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Finlandiamo, Ep. 6: chitarre infernali a Helsinki

Riassunto delle puntate precedenti: siamo andati in Finlandia, per la precisione a Rovaniemi. La sera prima di arrivare in Norvegia (la nostra destinazione è Capo Nord), scopriamo che la macchina a noleggio non può uscire dalla Finlandia. Per fortuna, un intraprendente finlandese ci mette una pezza.Arriviamo così in Norvegia, dove andiamo a fare due passi nel nulla, prima di venire invitati a tornare indietro. Poi incontriamo degli italiani e ci fingiamo morti come gli opossum. Arriviamo a Capo Nord e ci imbamboliamo per ore a guardare l’orizzonte. Poi torniamo indietro e per tornare a Helsinki dobbiamo aspettare che ci aprano l’aeroporto.

Obbligatoria foto di gabbiani

Obbligatoria foto di gabbiani

Un mio amico ha questo interesse per i lavori che sul medio termine non saranno più eseguiti da esseri umani ma da macchine. Non è l’unico, perché c’è anche un sito che vi calcola la percentuale di possibilità che un giorno veniate sostituiti da un robot o da un software.
Sicuramente avrebbe apprezzato l’Omena Hotel di Helsinki, che ha una reception totalmente automatizzata: del resto, gestire la disponibilità delle stanze di un hotel è un’operazione che un software sa fare senza alcun problema. Così tu prenoti e un paio di giorni prima del tuo arrivo ti arrivano una mail e un SMS che ti dicono il numero della stanza e un PIN che apre il portone, l’ascensore, la tua stanza. Una cosa che mi sarei aspettato di trovare in Giappone (dove invece tutti i nostri albergatori erano umani, in un caso pure troppo) e che invece ci è toccata a Helsinki. La cosa è sulle prime un pelo spiazzante, poi non ci fai più caso. Certo, poi crea dei momenti di imbarazzo quando sali in ascensore insieme a qualcuno e guardi dall’altra parte mentre uno digita il codice, come i cassieri quando ti passano il POS. Ma forse la cosa più surreale, se ci pensi, è che le persone che rifanno le camere quando i clienti le lasciano – uniche presenze umane – probabilmente ricevono i loro turni di lavoro pure loro da un computer.

Helsinkiani felici.

Helsinkiani felici.

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Manowar – The Lord of Steel (una recensione al volo)

Niente Ken Kelly. E’ la fine di un’epoca

Ognuno ha le sue debolezze. La mia sono i Manowar. Anzi, i ManOwaR.

E’ uscito un nuovo disco dei Manowar. Doveva uscire nel 2009 e doveva essere un concept album su Asgard scritto insieme a uno scrittore fantasy tedesco. C’era anche un sito, grandi progetti, poi le cose devono essere andate un po’ a puttane, perché nel frattempo Scott Columbus ha lasciato il gruppo (e nel 2011 è morto) e alla batteria è tornato Donnie Hamik, batterista del primo disco; con lui hanno riregistrato Battle Hymns nel 2011 (una roba più che Spinal Tap molto brutta perché i suoni scelti facevano cagare).
Alla fine il disco, uscito il 16 giugno in anteprima digitale, non è un concept (grazie al cielo). I due dischi precedenti, Warriors of the World del 2002 e Gods of War del 2007 erano senza mezzi termini molto brutti: il primo registrato da un gruppo allo sbando con una scaletta assurda (tre canzoni uguali una dietro l’altra, cover assurde come il Nessun dorma e un medley di brani tradizionali americani), il secondo pensato lungamente per essere un’accozzaglia di melassa pseudo-sinfonica che teneva insieme una manciata di brani piatti e banali.
Come sarà? Ecco, l’ho comprato e l’ho ascoltato. Qua sotto c’è quello che ho scritto mentre lo ascoltavo per la prima volta. Continua a leggere

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RSD

Oggi è il Record Store Day, giornata in cui per il quinto anno consecutivo si cerca di celebrare e sostenere i negozi di dischi indipendenti:

