(È parecchio che non scrivo più di libri. Provo a vedere se riesco a riprendere)
Giorgio Scerbanenco è stato un grande. Uno scrittore capace di sfornare una quantità impressionante di opere in una carriera decisamente lunga (morì neanche sessantenne, nel 1969 e pubblicò il suo primo romanzo nel 1935), tra cui si trovano alcune delle più spaventose storie criminali mai scritte in lingua italiana.
Già la vita di Scerbanenco è un mezzo romanzo: di padre ucraino e madre italiana, nasce a Kiev nel 1911, perde il padre nella Rivoluzione d’Ottobre, si trasferisce in Italia, poi perde la madre. Non finisce le elementari, fa una serie di lavori che al confronto Stephen King è un rampollo dell’Ivy League, poi finisce in editoria e addirittura cura una “posta del cuore”. Nel frattempo scrive, scrive, scrive, scrive di tutto: rosa, gialli, spionaggio, western, avventura. Tra il 1966 e il 1969 pubblica la quadrilogia di Duca Lamberti, un medico radiato dall’Ordine che si reinventa investigatore. Tre romanzi e una raccolta di racconti che raccontano la faccia feroce dell’Italia uscita dagli anni del boom. Storie nerissime, una Milano opprimente, violenza fisica e psicologica sbattuta dritta in faccia al lettore.
Molti dei cento racconti di “Il Centodelitti” sono figli di quella stessa ispirazione: sono racconti noir duri, asciutti, spesso fulminanti nella loro brevità, nelle chiuse a effetto. È emblematica “L’uomo che non voleva morire”, una storiaccia che piacerebbe a Tarantino (ne ha tratto un film per la tv Lamberto Bava nel 1989, che venne bloccato dalla censura ed è passato in tv una volta nel 2007).
Ma accanto a questo c’è un altro filone di storie in cui il “delitto” non è necessariamente un omicidio (o un omicidio) ma è qualcosa che fa naufragare la vita di qualcuno. Sono piccoli spaccati di vita, ritratti a volte appena abbozzati di solitudini, delusioni, raggiri, che non è difficile immaginare ispirati dalla lettura delle lettere che Scerbanenco riceveva come redattore di Bella o Annabella.
Sono storie scritte da uno scrittore che doveva essere un uomo molto buono che raccontava storie di cose terribili che succedono a povera gente. Senti l’ammirazione per la dignità, la partecipazione al dolore dei suoi personaggi, la compassione per chi sbatte contro un fato più grande di lui o di lei. Tragedie di una pagina, raccontate in punta di penna ma non per questo meno impressionanti. Anzi.
Poi ogni tanto è come se gli scappasse un attimo di tenerezza e all’ultimo gli mancasse il cuore di far succedere qualcosa di brutto ai personaggi, volesse provare a dare loro una piccola chance di essere felici. O di provarci. Sono racconti che sporadicamente fanno capolino, luci di stelle che sbucano in una notte nuvolosa (ma sono pochi).
Letti oggi, i cento racconti di Scerbanenco restituiscono sulla pagina le atmosfere di un’Italia che vedi a volte nelle foto in bianco e nero dei nonni: un mondo di impiegati, segretarie, commesse, laureati, ricchi, ognuno correttamente inserito nel posto che gli compete nella società. Una società a cui un perbenismo ostentato fa solo da facciata al tradimento, alla caccia ai soldi facili, alla violenza.
Non è troppo diversa dall’Italia di oggi, nei lati negativi. Forse adesso suonano strani tutti i racconti dedicati all’infedeltà coniugale come stigma incancellabile se praticata dalla donna, ma curiosamente Scerbanenco non ha sentito di dover raccontare casi di quello che oggi chiamiamo “femminicidio”, forse perché allora era impensabile che la donna avesse la libertà di provare ad andarsene da una relazione o da un matrimonio opprimente. O forse semplicemente non era nelle sue corde di narratore il “delitto passionale”.
Sono più di 400 pagine di racconti, una media di quattro pagine a racconto. Si legge “come un romanzo”, un racconto di fila all’altro. Probabilmente Scerbanenco è considerato dai più uno scrittore minore, una nota a pie’ pagina nella storia della letteratura; del resto era uno scrittore “di genere”.
Eppure, c’è qualcosa nelle sue storie, nei suoi personaggi, nel suo uso della lingua, che trascende il genere e che fa di lui uno scrittore degno di ben altra considerazione. Questa raccolta, con la sua varietà, ne mostra la versatilità, la capacità di raccontare la società e i suoi traumi (dalla fine dalla guerra alla povertà di quelli che il boom non l’hanno visto manco da lontano) quasi senza volere, mentre sta semplicemente mettendo insieme delle storie che tengano il lettore incollato alla pagina, lo distraggano, lo spaventino o lo sorprendano. E questa, secondo me, è una cosa che sanno fare i grandi scrittori.
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