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Beatles e Rolling Stones, quanta rivalità

Una delle più durature leggende della storia della musica pop è la rivalità tra Beatles e Rolling Stones.
Da un lato i bravi ragazzi, dall’altro i ragazzacci.
Facile, pulito, efficiente.
Peccato che, nella realtà dei fatti, tra Beatles e Rolling Stones c’erano in realtà delle larghe intese. Non solo le rispettive case discografiche cercavano di coordinare le uscite per evitare di sovrapporsi, ma anche perché tra i membri dei due gruppi c’era comunque una certa frequentazione che in alcuni casi è anche sfociata in vere e proprie collaborazioni. Sono cose che sapranno in molti, ma nel dubbio, una piccola carrellata.

Per dire: nel 1962 i Beatles scazzano un’udienza con la Decca. Negli anni l’evento passa negli annali come uno dei più clamorosi epic fail della storia della discografia, ma va detto che con Pete Best alla batteria i Beatles non sembravano pronti per la sala d’incisione (sì, Pete Best era un batterista molto peggiore di Ringo)

Comunque, un anno dopo i Beatles sono i Beatles e Dick Rowe, uno dei responsabili della Decca si sta ancora mangiando le mani per avere detto a Brian Epstein “l’epoca dei gruppi con le chitarre è finita”. George Harrison un giorno lo chiama e gli dice: “Ciccio, vai a fare un salto al Crawdaddy a sentire quei tizi che suonano”. Quei tizi si fanno chiamare “The Rolling Stones” e Rowe, nel dubbio, li mette sotto contratto.
Gli Stones esordiscono su disco con una cover di Chuck Berry, Come on, di cui non sono convintissimi perché loro si sentono musicisti blues e suonare quella roba commerciale per ragazzini li mette un po’ a disagio, a punto che si rifiutano di suonarla dal vivo. Per il secondo singolo, il loro manager Andrew Loog Oldham si mette in contatto con Paul Mc Cartney e John Lennon, per i quali aveva lavorato come ufficio stampa, e chiede se per caso non hanno una canzone che avanza.
Lennon e McCartney non ci mettono molto a mettere tra le mani dei futuri rivali I wanna be your man, completandola davanti a un esterrefatto Mick Jagger (che non aveva mai visto nessuno scrivere una canzone). Non è la migliore composizione del duo, tanto che, come dirà anni dopo Lennon “la nostra versione l’abbiamo fatta cantare a Ringo”, però gli Stones la interpretano con il giusto piglio. Brian Jones ci mette una chitarra slide, il basso di Bill Wyman pulsa come si deve, Keith Richard si ritaglia un assolo mordace, Mick Jagger sprizza ardore adolescenziale e Charlie Watts è la solita sicurezza.

Sul retro del singolo compare Stoned, uno strumentale blues (Mick Jagger dice giusto ogni tanto “Stoned” e “out of my mind”) composto dal gruppo al completo, compreso il pianista Ian Stewart (vero e proprio membro originario del gruppo, escluso dalla formazione ufficiale per questioni di immagine; già Oldham doveva fare i salti mortali per non fare scoprire che Bill Wyman era parecchio più anziano del resto del gruppo). Il primo germe della produzione autonoma Jagger/Richards.

Nel giugno del 1967, Brian Jones si presenta armato di sax a una sessione di registrazione dei Beatles. Incide una parte in una canzone che si chiama You know my name, look up the number, che è poco più che un momento di cazzeggio in studio e resta chiusa negli archivi del gruppo fino a quando non esce nel 1970 come B-side di Let it be.

