Bentornati ad Autodifesa, la rubrica di commenti sui libri letti nel mese precedente.
Questa volta, sembra quasi uno speciale a tema su alcune declinazioni sul tema del tempo o, sotto altri aspetti, uno speciale dedicato quasi tutto alla fantascienza.
L’occhio del purgatorio di Jacques Spitz (Urania Collezione) non lo trovate più in edicola e dovete eventualmente chiederlo al servizio arretrati di Mondadori. Peccato, perché questo libro in un mondo più giusto dovrebbe essere un classico del fantastico assieme ai romanzi di H.G. Wells o a Frankenstein o a 1984 e meritarsi edizioni dalla vita commerciale meno effimera. La storia (reinterpretata da Gianfranco Manfredi in un Dylan Dog del 1994, “I giorni dell’incubo“) ruota attorno a una supercazzola scientifica grazie alla quale uno squattrinato e depresso pittore si trova, suo malgrado, a vedere le cose come saranno nel futuro e non più come sono nel presente. All’inizio lo scarto è solo di ore, poi diventa di giorni, poi settimane, mesi, anni, decenni, secoli, millenni, in un crescendo di dissoluzione. Non preoccupatevi: non ho spoilerato irrimediabilmente il libro, perché l’intreccio – che è poi abbastanza lineare – è un pretesto che permette a Spitz di mettere insieme visioni di ispirazione surrealista e riflessioni esistenzialistiche che costituiscono il vero senso del lungo racconto e che, per fortuna, non è possibile spoilerare. È un lungo e lucidissimo incubo, in cui il fantastico serve non a “mascherare” la realtà ma, al contrario, a farla esplodere, tenderla fino all’estremo per rivelarne l’essenza. Una vena di humour nero mitiga in parte il tono cupissimo della vicenda, lo stessa combinazione che si ritrova anche nel secondo romanzo breve ospitato dal volume, “Le mosche“, variazione sul tema della lotta tra esseri umani e invasori votati al loro sterminio in cui la minaccia non arriva però dallo spazio più o meno profondo ma dagli umili e fastidiosi insetti, che di colpo sviluppano un’intelligenza messa immediatamente al servizio di una lotta ferocissima e senza quartiere contro il genere umano. Anche qui Spitz si dimostra un abilissimo gestore del ritmo narrativo e la vicenda, per quando prevedibile, si snoda in un altro crescendo di orrore e ironia. Le parti migliori sono quelle che riguardano le reazioni di ogni stato all’invasione, con una particolare menzione per la figura da operetta dell’italietta fascista e per l’apocalittico scenario evocato per la Germania nazista. Ma in generale ci sono sparsi abbastanza spunti da dare vita a milioni di fan-fiction (in fondo è l’apocalissi zombi con le mosche al posto dei morti viventi).
Insomma, un volume che al prezzo di un pacchetto di sigarette mette insieme due bei pezzi di fantastico del primo Novecento. Tenete d’occhio bancarelle e remainders.
Se il protagonista di Spitz viaggia in avanti nel tempo con lo sguardo, il viaggio nel tempo di Jake Epping, il protagonista di “11/22/63” di Stephen King (Scribner) invece viaggia fisicamente indietro nel tempo fino al 1958. Era da parecchio tempo che non compravo un romanzo di King appena uscito; anzi, grazie ai potenti mezzi di Amazon, l’ho ricevuto sul Kindle proprio appena uscito. It’s a kind of magic, che mi sembrava giusto sfruttare per verificare subito se l’ambiziosa impresa del Re è stata coronata da successo. In “11/22/63”, infatti, lo scopo ultimo del viaggio nel tempo è impedire l’omicidio di John Kennedy il 22 novembre del 1963, nella speranza di cambiare in meglio il corso della storia. Da un’idea del genere può uscire una gigantesca cazzata o qualcosa di molto buono: King per fortuna sua ha pescato le carte giuste e ha costruito attorno a questa idea un romanzo fluviale in cui è riuscito a far stare insieme ricostruzione storica, personaggi tridimensionali e probabilmente più richiami alla sua cosmogonia di quanti io sia stato in grado di cogliere (sono stato un lettore della Torre Nera abbastanza distratto, ahimè).