A Record Store Day participating store is defined as a retailer whose main primary business focuses on a physical store location, whose product line consists of at least 50% music retail, whose company is not publicly traded and whose ownership is at least 70% located in the state of operation

C’è tutta una serie di artisti che incide o mette in commercio cose apposta per questa giornata e nei giorni scorsi più o meno tutti i blog che leggo hanno pubblicato qualcosa in proposito.
Io non è che sia mai stato un grande frequentatore di piccoli negozi di dischi. Per gran parte delle mie necessità Ricordi è sempre stata sufficiente (la mitologica Ricordi di Genova, con il cartellino “Sepoltura” corretto a pennarellone da una mano anonima in “Sepultura”, dove andavi a mandare a memoria i giri di accordi delle canzoni dei Nirvana leggendoli sugli spartiti); e spesso quando penso a “negozio di dischi” mi viene in mente quello che c’era in via Sestri a Genova, gestito da una coppia spocchiosissima che probabilmente avrebbe voluto vendere solo jazz rock e invece si trovava costretta ad avere a che fare con i gusti non propriamente elitari degli abitanti della delegazione. Tra l’altro gente con un immenso intuito: quando uscì la prima canzone delle Spice Girls, mia madre andò a chiedere se avevano fatto disco perché voleva regalarlo alla figlia di un’amica a cui quella canzone piaceva tanto. “Ah no” le rispose il tizo, “questi gruppi è raro che arrivino a fare un disco intero”. L’augurio che in molti gli facevamo di spendersi in medicine i soldi che per un motivo o per l’altro finivamo per dargli (tipo per i biglietti dei concerti) e che accettavano come fosse stata merda fumante si è rivelato a suo modo profetico, visto che al suo posto ora c’è una farmacia.
Però tutto questo parlare di negozi di dischi mi ha ricordato che qualche settimana fa mi sono accorto che, chissà quando, ha chiuso l’unico negozio di dischi che abbia mai visto come un luogo dotato di una sua aura positiva, vale a dire il buon vecchio On Stage.
On Stage era più o meno quello che ti aspetteresti da un negozio di dischi: un antro buio, con grandi scaffalature a parete pensate per ospitare i vinili, uno schedario di copertine fotocopiate di cd tra cui scartabellare e un proprietario scontroso dall’età indefinibile (tra i 50 e 200 anni) che tutte le volte che uscivi di lì con il tuo acquisto nel sacchettino ti domandavi come mai avesse deciso di specializzare il suo negozio in heavy metal. Già, perché On Stage era un negozio che trattava prevalentemente metal, quello dove andavi sicuro di trovare più o meno tutto quello che trovavi recensito sulle riviste (e senza dover correggere la U di Sepultura). Uno dei rituali quando ci si andava a curiosare o comprare qualcosa era sempre quello di guardare in vetrina i cd dei gruppi black metal e cercare di indovinare cosa diavolo ci fosse scritto nel logo del gruppo.

Alcuni loghi di gruppi black metal (clicca per ingrandire, tanto non si leggono lo stesso)

Il servizio, dentro, non è che fosse propriamente impeccabili. Il meccanismo “scartabella tra le fotocopie delle copertine nella plastica” permetteva al proprietario di concludere spesso l’intera transazione senza doverti dire nemmeno una parola. Ma anche questo faceva parte del fascino del luogo, e anche molto in linea con il fatto che, insomma, eravamo giovani metallari. Volevamo avere in fretta il nostro fottuto metallo per potere andare a casa a spararcelo a tutto volume. Mica avevamo tempo per parlare con un vecchio. Da qualche parte, mi pare in delle vetrinette vicino all’entrata, On Stage aveva anche delle cassette (!) e dei cd di musica normale. Ma in tutte le volte che ci sono andato non ricordo di avere mai visto nessuno entrare per chiedere qualcosa del genere.
Ora, appunto, On Stage ha chiuso. Mi pare di aver capito siano già un paio di anni.
Onestamente, non è che provi tutta questa nostalgia, se non quella per quando si era più giovani, stupidi e con un sacco di tempo per bighellonare in più. I dischi li compro online o in mp3 (o li scarico) e l’esperienza dell’andare in negozio, magari implorare perché ti facessero ascoltare qualche pezzo di un disco che ti incuriosiva sembra lontana milioni di anni. Anche se in realtà erano solo 15 anni fa, e anche qualcosa di meno; ma il tipo di esperienza era lo stesso, supporti a parte, di quando mio padre andava a comprare dischi alla mia età.
Non so bene come sopravvivano oggi i negozi di dischi, di fronte all’offensiva di vendite online, vendite di mp3, streaming e p2p. Immagino male. Forse tra un po’ finiranno a essere tutelati come la lirica, i conservatori, il balletto classico.
Testimonianze di un tempo lontano, di diversi modelli di trasmissione della cultura e dell’intrattenimento.