Qualche giorno dopo, Lennon e McCartney ricambiarono la visita e, accompagnati da Allen Ginsberg, capitarono negli studi dei Rolling Stones mentre questi stavano registrando We love you, una canzone che era un beffardo messaggio alle autorità inglesi che quello stesso anno avevano arrestato Jagger e Richards per possesso di marijuana. Era successo a febbraio del 1967, a casa di Keith Richards nel Sussex: la polizia aveva fatto irruzione e trovato droga e Marianne Faithfull seminuda (lei stessa bolla come “fantasie di poliziotti segaioli” la leggenda urbana che avesse un Mars tra le gambe e Mick Jagger che lo mangiava; all’epoca, dice, non era una che si tirava indietro, ma quella era una stronzata). George Harrison e la fidanzata se ne erano andati da poco: secondo alcuni la polizia avrebbe aspettato che se ne andassero per non trascinare i Beatles nello scandalo, ma non c’è alcuna prova.
Comunque, non accreditati, Paul e John cantano nei cori.
La canzone ebbe anche un videoclip che richiama il processo a Oscar Wilde (quella cosa che i videoclip li avrebbero inventati i Queen è una stronzata o quantomeno una grossa imprecisione).

Il 1967 è anche l’anno in cui esce Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, sulla cui copertina, tra le altre cose, è visibile una bambola con una maglia con su scritto “Welcome the Rolling Stones”. A fine anno esce il disco “psichedelico” dei Rolling Stones, Their Satanic Majesties Requests: se si guarda bene la copertina si possono notare i volti dei quattro Beatles nascosti.

satanic_majesties

Nel dicembre del 1968 i Rolling Stones registrano per la televisione un lungo spettacolo con ospiti come i Jethro Tull (unica occasione in cui si esibirono con Tony Iommi alla chitarra), The Who e i Dirty Mac, un gruppo occasionale formato da Mith Mitchell (batterista di Jimi Hendrix), Eric Clapton, Keith Richards (nelle vesti non troppo insolite di bassista) e John Lennon.

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La rivoluzione nella testa

The Beatles met Muhammad Ali, 1964 (3)

Quest’estate per un paio d’ore ho creduto che Sir Perceval Reginard Deafon, esq., esistesse davvero. La sua biografia spicciola l’aveva fornita Leonardo in un post di inizio agosto:

Sir Perceval Reginald Deafon, Esq., è il critico musicale che durante il suo quarantennale servizio presso il blasonato Montly British Music Magazine conseguì un singolare record: riuscì a stroncare tutti i dischi dei Beatles. Pubblichiamo per la prima volta tradotte in italiano le sue brevi recensioni, che ci offrono un altro punto di vista su una delle più importanti avventure musicali del secolo scorso.

In fondo, ci ho creduto perché volevo crederci. Non è bellissima la storia di questo signore, che immagino come un gemello cattivo di George Martin? (non George R.R. Martin, lo scrittore; George Martin il compassato produttore dei Beatles) (di questi tempi tocca spiegare tutto) (una volta quando dieci anni fa ho iniziato a tenere un blog uno mi ha chiesto se Lansdale era lo stesso delle felpe, ma spero mi stesse trollando) 
Un disinto signore inglese che si trova incredibilmente per la prima volta dalla parte sbagliata delle opinioni, costretto ad assistere alla sua nazione prima e al mondo poi che cade preda di un’isteria collettiva per quattro ragazzotti con un accento spesso come porridge e le zazzere sempre meno decenti? Continua a leggere

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Well NYC really has it all (10 di 10)

È giunto il momento di chiudere.

Sono andato a New York solo per comprare quella maglietta (nemmeno poi così somigliante), ora posso dirlo

Nel 1880 il signor Edward Clark, proprietario della fabbriche di macchine da cucine Singer commissionò allo studio dell’architetto Hardenbergh il progetto di un palazzo residenziale da costruire nell’Upper West Side dell’isola di Manhattan, all’epoca talmente poco popolato e distante dal centro della città che secondo una fortunata leggenda urbana tutti iniziarono a chiamare il futuro edificio “Dakota” perché era come se si trovasse nell’omonimo territorio indiano. In realtà la diceria pare risalire agli anni trenta del XX secolo. Semplicemente, al signor Clark piacevano i nomi indiani, almeno tanto quanto al signor Hardenbergh piaceva un’architettura di sapore tedesco e dall’aspetto vagamente inquietante.
All’epoca della sua costruzione, visto dal laghetto ghiacciato di Central Park, il Dakota si presentava così:

Tipo la dimora del vampiro. Continua a leggere

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The day the music died. Twice.

