Verso Oriente – da Rongbuk a Jilongzhen (6)

La mattina del 19 agosto non è propriamente che mi svegli, perché per il freddo ho trascorso la notte alternando sonno e veglia, con il terrore di dover andare in bagno, affrontando il gelo della notte per arrivare fino alle orride latrine (e magari incontrare qualche altro sventurato impegnato a liberare gli intestini, per dire).

Per chi le avesse dimenticate

Attorno alle 5, quando è ancora buio, però, sia io sia Lucilla abbiamo bisogno di un pit stop (del resto abbiamo passato la giornata prima a bere tè caldo), così riemergiamo dal bozzolo di piumoni che abbiamo creato – praticamente già vestiti –, ci infiliamo le scarpe e riusciamo ad andare e tornare senza avere incontrato nessuno.
A quel punto non riprendiamo davvero sonno e, quando la luce che entra dalla finestra inizia a rischiare la stanza, veniamo salutati dall’alba che sorge sul versante nord dell’Everest.

Una cosa così, scattata direttamente dal letto.

Ci godiamo lo spettacolo pensando a tutti quelli che vediamo dalla finestra, al freddo sul piazzale del “campo base”, ma con la consapevolezza che abbiamo toccato il punto più alto del viaggio, con cui tutto quello che verrà dopo dovrà confrontarsi.
Anche perché, dopo la colazione, dopo la corsa sulla navetta fino a recuperare la macchina e Ghiatzu, l’autista, ci aspettando due giorni in cui si viaggerà soltanto e al termine dei quali saremo arrivati in Nepal. Oggi, in particolare, il programma prevede di arrivare fino a Jilongzhen, ultima città cinese prima del confine, che dovremmo poi attraversare il mattino dopo per poi arrivare a Kathmandu.
Ma c’è un problema.
Il Panchen Lama.
Infatti, per oggi è prevista una visita del PL (ho fatto un breve riassunto di chi sia in un post precedente, il riassunto del riassunto è che è una figura molto importante del buddismo tibetano, la cui attuale incarnazione è stata scelta dal governo cinese dopo aver fatto sparire quello designato dal Dalai Lama) a Jilongzhen e Sangpo, la nostra guida, è da due giorni che ci dice che non è sicuro che ci lascino passare, per questioni di sicurezza.
La cosa ha l’aria di essere davvero un problema, perché ce lo ripete più volte e ogni volta vuole essere sicuro che abbiamo capito (ho scoperto poi che probabilmente voleva essere sicuro che non protestassimo con l’agenzia che aveva organizzato il viaggio se ci fossero stati dei ritardi – a noi di contattare l’agenzia non era nemmeno venuto in mente).

La prima parte del viaggio ci appare terrificante.
Ghiatsu ha messo il turbo e prende quella che forse è una scorciatoia, ignorando quelli che a me sembrano dei cartelli di divieti d’accesso, cioè una strada in costruzione. Per un’ora, un’ora e mezzo, guida lungo il tracciato di una strada scavato con le ruspe. Ogni tanto ci sono gruppi di operai, tra cui molte donne, che lavorano ai bordi della strada. I macchinari sono pochissimi; se vi piace l’artigianato, venite in Tibet, le strade sono fatte a mano.

24 ore dopo, in Nepal, pregheremo per una strada così

Quando arriviamo sull’asfalto, possiamo iniziare a goderci un po’ meglio lo straordinario panorama che ci scorre attorno. Ai margini dell’altopiano svettano le montagne, tra cui il Shishapangma, l’unico ottomila interamente in Tibet. È tutto così vicino che sembra di poterlo toccare e il cielo blu mi fa ringraziare ogni centesimo speso per il filtro polarizzatore.