Colpisce, rispetto a molti altri romanzi di King di questa mole, la rapidità con cui si entra nel vivo della vicenda: il varco temporale verso il 1958 (e ritorno) viene introdotto praticamente all’inizio del libro ed Epping, docente di un liceo del Maine uscito dal matrimonio con un’alcolista, fa il suo primo viaggio indietro nel tempo quasi immediatamente. È una cosa un po’ da episodio di “Ai confini della realtà”, ma che King riesce a spogliare da ogni possibile ingenuità e a farla sembrare assolutamente logica, così come succede con le “regole del gioco” secondo le quali il varco porta sempre nello stesso giorno del 1958 e nello stesso posto; qualunque azione effettuata nel passato che cambi il futuro viene annullata da un eventuale viaggio successivo; non importa quanto tempo si passi nel passato, nel “presente” saranno sempre passati solo due minuti.
Insomma, sembra che King abbia fretta di sbrigare le formalità il più in fretta possibile per buttarsi a capofitto nel vivo della vicenda, cosa a cui si dedica diligentemente. C’è qualche eco da Ritorno al futuro, che non poteva non essere evocato in qualche modo (l’almanacco con i risultati sportivi), e c’è un commovente incontro a Derry con due personaggi di It. La ricostruzione dell’America di fine anni cinquanta-inizio anni sessanta fatta King è precisa e oscilla tra il fascino per un mondo più semplice e il rigetto per un mondo molto più bigotto e rigido (oltre che ovviamente segnato dalla segregazione razziale); un mondo che in ogni caso sembra offrire un perfetto rifugio a una delle più persistenti ed efficaci incarnazioni del Male secondo Stephen King, vale a dire il padre di famiglia violento con moglie e/o figli. Qui ne abbiamo addirittura tre occorrenze, una delle quali è proprio Lee Oswald, l’uomo che uccise JFK (taglio la testa al toro per non entrare nel campo minato delle ricostruzioni della morte di Kennedy, argomento su cui onestamente non so abbastanza per propendere per questa o quell’ipotesi; vi segnalo solo questo breve spezzone su una delle figure di contorno più inquietanti e a suo modo kinghiane di quella mattinata texana, l’uomo con l’ombrello). Su così tante pagine di romanzo è fisiologico che ci siano alcuni momenti di stanca, specie nelle sequenze di raccordo tra le parti più importanti, ma generalmente King riesce a tenere alto il ritmo e, di tanto in tanto, a lasciare cadere senza troppo clamore frammenti di trama che troveranno completamento più avanti (così come alla fine vengono spiegate molte cose apparentemente senza senso che succedono nella prima parte del libro). Come nelle opere migliori di King, l’incantesimo per cui da un lato desideri di arrivare il più in fretta possibile alla fine del libro per scoprire che cosa succederà e dall’altro vorresti invece ritardare quel momento il più possibile per non dovere abbandonare i personaggi funziona benissimo e il libro si legge tutto sommato in fretta (anche se ovviamente leggerlo in inglese lo fa durare un po’ di più).
In questo caso, anticipare troppo della trama rovinerebbe il piacere della lettura; basti solo sapere che il finale è soddisfacente sia dal punto di vista delle implicazioni dei viaggi nel tempo sia da quello dello sviluppo dei personaggi. E che le due cose in qualche modo si sostengono a vicenda. Tenete a portata di mano i fazzoletti, in ogni caso.
“Chi non muore” di Gianluca Morozzi (Guanda) è un interessante tentativo da parte dello scrittore bolognese di riunire in un romanzo solo i due filoni della sua produzione – la commedia e il thriller-horror venato di sovrannaturale. In realtà, l’equilibrio tra i due elementi qui risulta sbilanciato sul primo versante: le tragicomiche vicende musical-sessual-sentimentali di Angie, giovane studentessa fuorisede che vive in un appartamento condiviso con improbabili coinquiline e cerca di conquistare un tormentato e sfuggente tastierista unico superstite dell’omicidio anni prima dei membri del suo gruppo, occupano la gran parte del libro e la decisa sterzata alla storia che danno le rivelazioni finali è davvero brusca. Ma nonostante questo difetto, il libro è uno spasso. Morozzi è riuscito a trovare una voce narrante femminile credibile attraverso la quale raccontare miserie, glorie e idiosincrasie del fuori-sedismo a Bologna, tra cui quella sensazione che hai che Bologna sia un po’ una di quelle cittadine lovecraftiane in cui gli abitanti hanno i loro oscuri segreti che li spingono a non dare poi così tanta confidenza a chi viene da fuori (e l’assoluta certezza che la città finisca al Parco Nord e che da lì in poi ci sia una terra misteriosa in cui può accedere di tutto, cosa implicitamente confermata nel romanzo). L’altra parte del romanzo ha degli spunti interessanti (e c’entra con i due libri di sopra) ma è troppo compressa e accelerata per sfruttarli appieno; se Morozzi fosse riuscito a bilanciare perfettamente le due parti, avrebbe tirato fuori il suo capolavoro. Così, invece, è “solo” un libro molto divertente con un finale parecchio what the fuck?