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Great Scott

SHBABBARI! UOMINI DI INAUDITA VIULENZA E FEROCIA! FIGLI DEL DIO ODINO! (Scott Columbus è quello seduto)

La leggenda dice che Scott Columbus, morto il 4 aprile a 54 anni, sia diventato il batterista dei Manowar quando lavorava in una fonderia, poco prima che il gruppo registrasse il suo secondo disco, quello sulla cui copertina sono vestiti come comparse di Attila flagello di Dio. Il primo batterista, Donnie Hamzik, non se la sentiva di fare la vita del musicista, il gruppo era rimasto senza contratto e così aveva cortesemente salutato tutti.
È sempre la leggenda a dire che ben presto fu necessario fargli fare un kit in acciaio inossidabile, perché le batterie normali non reggevano l’impeto dei suoi colpi.
Ora.
Non diremo, ora che è morto, che era un batterista straordinario. No. Andava a tempo e picchiava come un mastro ferraio, ma non ha mai sviluppato uno stile particolare. Faceva quello di cui c’era bisogno nei Manowar, insomma: picchiava.
Però, vittima della maledizione di Ringo Starr, Scott era quello con la faccia simpatica, con i baffoni e lo sguardo sornione. Quello che nell’ultima serata del tour organizza gli scherzi scemi agli altri. Quello che se faceva troppo caldo si metteva dietro alla batteria in mutande e vaffanculo all’immagine del gruppo. È quello che nel video di Gloves of metal, un capolavoro che al confronto Gondry ha il budget di Michael Bay che fa un video per i Muse, nella scena in cui sconfitti i nemici i Manowar portano via le donne placca (come nel football) una povera studentessa di cinema.
Il suo rapporto con i Kings of Metal è strano.
Entra nel gruppo nel 1983. Ci resta fino al 1990 o giù di lì. Poi se ne va. Perché? La versione ufficiale era che volesse stare al capezzale del figlio, malato di leucemia. Lo sostituisce tale Rhino, di cui esiste un video in cui dà fuoco alla sua vecchia batteria il giorno in cui entra nei Manowar (su youtube non si trova, ma esiste; ho la VHS e lui non ha una faccia convintissima, a dirla tutta). Nel frattempo se n’era andato anche Ross the Boss, il chitarrista, cordialmente messo alla porta poco dopo la registrazione di Kings of Metal (l’ultimo vero grande disco dei Manowar) e sostituito con un frullone di nome David Shankle. Con Rhino e Shankle i Manowar registrano un disco solo, The Triumph of Steel, che inizia con una canzone di 28 minuti che in realtà è un collage di frammenti di canzoni e assoli. Compreso uno di batteria. Scott non faceva assoli di batteria. E forse per quello tutti gli volevano bene.
Comunque. Scott torna nei Manowar nel 1995 o giù di lì, in tempo per registrare Louder than Hell, che è un disco di ritornelli, come lo definì un mio amico. Nel senso che le strofe di buona parte delle canzoni sono del tutto intercambiabili tra di loro (e a volte anche i ritornelli). Ma dietro alle pelli c’è di nuovo lui e il disco ha, se non altro, un’atmosfera meno glaciale di quella del disco precedente, frutto della pulizia eccessiva dei due nuovi acquisti (nel frattempo pure Shankle è stato sostituito, con un cane il cui nome non scriverò qui perché i Falsi Re meritano solo l’oblio).
Durante la promozione del disco, Scott rilasciò un’intervista a Psycho, una (bella) rivista metal italiana. Le risposte a mo’ di slogan (infilò l’espressione “louder than hell” in ogni risposta, ricordo) spinsero i redattori a chiedere, per pietà, un’altra intervista al gruppo con qualcuno che desse risposte più interessanti.
E poi ebbero l’idea di pubblicare questi dvd dei tour, in cui la cosa importante non erano le esibizioni ma i filmini delle vacanze, cioè momenti della vita on the road, in cui appunto il buon Scott usciva in tutto il suo essere batterista frizzi e lazzi. Come in questo meraviglioso spot per la tv tedesca (i tedeschi si beccano sempre il meglio):