Avvistiamo anche un lago azzurrissimo, il Paiku Tso, dopo il quale la macchina si inerpica verso l’ultimo passo tibetano che vedremo.
Ma già da un po’ ci siamo accorti che a intervalli più o meno regolari lungo i bordi della strada sono disposti uomini, da soli, che osservano il passaggio o, per meglio dire, il nulla. Hanno al collo un grosso portadocumenti plastificato e stanno lì. Inizio a contarli e tengo d’occhio i chilometri che facciamo: secondo i miei appunti ce n’era uno ogni 15 km circa.
Cosa fanno? Sono uomini della polizia, che controllano che non ci siano problemi lungo l’itinerario che dovrà percorrere il Panchen Lama.
Per ovvi motivi, non ne fotografo neanche uno.

Quando arriviamo in cima al Ghungtang Lha, il passo più alto del Tibet, siamo a 5236 mslm e Ghiatsu si ferma perché il motore ha bisogno di riposare. Noi ne approfittiamo per scendere e fare due passi. Lucilla ha bisogno di un bagno, così ci incamminiamo verso alcune costruzioni in muratura che abbiamo visto poco più in là.
Avremo fatto duecento metri dalla macchina che ci sentiamo chiamare. Non da Sangpo. Ci voltiamo e ci sono due/tre persone di fianco alla macchina, oltre a Sangpo e Ghiatsu, che si sbracciano verso di noi per farci tornare indietro. Con un po’ più che un filo di preoccupazione, ci affrettiamo verso la macchina, io con il passaporto in mano e la mente impegnata nel casting per l’attore che mi interpreterà nel film-denuncia che verrà girato in occasione del decimo anno della mia detenzione nelle carceri cinesi. Sono abbastanza sicuro che Christian Bale farà un ottimo lavoro quando arriviamo alla macchina. Ai poliziotti, che stanno parlando un po’ nervosi con Sangpo, che pare un po’ nervoso pure lui, non interessa vedere i nostri passaporti, solo che risaliamo in macchina – traduce poi Sangpo – e ci leviamo alla svelta da lì. Tra l’altro, faccio caso, il passo è pieno di antenne e forse è un luogo sensibile al di là del Panchen Lama.
La pausa-pipì è rimandata a qualche tornante più a valle.

Al termine della discesa, varchiamo il confine tra due diverse regioni amministrative del Tibet, con passaggio di un check-point, esibizione di documenti e timbri. Dopo quello, entriamo in un centro abitato dove, ci comunica tombale Sangpo, si interrompe per il momento il nostro viaggio. Oltre, non si può andare. Ha addirittura ricevuto comunicazione che starebbero mandando i turisti stranieri fuori da Jilongzhen.
Ma comunque, intanto, ci si va a mangiare su.