A proposito di storielline divertenti, “La vita sessuale di Alessandro Baricco” di Gianluca Colloca (Coniglio Editore) è un racconto breve in cui un gruppo di giovani italiani in vacanza all’estero si spaccia a turno per un famoso scrittore italiano per impressionare delle turiste.
Il libro è una piacevole cazzatella pieno di quelle battute e situazioni che fanno tanto ridere noi maschi eterosessuali medi ma non è oggettivamente niente di che; una lettura piacevole per una mezz’oretta di treno, con un finale abbastanza scontato.
Finita la parentesi, torniamo a bomba sulla fantascienza, con il secondo romanzo per young adults di Cory Doctorow, vale a dire “For the win” (Tor; disponible per il download in inglese qua).
Secondo me, che di Cory Doctorow in italiano si trovi pochissimo (X, vale a dire Little Brother, il suo primo romanzo per young adults è da poco disponibile presso le librerie remainder) è un evidentissimo segno della povertà e della miopia del panorama editoriale italiano, perché Doctorow è un autore che si adopera in quella che si potrebbe definire con l’espressione desueta “narrativa d’anticipazione” o con la più precisa locuzione inglese “social science fiction”. In romanzi come Little Brother, Makers o appunto For the win Doctorow racconta di un mondo “venti minuti nel futuro” per spiegare come le tecnologie stanno cambiando o cambieranno il nostro mondo sociale ed economico.
FTW è un romanzo, come detto, per “ragazzi” ma ha il pregio di trattare i suoi lettori non come dei cretini e come tale può essere trovato godibile un po’ da chiunque, credo (o almeno da me); Doctorow in questo ricorda molto R. A. Heinlein, per esempio, che scrisse Starship Troopers come un juvenile, l’equivalente di allora della categoria young adults, nonostante sia un romanzo tremendamente politico appena appena mascherato da storia d’avventura. FTW parla, principalmente, dell’economia dei mondi virtuali dei giochi di ruolo online come World of Warcraft (e tutta una serie di altri inventati per il romanzo da Doctorow, tra cui uno ambientato nella Wonderland di Carroll) per parlare dell’economia del mondo reale, dei diritti dei lavoratori, della situazione nelle fabbriche cinesi e via discorrendo. Ogni tanto l’azione si interrompe e partono delle efficaci lezioni di economia, condite da gustose metafore, per quella quella in cui si paragona l’economia a un treno in corsa (traduzione mia):
So in practice, this big engine that determines how much food is grown, whether you’ll have to sell your kidneys to feed your family, whether the factory down the road will make Zeppelins, whether the restaurant on the corner can afford the coffee beans, all this important stuff has no one in charge of it. It is a runaway train, the driver dead at the switch, the passengers clinging on for dear life as their possessions go flying off the freight-cars and out the windows, and each curve in the tracks threatens to take it off the rails altogether. There is a small number of people in the back of the train who fiercely argue about when it will go off the rails, and whether the driver is really dead, and whether the train can be slowed down by everyone just calming down and acting as though everything was all right. These people are the economists, and some of the first-class passengers pay them very well for their predictions about whether the train is doing all right and which side of the car they should lean into to prevent their hats from falling off on the next corner. Everyone else ignores them.
Quindi, in pratica, questo enorme motore che determina quanto cibo viene coltivato, se dovrai vendere o no un rene per sfamare la tua famiglia, se la fabbrica in fondo alla strada costruirà Zeppelin o altro, se il ristorante sull’angolo si può permettere i chicchi di caffè e tutto queste genere di cose importanti non ha nessuno che lo controlli. È un treno in fuga il cui macchinista è morto ai comandi, con i passeggeri che cercano di aggrapparsi come disperati mentre ciò che possiedono vola fuori dai carri merci e dai finestrini, un treno che a ogni curva rischia di uscire dai binari. C’è un piccolo gruppo di persone in corsa al treno che discute animatamente su quando il treno deraglierà o se il macchinista è morto per davvero e se non fosse possibile fare rallentare il convoglio dandosi tutti una calmata e facendo finta che sia tutto a posto. Queste persone sono gli economisti e alcuni dei passeggeri in prima classe li pagano fior di quattrini per sapere se secondo le loro previsioni il treno sta andando bene e verso quale lato della carrozza dovrebbero piegarsi per evitare di perdere il cappello alla prossima curva. Tutti gli altri gli ignorano.