Dopo Louder than Hell sono usciti due dischi, parecchio brutti, uno nel 2002 e uno nel 2007 (stiamo parlando dello stesso gruppo che nel 1984 pubblicò due dischi due, entrambi bellissimi).
Poi, dopo un po’ che Scott era stato sostituito nei concerti dal suo predecessore Donnie Hamzik per non meglio precisati “motivi di salute”, nel 2010 rilascia un’intervista a Classic Rock in cui (attenzione che arrivano gli Spinal Tap) spiega che lui non ha più nulla a che fare con i Manowar dal 2008 e che non capisce come mai ci sia ancora la sua faccia sul sito. La cosa buffa è che nel frattempo il gruppo ha pubblicato, con il suo nome nel libretto, un ep nel 2009 (che contiene la stessa canzone cantata in QUINDICI lingue diverse) (now playing: triumphant march of the Spinal Tap). Ma oggi, si sa, le drum machine fanno miracoli – ed è probabile che diverse parti dei due dischi precedenti ne facessero già uso. Ma, soprattutto, nell’intervista dice anche che suo figlio non ha mai avuto la leucemia (il che rende tutta la faccenda molto brutta, perché comunque lui per anni si è prestato a questa orribile menzogna). E, sui motivi musicali della separazione, dice questo:

The thing is, I’m kind of an old school guy. You’ve got to realise I’m part engineer, part producer, a whole lot of drummer and so on and so forth. I’ve always been an analog kind of guy. I like tube amplifiers for guitar players, I like the old method of recording where the band is actually in the same room together at the same time and you go, “One, two, three, four, bang!” and you make a live recording. In this day and age a lot of bands just don’t do that anymore. That was a little bit of the issue for me.

Vedi, io so un po’ uno della vecchia scuola. Devi capire che sono un po’ un tecnico, un po’ un produttore, un sacco un batterista e via dicendo. Sono sempre stato uno analogico. Mi piacciono gli amplificatori valvolari per le chitarre e mi piace il vecchio modo di registrare, con il gruppo tutto nella stessa stanza nello stesso momento e tu che parti “One, two, three, four, bang!” e registri tutto in presa diretta. Oggi un sacco di gruppi non fanno più così. E questo per me era un bel problema.

Non che ci volesse la testimonianza di uno che c’era in sala di incisione, per rendersi conto che le ultime registrazioni dei Manowar urlano “PRO TOOLS” da ogni byte, però non fa mai male.
Comunque la cosa buffa è che dopo di lui i Manowar hanno davvero ripreso in pianta stabile Donnie Hamzik. E hanno riregistrato tutto il primo disco, dimostrando come trent’anni non passino indolore e come sia possibile succhiare via da un disco tutta la sua anima.
E lui? Postava su tumblr i video della sua cover band, l’audio di un suo progetto solista di metal strumentale (dai suoni sorprendente moderni). Sembrava spassarsela. Ha anche suonato qualche volta dal vivo con Ross the Boss.
Poi, da dicembre, più nessuna notizia.
Fino all’epilogo.