L’8 dicembre, oltre a essere una festa religiosa su cui la gente di solito ha le idee poco chiare (è il giorno in cui viene concepita Maria che è, i soliti raccomandati, immune dal peccato originale, non quello in cui l’angelo mette incinta Maria) è la Giornata Nazionale di Sparare ai Musicisti.
Tutti sanno di John Lennon, ma pochi sanno che il vero assassino non è Mark Chapman bensì Stephen King. Quest’anno sono 30 anni tondi tondi e il livello di moleste celebrazioni zuccherose del Cristo Ateo sarà ancora più elevato del solito.
A me questo tipo di glorificazione fa un po’ ridere, perché Lennon era un personaggino abbastanza lontano dal santino che ne è stato fatto nel corso degli anni. Sia nei turbolenti anni di Liverpool prima e Amburgo poi (dove i Beatles vissero da Rolling Stones tra amfetamine, prostitute, malavitosi e spacciatori), sia in quelli successivi.
Una delle infamie più memorabili perpetrate ai danni di Paul McCartney all’epoca in cui i Beatles stavano andando in frantumi è la registrazione di The Long and Winding Road, canzone che Macca aveva pensato perché diventasse uno standard per i Grandi Cantanti. E che, incidentalmente, Phil Spector o non Phil Spector, è una lagna mortale. All’epoca i quattro volevano tornare alle registrazioni in presa diretta, così Ringo suona la batteria, George la chitarra, Paul il piano e John Lennon il basso.
Il risultato è questa traccia, in cui il basso fa un po’ di tutto fuorché le note giuste (ed è facile immaginare John che sogghigna mentre sbaglia).

Ian McDonald, autore del monumentale e fondamentale “Revolution in the head”, in cui analizza tutte le registrazioni dei Beatles, definisce quello di Lennon un vero e proprio sabotaggio per rendere inutilizzabile quello che doveva essere un demo e che poi ha finito per diventare la traccia vera e propria. A me fa impazzire la “scivolata” a 1:03, che non c’entra nulla.  Comunque, le foto del Getty sono bellissime (occhio che parte Imagine a tradimento).
C’è anche un curioso aneddoto sul giovane John raccontato da Lemmy nella sua autobiografia. In pratica, i giovani Beatles sono al Cavern a suonare, tra un pezzo e l’altro un tizio urla “Lennon sei un frocio”. Lennon mette giù la chitarra, scende e chiede chi è stato. Si fa avanti uno e dice “Sono stato io, e allora?” BAM! BAM! Due craniate sul naso, il “Liverpool kiss”. E poi di nuovo sul palco. “Qualcuno ha qualcos’altro da dire? No? Ok. Il prossimo pezzo è Money”. Living life in peace, yu-hu, uhuhuh.

Ma l’8 dicembre 2004 a Columbus, Ohio, è morto, ucciso a colpi di pistola sul palco, Dimebag Darrell, chitarrista dei Pantera.
Spiegare il ruolo dei Pantera nell’evoluzione del metal alla fine degli anni ottanta in poche parole non è semplicissimo. Ascoltare Vulgar Display of Power è molto più semplice e divertente. Qui magari basta dire che per qualche anno prima che il mondo del metal piombasse nella più bieca restaurazione ottantiana, i Pantera sono stati la bandiera di uno svecchiamento del genere, di un metal che non sembrava la caricatura di qualcosa. Poi sono arrivati gli Hammerfall.
A ogni modo, Dimebag come chitarrista aveva tutto: un immenso senso del ritmo, velocità e ignoranza e un suono enorme (dato, almeno fino al 2004, solo da amplificatori a transistor; cosa molto inusuale visto che di solito i chitarristi prediligono quelli a valvole). E poi è stato seppellito in una bara dei Kiss.
Uno dei progetti a cui aveva lavorato prima di morire era il disco di Southern Metal Rebel meets Rebel, insieme al cantante country David Allan Coe e al batterista e al bassista dei Pantera.
Che è un bel disco cialtrone e rumoroso e divertente. E che spiega che i cowboy si bombano più droga che i musicisti rock.