Ora, si sa che quando si viaggia si mangia un po’ dove capita e non sempre è il Ritz. Né siamo particolarmente schizzinosi.
Ma il posto dove finiamo è di quelli dove guardi le mani chi porta i piatti e calcoli mentalmente quanta enterogermina hai portato (e non è abbastanza). Ci sediamo e ordiniamo qualcosa, che tanto di qualcosa si deve pur morire. E comunque non sappiamo letteralmente cosa succederà: per viaggiare in Tibet hai bisogno di un permesso emesso dal governo che elenca dettagliatamente i posti che visiterai, giorno per giorno, e dove dormirai. Tra l’altro, non tutti gli alberghi hanno la licenza per ospitare gli stranieri. Cosa succede se quella sera non possiamo arrivare a destinazione? Possiamo dormire in un hotel lì (se ce ne sono) o dovremo dormire in macchina? Dopo avere trascorso la notte praticamente vestiti ai piedi dell’Everest ucciderei per una doccia.
In tutto questo, Sangpo (che è una di quelle persone sgamatissime che sembrano essere amici di tutti) si siede non con noi ma con un gruppetto di altre persone tra cui spicca un signore ben vestito, sulla cui giacca spicca una spilletta del Partito. Poi succede tutto abbastanza in fretta. Il tizio con la spilletta esce, Sangpo lo segue. A me intanto sono arrivati i bao e quasi mi ci strozzo quando Sangpo piomba nel locale e ci fa alzare di corsa. Lucilla e io non capiamo (il primo pensiero può essere o non essere stato “ecco, ha menato quello del partito”), ma lui ci dice “ci fanno passare”. Paghiamo le bevande e i bao (non quello che ancora non è arrivato) e ci precipitiamo in macchina. Ghiatsu è in pieno momento Ryan Gosling in Drive e quasi parte sgommando.
Un nastro viene rimosso per farci passare. Ghiatsu guida come se avesse il diavolo alle calcagna sulle strade deserte, ma deve praticamente inchiodare quando troviamo una macchina della polizia parcheggiata di traverso in mezzo alla strada.
Alè, penso, è finita. Sangpo si sarà messo d’accordo con qualcuno, ma siamo finiti fuori dalla sua zona di influenza e magari qui la polizia risponde a qualcun altro e…
No, niente. Sangpo si sporge dal finestrino e si mette a sbraitare a un poliziotti di levare quella cazzo di macchina (no, non lo ha detto, ma sono sicurissimo che lo abbia pensato).
Il poliziotto obbedisce.
Increduli, attraversiamo le strade deserte impavesate a festa per il Panchen Lama, ci lasciamo alle spalle la città e, a una velocità considerevole, ci lanciamo in una strada bellissima che scorre tra pareti di roccia, costeggiando un fiume.
Certo, non abbiamo pranzato, ma magari non è stato così male. A parte che Ghiatsu sta guidando fortissimo in una strada piena di curve e io, anche se non ho niente da vomitare, inizio a sentirmi non benissimo.
Ma per fortuna riesco a non stare male davvero e arriviamo indenni a destinazione.
Nel frattempo, mi faccio spiegare da Sangpo che cosa sia successo. Sembra essere stata una cosa molto più lineare di quello che mi ero immaginato. Semplicemente, il pezzo grosso gli aveva detto che il divieto di transito/accesso non si applicava ai turisti stranieri e aveva dato indicazione di farci passare. Niente corruzione, niente opera di logoramento ai fianchi, niente parlantina giusta al momento giusto.
A Jilongzhen però qualcosa di stranetto succede. Sangpo sta per farci scendere davanti a un albergo, ma un passante (?) gli dice che si sta sbagliando e dobbiamo andare in un altro.
Non ho spiegazione per questa cosa, ma magari l’albergo qui non era stato prenotato in anticipo e il primo era pieno. Vai a sapere.

Di certo, se quello dove scendiamo ha posto non è un caso.
Di nuovo: non sempre è l’Hilton, ma a Jilongzhen ci tocca l’albergo peggiore che abbiamo mai visto. La struttura in sé non sarebbe neanche brutta, ma sembra che sia appena stato riaperto dopo mesi di abbandono e affidato alle prime persone incontrate per strade.
Alla reception parlano unicamente cinese e qualsiasi comunicazione è affidata alla versione più prosaica (ma allo stesso tempo improbabilmente poetica) del Babel Fish, cioè Google Translate. L’ascensore non funziona (o forse non c’è proprio). La camera è sporca. Le lenzuola hanno l’aria di non essere state cambiate da giorni e il pavimento del bagno non è affrontabile senza scarpe, sulla fiducia (nemmeno con le ciabatte, no). Gli asciugamani non ci sono.
A questo punto uno o dà di matto si rassegna. Noi scegliamo di rassegnarci.
Decidiamo che dormiremo vestiti sopra alle coperte anche quella sera e andiamo a fare due passi. O almeno ci proviamo, perché quando andiamo per recuperare i passaporti alla reception scopriamo che ce li ha Sangpo. Che però ha finito il suo lavoro per la giornata mollandoci in albergo e non sappiamo dove sia. Provo a mandargli un messaggio sul telefono (chiedendomi nel frattempo se legge l’inglese) ma per fortuna sta passando proprio in quel momento lì davanti e ci dà i documenti che aveva portato alla polizia per la registrazione. Poi ci dice anche che è meglio se non andiamo in giro, perché sta arrivando il Panchen Lama e c’è un sacco di polizia.
Ma figurati, pensiamo.
Infatti, facciamo cento metri fuori dall’albergo, puntiamo una strada più grande e veniamo bloccati da uno con il portadocumenti al collo che ci fa segno di tornarcene da dove venivamo.
Ce ne torniamo indietro, usciamo dalla sua vista e ci infiliamo in una stradina laterale, dalla quale sbuchiamo sulla strada principale. Facciamo giusto in tempo ad andarci a comprare due snack al supermercato (dove ci siamo noi e dei francesi, segno che altri stranieri sono passati) e cerchiamo di dare un’occhiata alla città.
Che è bruttissima.