 

EEEH! (no, non è Vasco. È Scott Columbus nel 2010)

ps: alla fine di aprile del 2004, quando dovevo trovare un nick per registrarmi su Splinder, guardai sulla scrivania. C’erano un cd dei Manowar e il libretto di Ziggy Stardust aperto sulle foto del gruppo. E in un lampo nacque Scott Ronson.

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I libri di Aprile

Quasi puntuale come al solito, il resoconto dei libri letti nel mese precedente. Evidenziato, il più consigliato.

Dexter l’oscuro – Jeffrey Lindsay (Giallo Mondadori)
Riassunto delle puntate precedenti: per oscure ragioni non vedo la serie tv – pigrizia, più che altro – ma leggo i romanzi. Questo, che se non sbaglio dovrebbe essere il terzo è a differenza dei primi due, parecchio noioso. Lindsay gira a vuoto per un bel po’ e introduce nell’universo dexteriano una vena sovrannaturale che non c’entra niente con il personaggio. Evitabile.

Baltimore – Mike Mignola e Christopher Golden (Mondadori)
Mike Mignola è uno straordinario autore di fumetti, che con Hellboy ha creato un personaggio e un mondo in cui convivono felicemente, tra gli altri, H.P Lovecraft e Jack Kirby. Qui, alla prova del romanzo, mette a cuocere gli stessi ingredienti di quell’horror fatto di oscuri segreti, paesaggi gotici e sprazzi di fiaba nera. Purtroppo il risultato non è all’altezza delle aspettative e si annaspa in una generale montonia risollevata da alcuni episodi interessati (come quello ambientato in una cittadina ligure). Qua e là spuntano disegnini, al minimo sindacale, dello stesso Mignola. Meglio investire in una raccolta di storie di Hellboy (o nel dvd del secondo film).

Privo di titolo – Andrea Camilleri (Sellerio)
Il fascismo come cialtroneria e (ri)costruzione della realtà. A metà tra il romanzo e la ricostruzione storica, Camilleri racconta la storia dell’unico “martire siciliano della rivoluzione fascista”, alla quale si intreccia la vicenda di “Arboria”, nuova città ideale che sarebbe dovuta sorgere fuori dalla cittadina di Caltagirone. L’impressione che il Camilleri migliore ormai sia nei libri come questo e non in quelli con Montalbano ne esce ampiamente confermata; è in testi come questi che lo scrittore siciliano è veramente libero di giocare con la lingua e con i registri narrativi, dando vita a libri che raccontando pezzettini della nostra storia ne ridanno un’immagine vitale e memorabile.

Heavy Metal Islam – Mark LeVine (Three Rivers Press)
Cosa vuol dire ascoltare e suonare musica occidentale (rock, metal, hip hop) nei paesi islamici? Mark LeVine, a sua volta musicista, cerca di raccontarlo attraverso gli incontri con musicisti marocchini, pakistani, egiziani, iraniani, libanesi, palestinesi, in un lungo viaggio attraverso scene musicali vivaci, vitali e determinate. Perché se un ragazzo italiano o francese o tedesco che vuol farsi crescere i capelli e indossare maglie con i teschi e suonare in un gruppo al massimo si scontra con i mugugni dei genitori, i suoi omologhi di altre parti del mondo rischiano a volte ben altre conseguenze facendo le stesse cose. Ma il libro non è solo fatto di storie di resistenza attraverso la musica; c’è anche il racconto di commistioni tra musica occidentale e orientale parecchio interessanti. Non sorprende che nei paesi con le situazioni più drammatiche il metal che interessi di più sia quello estremo (thrash e death in particolare).
Ma la cosa migliore del libro è che aiuta a vedere i paesi islamici non come monoliti culturali, ma come società che stanno diventando via via più complesse, in trasformazione. Una trasformazione nella quale la musica occidentale, presentando altri stili di vita, altri sistemi di valori, ha il suo ruolo.
In Italia lo pubblica ISBN e si chiama Rock the Casbah.
Sul sito del libro si possono leggere aggiornamenti, ascoltare canzoni e vedere i video degli artisti citati.

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