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The catcher is on the table

La mia professoressa di inglese del triennio del liceo io non la sopportavo.
Era una di quelle persone nate negli anni cinquanta che avevano iniziato a vestirsi e pettinarsi in un dato modo (la frangetta, la gonna scozzese al ginocchio, la camicetta) attorno al 1965 e che da allora non hanno mai cambiato stile. Così tu te la immaginavi che tornava a casa e continuava a sospirare su una foto di Paul McCartney* ascoltando And I love her. Più in generale, era una persona scioccamente vendicativa nei confronti degli studenti e con una netta preferenza per la stolida ripetizione a pappagallo rispetto al ragionamento, quando si parlava di letteratura inglese. Quando le nacque il secondo figlio*** fui l’unico a non mettere una lira per non so quale regalino e a non firmarle il biglietto. Perse ogni mia stima quella volta che citai l’esistenza leggendaria di Ned Ludd in un compito in classe sulla rivoluzione industriale e lei mi chiese perché mi fossi inventato quell’origine del termine Luddismo.
Più in generale, detestavo la sua fissazione per la letteratura vittoriana, e la capacità di rendere noioso e inoffensivo praticamente qualsiasi testo che ci toccasse leggere.
C’era una cosa sola nel libro di testo che era riuscita a resistere intatta alla mortificazione scolastica. Ed era un brano del Giovane Holden.
Mi ci ero imbattuto per caso sfogliando il libro durante un’interrogazione, dopo che mi ero stufato di fare la controscena a una compagna di classe interrogata, tenendo il segno e annuendo mentre lei ripeteva quasi parola per parola non so che scheda su non so quale romanzo di Jane Austen. Ero lì che sfogliavo e di colpo, bam!, inizio a leggere questa cosa che, ehi, stava parlando a me. Stava parlando a me come da quarant’anni era lì che parlava a tutti gli adolescenti annoiati, arrabbiati e insofferenti di quella parte di mondo in cui puoi permetterti di essere un adolescente. Devo avere controllato un paio di volte che fosse lì sul serio, che non me lo fossi immaginato. Sembrava qualcosa capitato lì in mezzo per un errore, per un sabotaggio:

If you really want to hear about it, the first thing you’ll probably want to know is where I was born, and what my lousy childhood was like, and how my parents were occupied and all before they had me, and all that David Copperfield kind of crap, but I don’t feel like going into it, if you want know the truth.

Oh, certo, avevo già letto il Jack Frusciante di Brizzi, che al vecchio Holden fa più che un paio di riferimenti. Però trovarsi davanti the real thing, in un libro scolastico, era tutta un’altra cosa.
Il giovane Holden è stato l’unico libro che abbia mai preso dalla biblioteca della scuola, qualche giorno dopo. Mi sembrava giusto. L’edizione Einaudi costava troppo per le mie tasche, natale o compleanno erano troppo lontani.
Mentirei se dicessi che la lettura di Salinger mi ha cambiato la vita. Ricordo di avere letto il libro molto di fretta, in mezzo a mille altri scazzi dell’età, forse con l’ansia di riconsegnarlo in tempo.
Però quando oggi ho letto che Salinger è morto (“Uh, era ancora vivo?”) mi è tornata in mente quell’eccitante scoperta fatta tra le pagine di un libro scolastico, quel giorno in cui la scrittura ha operato la sua magia, il suo essere – come dice Stephen King – trasmissione a distanza del pensiero.

* chiaramente parteggiava per il perfido Macca, perché quando ci fece vedere in lingua originale Forrest Gump – che senza Tonino Accolla di mezzo è un film molto più bello – fui l’unico tra tutti, lei inclusa, a ridere quando Forrest ispira a John Lennon** il testo di Imagine.
** poiché tutto è collegato, Mark Chapman aveva con sé una copia di The Catcher in the Rye quando ha sparato a John Lennon.