Ed è un peccato, perché la valle in cui ci troviamo è qualcosa che non ti aspetteresti dal Tibet, ma dalle Alpi. I fianchi delle montagne sono coperti di alberi sempreverdi, ci sono rocce e cascate. Jilongzhen sta all’incrocio di un paio di valli, schiacciata tra montagne bellissime. Ci sono località rinomate sulle Alpi che hanno un contorno naturale molto meno interessante.
Ma Jilongzhen non ha alcuna ambizione di essere bella e in questo, almeno, è molto onesta. È una cittadina di passaggio, una tappa obbligata tra Tibet e Nepal, come testimoniato anche da un forte che si trova poco distante, che non fa nulla per sembrare caratteristica o attraente.
Il nostro giro si esaurisce molto in fretta e, quando ci sembra che siamo rimasti gli unici occidentali in giro e ancora non abbiamo capito bene se possiamo starci o no, torniamo in albergo.
Nella cui hall va in scena quella che potrebbe sembrare una gag. Appena siamo arrivati c’erano un paio di signori nepalesi. Quando siamo scesi la prima volta erano diventati cinque o sei, tra cui uno che sembrava Battiato che spiegava delle cose mentre un altro dormiva beato sul divano.
Ora, c’è un’intera famiglia di trenta persone.
Risaliamo in camera e aspettiamo che la situazione in strada si calmi un po’ per andare a cenare. Finalmente, quando ci sembra che i poliziotti abbiano smesso di presidiare le strade, scendiamo.
Nella hall la famiglia ha tirato fuori dai frigoriferi portatili un cenone di San Silvestro.
(Giuro, avevano pure i piatti di metallo. Sora Cesira al mare scansate proprio.)
Noi finiamo a mangiare nepalese in un locale molto decente tenuto da una ragazza gentilissima, dove assaggio per la prima volta il piatto nazionale della nazione confinante, il dal bhat (riso, zuppa di lenticchie, pollo con le spezie e verdure). Oltre al sapore, la cosa che mi è piaciuta tantissimo è che ti fanno il refill, sia del riso sia del contorno – una volta sola, però.

L’ultima notte in Tibet arriva così, alla fine di una giornata strana, una di quelle che appartengono più a un viaggio che a una vacanza, con la sensazione sgradevole di essere straniero in un posto di cui non riesci a decifrare non solo la lingua ma anche i segni di quello che hai intorno. Non abbiamo visto passare il Panchen Lama, ma allora cosa sembrava aspettare la gente per strada? Perché esattamente il poliziotto non voleva che passassimo in quella strada? Per la nostra sicurezza? Perché potevamo impicciarci di qualcosa, essere testimoni di qualche protesta?
Il sonno ci piomba addosso come una mattonata, vestiti, con il cappuccio della felpa tirato in testa, sdraiati sopra alle coperte.

Poche ore di sonno dopo (durante le quali ha piovuto senza sosta), la voce tonante di Sangpo ci chiamerà dal corridoio dell’albergo mezz’ora prima del previsto.
“Andiamo!”
Dovevamo fare prima del Panchen Lama

E dei sassi.

(continua)

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