Doctorow spiega i meccanismi dell’economia mentre un gruppo di ragazzini e ragazzine, americani, cinesi, indiani, lotta per i diritti dei lavoratori digitali (e non).
È un romanzo che forse i quattro anni dalla stesura hanno reso ancora più attuale – leggevo le pagine sul funzionamento dell’economia mentre saliva la febbre da spread e si parlava di default – ed è il genere di cose che avrei voluto avere a disposizione quindici anni fa. Spero che qualcuno prima o poi lo traduca in italiano, ma ci credo poco.
Dicevamo di numero speciale quasi completamente dedicato alla fantascienza; per certi versi rientra in questa categoria anche “Steve Jobs” di Walter Isaacson (Mondadori), biografia del co-fondatore della Apple morto a ottobre del 2011. Ci rientra perché in fondo Jobs è stato uno dei principali attori del cambiamento culturale per cui i computer sono passati negli anni settanta da cose gigantesche per utilizzi scientifici e industriali a oggetti di uso più o quotidiano per sempre più persone, non solo al lavoro ma anche in casa. È vero che Jobs non ha “inventato” nulla nel senso più stretto del termine, ma le sue intuizioni, la sua “visione”, sono state determinanti nel portare a un pubblico più ampio le scoperte di altri.
La biografia di Isaacson è una biografia autorizzata, un genere che di solito si presta particolarmente all’agiografia. È piuttosto sorprendente, quindi, scoprire che Jobs non ha fatto nulla o quasi per tenere fuori dalle pagine del libro gli aspetti più spigolosi e meno accomodanti del suo carattere, dalle astruse convinzioni sull’igiene personale (da giovane era convinto che mangiando solo frutta non avesse bisogno di lavarsi) al ruvido trattamento riservato alle persone con cui ha lavorato, passando per il rifiuto di riconoscere la prima figlia, Lisa. Restano però fuori controversie ben più serie degli ultimi anni legate ai suicidi negli stabilimenti cinesi della Foxconn, dove si assemblano diverse linee di prodotti Apple.
Isaacson è un biografo navigato e sa muoversi bene tra le decine e decine di interviste realizzate con le persone che hanno lavorato con Jobs, facendo scorrere una mole impressionante di avvenimenti senza particolari intoppi o momenti di stanca. Certo, il racconto della prima parte dell’avventura della Apple, che è anche il racconto della nascita dell’industria dell’home computer, è sicuramente molto più interessante di buona parte delle cose che succedono più avanti (non fosse altro perché gli eventi più recenti li abbiamo più o meno seguiti tutti “in diretta”).
Il tratto che emerge più spesso nel libro parlando di Jobs è la sua straordinaria capacità di persuasione delle persone, riconosciuta da più o meno chiunque abbia avuto a che fare con lui e definita quasi “magica”. Però allo stesso tempo quasi nessuno dà di lui un ricordo limpido, come se in un modo o nell’altro fosse riuscito nel corso della sua vita a infastidire in un modo o nell’altro, volente o nolente, più o meno tutte le persone con cui è entrato in contatto.
L’impressione finale è che la Apple senza di lui farà una fine abbastanza orribile, perché non sembra il genere di persona capace di lasciare eredi: il bizzarro mix di carisma, idee audaci e idiosincrasie che ha dato vita ai prodotti con cui la Apple si è risollevata dopo il suo ritorno a Cupertino è probabilmente destinato a morire con lui. Andranno avanti con i progetti a cui ha lavorato prima di morire ancora per qualche anno e poi, salvo sorprese, inizierà un nuovo declino. Un po’ tipo i Queen senza Freddie Mercury (tutto sommato due personaggi simili: origini esotiche – il padre biologico di Jobs era siriano –, stile di vita sregolato, idee folli sulla carta che si rivelano grazie al loro carisma vincenti, la malattia sotto i riflettori inseguiti dalla stampa scandalistica, al lavoro quasi fino all’ultimo respiro…).