Venerdì, a causa dello sciopero dei treni, non ho potuto prendere un Intercity per cui avevo il biglietto. Allora ho preso un regionale, facendo un biglietto nuovo. Ho tenuto da parte il biglietto dell’IC per provare a chiedere il rimborso.
Sabato mattina ho fatto una foto del biglietto e l’ho inviato a rimborsi@trenitalia.it; sul biglietto c’era scritto “INTERNET”, perché l’avevo fatto dal sito e stampato dalla macchinetta in stazione (non so perché, ma su certe tratte non mi fa fare il ticketless). Nella mail ho anche indicato il PNR, il codice di prenotazione, del biglietto.
Poi sono uscito. Arrivo in spiaggia, tiro fuori il Kindle, che ha neanche un mese di vita (quello vecchio mi è stato allegramente rubato in treno qualche tempo fa), lo accendo e una porzione di pixel in cima allo schermo si brucia. Ogni volta che provo a riaccenderlo la situazione peggiora. Tornato a casa, scrivo una mail all’assistenza di Amazon, spiegando il problema. Mi arriva una cordiale risposta pre-compilata in cui mi si consiglia di provare a ricaricare del tutto e fare un reboot; se questo non dovesse funzionare, chiamarli. C’è anche scritto che si scusano, ma che è l’unico modo in cui possono fare la sostituzione. Ok. Provo la soluzione consigliata, ma non succede niente. Ok. Chiamo da Skype il numero dell’assistenza di Amazon e mi risponde Brian. Brian parla come Raj di Big Bang Theory. Quattro minuti dopo abbiamo finito di dirci quello che abbiamo da dirci, c’è un Kindle nuovo in viaggio verso di me e una mail con i documenti da stampare per il corriere che verrà a riprendersi il Kindle difettato. Spesa totale dell’operazione, una quarantina di centesimi di credito Skype. Questo domenica.
Stamattina mi risponde Michele, dal servizio clienti Trenitalia. Mi dice che devo portare il biglietto nella biglietteria dove l’ho fatto. È una mail scritta apposta per me, ma al confronto quella precompilata di Amazon sembra un biglietto di San Valentino. Rispondo subito a Michele e gli spiego che il biglietto è stato acquistato su internet; gli chiedo se devo andare alla stazione dove ho stampato il biglietto (sì, questo è sarcasmo). Mi arriva quasi subito un’altra risposta, in cui mi viene detto:
Gentile Cliente la preghiamo di inviare gli originali dei tagliandi del biglietto ********, a:
Biglietteria Telefonica Nazionale
Ufficio Rimborsi Internet
Viale dello Scalo S. Lorenzo,16
00185 – Roma
Fate conto che nel fine settimana mi sono dedicato alla lettura di Fantozzi e subito, leggendo “Biglietteria Telefonica Nazionale – Ufficio Rimborsi Internet”, mi sono venuti in mente tavoli in formica, schedari a muro, signorine con la voce da signorina del radiotaxi che cercano gli orari dell’accelerato Genova – Limone Piemonte del 7 febbraio 1972. A quel punto ho iniziato a fare due conti. Sicuramente devo mandare una raccomandata. E poi fare un sollecito, almeno uno. Il biglietto costa 17 euro. La possibilità di ottenere un rimborso è, al solito, remota (Trenitalia avrebbe un sistema più o meno automatizzato dal sito, ma non vale in caso di sciopero) (non chiedetevi perché: è così e basta). Il gioco vale la candela?
Ora.
Michele lavora per una società che tratta i suoi clienti come fastidi necessari.
Brian lavora per una società che ai suoi clienti cerca di fornire un servizio il più soddisfacente possibile.
Brian può essere nella vita di tutti i giorni uno stronzo, forse mentre mi parlava faceva disegnini con su scritto “italiani merda” e forse quando gli ho chiesto se poteva ripetermi una frase che non avevo capito ha fatto dei gesti al tizio nel cubicolo di fianco al suo. E Michele può essere una bravissima persona e sentirsi mortificato tutte le volte che spinge un cliente nel gorgo della burocrazia di Trenitalia.
Però, appunto, le società per cui lavorano hanno un approccio radicalmente diverso alla soddisfazione dei propri clienti. Amazon lavora in regime di concorrenza e sa che un cliente scontento è un cliente che la prossima volta si compra un lettore Sony (o ordina da un altro negozio online). Trenitalia no. Trenitalia ha sostanzialmente il monopolio sulla rete ferroviaria: pensate ai problemi che sta incontrando Arenaways per far fare fermate intermedie ai suoi treni tra Milano e Torino o ai misteriosi treni austriaci che effettuano servizio anche in territorio italiano nel silenzio più o meno assoluto (adesso, rispetto a un anno e mezzo fa, c’è un po’ di pubblicità in più). Quindi Trenitalia può sostanzialmente fregarsene. Può decidere di rimborsare solo i ritardi superiori ai 60 minuti, per esempio, senza alcuna reale conseguenza.
Quello che mi ha colpito nei due casi che mi sono capitati in questo weekend è che nel caso di Trenitalia, la responsabilità dei fatti per cui volevo il reclamo è interamente dell’azienda: sono i suoi dipendenti che scioperano e impediscono all’azienda di onore il contratto stipulato con il passeggero. È l’azienda che dovrebbe assumersi le responsabilità verso i clienti danneggiati (“Ehi, ma così l’azienda è danneggiata dallo sciopero!”: sì, l’idea di uno sciopero è proprio quella). Nel caso del Kindle, poteva benissimo essere colpa della mia negligenza: sì, Brian mi ha chiesto se l’avevo per caso bagnato o picchiato contro oggetti di ferro, e io gli ho detto di no. Immagino che quando riceveranno il Kindle rotto controlleranno se ho mentito; ma nel frattempo, sulla fiducia, me ne rimandano uno nuovo.
Morale?
Ho ordinato da Amazon, già che c’ero, una custodia per il Kindle, per evitare che il prossimo faccia qualche altra brutta fine e perché ero, da consumatore, contento di come ero stato trattato.
La prossima volta che dovrò fare un cambio di treno, invece, col cazzo che compro il biglietto giusto. Mi tengo quello che ho e, italianamente, pretenderò che il controllore (che tanto poi non è passato) mi faccia valere quello perché insomma, tanto non funziona niente, e dai e su, il biglietto ce l’ho io, mica non l’ho fatto, è anche più costoso (in realtà i biglietti degli intercity non so neanche se valgono più per i regionali; l’ultima volta che avevo chiesto, no. E probabilmente con il nuovo orario sarà obbligatorio salire in treno con la biancheria sopra agli indumenti).
(A mo’ di titoli di coda: curiosamente, Amazon guadagna un sacco di soldi e Trenitalia no. Sì, non bisogna sommare le mele con le pere, ma tant’è…)
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