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Post for Lennon

La faccio breve, che di lacrime su John Lennon ne avrete lette a milioni, oggi.
Quello che Mark Chapman ci ha portato via nel 1980 è stato, soprattutto, una persona intelligente e tagliente, neanche tanto sottilmente stronza e assai più vera del santino che è diventato dopo la sua morte.

C’è un aneddoto che racconta Lemmy dei Motorhead nella sua autobiografia che mi piace sempre ricordare.
Siamo a prima che i Beatles vengano presi sotto l’ala di Brian Epstein e ripuliti. Sono un gruppo di quattro tizi che si sono fatti le ossa suonando nell’angiporto di Amburgo, tra papponi, puttane, marinai ubriachi e criminali. A un certo punto, tra una canzone e l’altra, qualcuno urla “Lennon sei un frocio!”. John mette giù la chitarra, scende dal palco, va da un tizio gli chiede “sei stato tu?”. Quello dice di sì e STUD!, si prende una craniata in faccia (il “bacio di Liverpool“). Poi Lennon se ne torna sul palco e riprende a suonare.

(C’è anche il Lennon fragile e insicuro, però, che quando sente 4th Time Around, una canzone di Bob Dylan che sembra Norwegian Wood e in cui c’è il verso “io non ho mai chiesto il tuo appoggio tu non chiedere il mio” va in paranoia, convinto che la “quarta volta” del titolo si riferisca alle quattro canzone ispirate allo stile di Dylan da lui fin lì composte e che la canzone sia un messaggio per lui)
(l’emulazione di Lennon per Dylan si spingerà fino a innamorarsi di Yoko Ono. “Se lui ha avuto il coraggio di accoppiarsi con Joan Baez”, deve avere pensato, “io non posso essere da meno!”)

(poi c’è anche il Lennon che un giorno convoca d’urgenza una riunione della Apple Music per annunciare i presenti che è giunto alla conclusione che lui è Gesù Cristo)

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“Praticamente una rockstar”

What is there left for me to do in this life?
Did I achieve what I had set in my sights?
Am I a happy man or is this sinkin’ sand?
Was it all worth it?

Due premesse:
1. Mi scuso con i lettori (ma soprattutto con le lettrici), ma si finisce sempre a parlare di lui;
2. il post che state per leggere parla della copertina del numero di dicembre di Rolling Stone Italia. Solo ed esclusivamente della copertina. Non so come siano gli articoli all’interno, ma per il discorso che voglio fare è irrilevante. Il post parlerà della copertina e della copertina soltanto, del modo in cui può essere fruita come testo autonomo e la lettura che ne consegue.

Ok. Un saluto ai tre lettori rimasti, venite pure qui davanti che c’è posto.

Non ricordo di preciso da quando Rolling Stone Italia si sia messa a distribuire il titolo di “rockstar dell’anno”. L’anno scorso era toccato a Roberto Saviano. Ho ancora il numero nello scaffale dietro di me in ufficio. Non perché ci tenga particolarmente, solo che non mi ricordo mai di buttarlo. Comunque, allora quella scelta mi era sembrata stridente. E continua a sembrarmi stridente oggi, solo che ora so anche spiegarmi le ragioni.
Nel mezzo, c’è stata la lettura del saggio di David Foster Wallace E unibus pluram (EUP). Contenuto in “Tennis, Tv, Trigonometria, Tornado”, EUP è un saggio che parla del rapporto tra la televisione e gli scrittori americani contemporanei, nel quale Wallace sostiene che il post-modernismo, con il suo ricorso all’ironia disincantata nel descrivere il mondo, abbia dato vita a una generazione di autori che non dicono più nulla “sul serio”. L’argomento è ripreso da Wu Ming 1 nel memorandum sul New Italian Epic, nel quale non a caso si cita più volte Saviano. Il perché spero sia chiaro a chiunque abbia un minimo di familiarità con la sua attività di scrittore (ma anche con i suoi due spettacoli televisivi con Fabio Fazio): Saviano è quanto di più lontana da una sensibilità post-moderna e disincantata ci possa essere. Tanto che a volte anche io trovo quasi straniante questo mio coetaneo che nemmeno per un secondo sembra mai cedere alla tentazione di fare la battuta, minimizzare, accennare un commento cinico.
Al contrario, Rolling Stone Italia è un tempio dell’approccio cazzarone. Nello stesso numero, per dire, si annuncia “l’incredibile faccia a faccia fra Elvis Costello + Nick Jonas (sì proprio lui, quello dei tre fratellini verginelli!)”.
Insomma, una copertina con la faccia di Saviano e sotto la scritta “rockstar” stride come unghie sulla lavagna, perché preleva di peso una persona da dove si trova e la cala più o meno nel contesto in cui amano collocarlo i suoi detrattori: “uno che fa spettacolo”.
Magari le intenzioni erano buone, ma il risultato mi lascia, ancora oggi, perplesso.

