
(Nota: ho cambiato retroattivamente il format dei titoli per ricalcare quello delle serie a cartoni animati. Come Kenshiro)
Inari Okami è uno dei principali kami (spiriti, dei) dello scintoismo. La sua sfera di competenza comprende: volpi, fertilità, riso, te, sake, agricoltura, industria, prosperità e successo materiale in genere. Un tempo proteggeva anche armaioli e mercanti. Secondo alcune fonti, il suo culto si è diffuso a partire dall’ottavo secolo da un santuario su una collina nei pressi di Kyoto, chiamata pure lei Inari. Che è appunto la prima meta del nostro terzo giorno di viaggio.
Il nome corretto del tempio è Fushimi Inari-taisha e ci si arriva con cinque minuti di treno dalla stazione di Kyoto. Sembra facile, perché come esci dalla stazione c’è un enorme torii (il portale di accesso a un tempio), davanti a una breve salita in cima alla quale si trovano le prime strutture del tempio.

Come ci si lavano mani e bocca prima della preghiera (si legge da destra a sinistra)
Ci arriviamo in una bella giornata (finalmente) di sole, parecchio presto. Le volpi, messaggere del dio (che in realtà pare venga raffigurato, dice Wikipedia, come maschio, femmina e/o androgino), ci fissano feroci dai loro piedistalli, i negozi vendono amuleti e souvenir, i nostri quaderni dei templi vengono timbrati e scritti.
Ma il tempio non è mica tutto lì. No.
L’intera collina è disseminata di altari a Inari, su fino alla sommità. E il sentiero che porta in cima è famoso perché è in più punti una galleria formata da centinaia se non migliaia di torii, ciascuno dei quali donato da qualcuno (privati o aziende); c’è anche un apposito tariffario.


Tariffario
Così, finito di vedere quello che c’è da vedere a valle, iniziamo a incamminarci verso la vetta.
Partiamo compatti, tutti e cinque uniti.
Poi a un certo punto Paola mette la marcia da montagna e scompare. La vedremo fugacemente in un punto panoramico, poi ripartirà dicendo “prendete la strada che sale” e non la rivedremo che a valle. Dove scopriremo che nel tempo in cui noialtri avevamo fatto la versione ridotta del percorso, rivolgendo molti pensieri a Inari, alla Vergine Maria e a svariati kami dalle fattezze animali (ungulati, per lo più) lei aveva fatto tipo un sentiero che circonda tutta la montagna.
Sarà il caldo, sarà il jet lag, saranno i gradini, sarà la schiena che mi fa male da quando mi sono alzato, ma la salita su per questa stramaledetta collina diventa una fatica improba, anche perché la ripetizione seriale di torii e di altari, migliaia e migliaia, dedicati a Inari fa sembrare di vivere in una continua ripetizione dello stesso attimo.
È spiazzante, perché ti domandi come e quando siano stati eretti tutti questi altari; e un po’ anche perché. Come si fa? Ci vuole un autorizzazione? A chi ci si rivolge?
È un po’ una frase fatta senza senso dire che qualcosa un posto unico al mondo (pure casa mia lo è, pure le acciaierie di Cornigliano), ma Inari decisamente lo è.


Non so se avete mai visto La città incantata, il film di Miyazaki. Io devo averlo visto quattro o cinque volte e ogni volta mi è rimasta quella sensazione vagamente inquietante di essere come capitato nel sogno di qualcuno, in un sistema di simboli e sensazioni che non potrò mai capire pienamente. Ecco: Inari fa all’incirca questo effetto. Ci sono degli elementi più o meno familiari (degli altari per la venerazione di qualcosa, di cui qualcuno si prende cura) ma declinati in un modo che mi risulta non comprensibile. E, di conseguenza, affascinante. Quando metto in posa il mio Cthulhu per la foto di rito faccio bene attenzione a scegliere una base che non possa in alcun modo disturbare nessuna divinità. Che non si sa mai.
Poi per fortuna c’è la sana disinvoltura giapponese nelle cose sacre a stemperare l’ambiente. Le tavolette votive su cui scrivere le proprie preghiere ne sono un ottimo esempio: qui sono sagomate come il muso di una volpe e ciascuno le decora come preferisce. Anche come fossero Lady Oscar.


