delle poche affermazioni di indipendenza dall’Italia citate dai seborghesi è attribuita a Mussolini, che nel 1939 scriveva:

il Principato di Seborga non appartiene all’Italia.

Considerato che all’epoca diceva lo stesso degli italiani di origini ebraica non mi sembra un argomento molto spendibile.
Comunque la questione dell’indipendenza di Seborga è un po’ più articolata, anche se abbastanza improbabile; una lista delle argomentazioni si trova qui. Ovviamente c’entrano i templari e ovviamente si citano “eminenti storici inglesi” (quali?).

Fatto sta che oggi, come la strada provinciale entra nel territorio del comune di Seborga trovate una garitta con dentro un signore in uniforme (basco, camicia azzurra, pantaloni bianchi e anfibi) che vi fa un cenno di saluto. In segno di disprezzo per le leggi dell’oppressore italiano io gli sono involontariamente passato davanti senza cintura di sicurezza (ma tanto ha meno poteri del sorvegliante di un grande magazzino). La strada, tra l’altro, finisce a Seborga e proprio davanti a un busto di Umberto I, evidente provocazione sabauda contro gli abitanti del luogo.
Folklore a parte, Seborga è un borgo piccolissimo arroccato in cima a un colle da cui si gode una vista straordinaria sul mare e sulla vallata sottostante. Si gira a piedi in credo cinque minuti, poi si possono visitare la chiesa, il negozio dei souvenir; c’è anche un palazzo del governo, che più o meno condivide le funzioni dell’ufficio informazioni turistiche.
Ci sono un paio di ristoranti, uno in una corte molto bella, tira un bel venticello e c’è almeno un gatto molto socievole.
E poco altro.
Gli indipendentisti seborghini sono stati molto bravi a creare curiosità su di un posto che senza questo bizzarro passaparola sarebbe forse rimasto al di fuori dei giri turistici; curiosamente la questione dell’indipendenza nasce (o rinasce) infatti negli anni ’50, in concomitanza con l’apertura della strada rotabile che unisce Bordighera a Seborga…

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