E oggi tocca a Silvio Berlusconi.
Metto la foto qui sotto per comodità.

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Ecco. L’immagine è opera di Shepard Farey, quello del poster “Change” per Obama.
Berlusconi è raffigurato con una specie di ghigno sul volto mentre strappa in due una bandiera italiana sulla quale è scritto il suo nome, sullo sfondo di un’altra bandiera italiana.
Non solo quale fosse di preciso l’intento dell’artista, né quale sia stata la richiesta di Rolling Stone Italia, ma trovo che l’effetto finale dell’immagine sia quello che si legge in questo articolo del Giornale:

Il rock è provocazione. Non guarda in faccia a nessuno. Entra nei sancta sanctorum e puzza di blasfemo. Non rispetta la nobiltà, la storia, le tradizione. È un talento barbaro, che i custodi del passato faticano a riconoscere. Ribalta i canoni. Il rock è costretto a mostrarsi giovane anche a 70 anni. Quando il Cav entra nel club esclusivo della politica estera lascia fuori i cappelli a cilindro della vecchia diplomazia. È il cucù, le corna (rock, molto hard rock), i kapò, voce alta, scacco alla regina e tutta la geopolitica della pacca sulle spalle. Il rock avvicina, cancella le distanze, alto e basso non si distinguono più. Il motto è: «Hi fratello».

“Distruggere” è un gesto che associamo alla cultura rock. E ha un valore positivo perché, in quella moderna epopea che è “la storia del rock” intesa come fenomeno socioculturale, il rock svolge un ruolo positivo, di rottura di consuetudini e di liberazione. “Elvis ha liberato i nostri corpi e Dylan le nostre menti” diceva John Lennon. Al rock associamo blue jeans, liberazione sessuale, assenza di formalismi, istintività. In parte per innegabili motivi storici, in parte perché sono collegamenti che ci siamo abituati a fare negli anni.
Ha gioco facile la stampa di Berlusconi a usare questa copertina per glorificare quegli aspetti della figura pubblica del PresDelCons che a me fanno rimpiangere il pentapartito e Tribuna Politica. Ha gioco facile perché quella copertina (che sopravviverà molto più a lungo di qualsiasi articolo la commenti all’interno del giornale) sembra proprio, per il contesto, per quello che c’è scritto, perché nasce già per essere un’icona pop (suppongo che a breve avere una propria foto manipolata da Farey diventerà come farsi ritrarre da Raffaello) e per essere letta all’interno del sistema di valori del “pop” e del post-moderno.
Ora, non credo spetti a Rolling Stone Italia fare da baluardo contro Berlusconi. Rolling Stone Italia è una rivista che opera in un regime di mercato ed è liberissima di fare le copertine che ritiene porteranno più lettori la cui attenzione vendere ai propri inserzionisti. E le polemiche, si sa, fanno vendere.
Però, ecco, secondo me questa copertina è così goffa nell’essere un omaggio all’immagine pubblica che il PresDelCons vuol dare di sé che a me sembra più un omaggio spudorato. Esattamente il tipo di ossequio verso un potente e verso il suo culto della personalità che vorrei non vedere mai mai mai.

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