A un certo punto, iniziata la discesa, succede che oltre a Paola perdiamo pure Aurora. È a quel punto che iniziano a comparire allarmanti cartelli che avvisano come comportarsi in caso di incontro con delle scimmie: non cercare di accarezzarle, non dargli del cibo, non guardarle negli occhi e in caso si facciano minacciose raccogliere dei sassi e fare finta di tirarglieli. Già ci immaginiamo epici scontri con bande di scimmie quando poi almeno Aurora la raggiungiamo.
Io, sempre più provato dall’esperienza, mi rifugio al bancone di un bar dove ordino una bevanda dal benaugurante nome di Pocari Sweat. Per fortuna non sa di sudore ma è semplicemente un Gatorade sotto falso nome (c’è una spiegazione in inglese su come in pratica abbia la stessa composizione del sudore quindi permetta di reintegrare quello che viene perduto, una roba così). Tutto questo mentre vecchine di seimila anni ci sfrecciano accanto in discesa e in salita, fresche come fiori di campo.
Rotoliamo faticosamente a valle, dove poi ci raggiunge Paola che ci infama perché non abbiamo visto tutto.

Il takoyakiaro. Foto gentilmente fornita da Lucilla.
Però non c’è tempo per recriminare. Proseguendo nel glorioso proposito “assaggiare di tutto”, ci fermiamo da un tizio che fa i takoyaki, che sono delle polpettine di pastella e polpo cotte su una piastra particolare, fatta con tante mezze sfere, un po’ come la piastra per i muffin, solo che non va in forno ma viene scaldata su un fornello. La preparazione è molto particolare: si versa il composto sulla piastra, lo si lascia cuocere per un po’ e poi, quando la parte inferiore è cotta, con dei rapidi colpi di bacchetta si gira ogni mezzasfera.
Il primo assaggio è letale, perché la palletta ha non solo una temperatura lavica, ma la pastella all’interno resta semi-liquida e si comporta esattamente come la lava. Nell’aria si diffonde un buon odorino di lingua lessata. Poi sviluppo una tecnica accettabile (siamo seduti su una panchina, senza tavolo, con la vaschetta di plastica e le orride bacchetta usa e getta), la polpetta si raffredda un po’ e si riesce a mangiarla meglio. In realtà non è un granché, il polpo quasi non si sente e la pastella è un po’ anonima. Forse era il venditore che non era il massimo; non lo so perché nonostante mi sia ripromesso di assaggiare altri takoyaki alla fine non l’ho mai fatto (e sì che a Osaka ne ho visti anche di molto invitanti) (in compenso prima di andare via da Osaka ho comprato un ciondolino di Lamù seduta su un takoyaki) (prendi questo, Miley Cyrus!).

Piange il telefono
Il programma della giornata, a questo punto, prevede la prima vacanza dai templi e un giro nella ridente Osaka.
Sulla strada per il quartiere di destinazione, però, ci sarebbe il castello di Osaka. “Vogliamo fermarci a vedere il castello?” chiedono Paola e Antonio sul treno. Io appoggio la mozione del fermarsi, pensando che usciamo dalla stazione, vediamo il castello tipo lì davanti e torniamo al treno.
AH AH AH.
Ovviamente il castello è tipo a venti minuti a piedi dalla stazione. E non ci accontentiamo di guardarlo da lontano. La mia schiena protesta con veemenza, fa caldo e l’ora per mangiare si sta sempre più allontanando.

Ora ho voglia di giocare a Shogun
Per evitare di uccidere qualcuno mi allontano dal gruppo per comprarmi un altro panino cinese al vapore (ormai alla base della mia alimentazione). Il castello, comunque, è molto bello. È la ricostruzione, finita nel 1997 in cemento, dell’edificio originale (XVI-XVII secolo) andato distrutto prima nell’Ottocento e poi quando durante la seconda guerra mondiale Osaka è stata rasa al suolo dai bombardamenti. Attorno c’è un parchetto carino, se non dovete attraversarlo con la schiena che vi fa male e il forte desiderio di essere invece seduti da qualche parte a mangiare. Comunque la cosa importante per davvero è che il castello sta nella stessa circoscrizione di Osaka dove c’è anche la sede della Capcom.

Ultimo viene il corvo. Rotolando.
Alla fine arriviamo alla nostra vera destinazione, che è il quartiere Namba, dove si trova la più che pittoresca via chiamata Dotonbori, un tempo sede di bordelli, poi di teatri, oggi famosa per i suoi ristoranti dalle sgargianti insegne luminose e/o animate.
Uno dei cartelloni luminosi più famosi appartiene però a una ditta di dolciumi e raffigura un maratoneta che taglia il traguardo.
Certo è degno di nota anche il granchione gigantesco che agita le chele.
Dice: ma avrete mangiato, no?
Del sushi al volo. Buono, eh.
Però ho scoperto che ci sono intere sale giochi piene solo di quei giochi malefici dove devi afferrare i pupazzeti con il gancio meccanico e che poi non vinci mai. In uno, vincevi delle pallette-tetta antistress. Ce n’erano un casino con i personaggi degli “sticker” di Line, il programma di messaggini che in Giappone va fortissimo.
Subito lì c’è poi Shinsaibashi-suji, una via coperta costellata di negozi, tipo un centro commerciale affollatissimo. Ricordo abbastanza vividamente un negozio di soli abiti (di marche note per l’abbigliamento umano) per cani. Cani di taglia piccola.

Persa la cognizione del tempo, partiamo alla caccia di Mandarake, una famosa catena che vende pupazzetti, manga e quant’altro usati. Sulla strada, la parte più edonista della comitiva si ferma irretita da un piccolo forno che fa croissant (a 35 yen l’uno, una roba tipo 26 centesimi) e ha un bocchettone che spara profumo di burro sulla strada.
Da Mandarake non trovo niente che mi interessi (giusto un set con Devilman e Silen, ma sono molto brutti e li lascio lì); in compenso lì fuori ci sono dei bellissimi lampioni antropomorfi che mi porterei a casa senza pensarci su due volte. Però c’è chi esce dal negozio con le gigantesche scatole di due personaggi di One Piece (siamo appena al terzo giorno di vacanza, ricordiamolo).

Scoperto il segreto della produttività dei giapponesi: hanno due ore in più al giorno.
Riattraversiamo la via dei neon bizzarri, facciamo una puntata in un negozio di elettronica e dischi (dove noleggiano i cd, come da noi negli eroici anni novanta) e torniamo all’ostello.
Quando usciamo a cena, incappiamo in una situazione incomprensibile.
Nella via dell’ostello c’è un posto che fa la carne. I ristoranti giapponesi sono molto specializzati e di solito fanno una o due cose, nelle loro diverse varianti. Questo ha disegnata sulla vetrina la sagoma di un bue, da fuori si vedono le griglie in mezzo al tavolo… Ci siamo passati davanti mezz’ora prima ed era pieno di gente, ora non c’è nessuno. Letteralmente. È vuoto.
Entriamo baldanzosi e il cuoco/proprietario ci viene incontro con la faccia preoccupata. Gli facciamo cenno che siamo in quattro, lui quasi ci spinge fuori. Noi ribadiamo quattro, lui ci accompagna fuori dove c’è il cartellone di un bar, ci fa capire che il bar è su dalle scale. Noi ribadiamo che non vogliamo andare al bar, vogliamo mangiare lì. “Beefu”, dice. Eh, l’abbiamo capito che fai il manzo, vogliamo mangiare il manzo. “Ai beefu”, diciamo. Insomma, tanto facciamo che riusciamo a sederci. Lui continua a non sembrare convintissimo, ma ci prende l’ordinazione o meglio ci dice che cosa ci porterà. Poi ce lo porta.
Nello specifico sono una quindicina di pezzetti di carne di manzo (siamo in quattro) e le salse per intingerle. Al centro del tavolo c’è una griglia a gas, abbiamo delle pinze di metallo: si prende la carne e la si mette a cuocere.
Per tutto il (breve) tempo in cui mangiamo il signore ci fissa da dietro il bancone (continuiamo a essere gli unici clienti). Poi, come finiamo, si materializza di fianco a noi con il conto già scritto su un bloc notes. Ora: io sono ligure, ma una roba così non l’ho mai vista.
Paghiamo, poi andiamo da un’altra parte a mangiare davvero che quello era stato un antipasto. E ci interroghiamo sulle ragioni del suo comportamento. Alla fine concludiamo che sicuramente stava per chiudere e non è riuscito a farcelo capire o non ha avuto cuore di chiuderci fuori.
Sarà sicuramente così.
Poi tornando in ostello ci passiamo di nuovo davanti e, sorpresa, c’è della gente dentro che mangia.
Mistero.

Il videogioco dei tamburoni sacri scintoisti.
つづく
Mi piace:
"Mi piace" Caricamento...