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Una storia della Liberazione a Genova, i tedeschi e gli americani

A Nervi, l’ultimo quartiere a Levante di Genova, in piazza Oberdan all’angolo con via Gazzolo, c’è una targa in marmo che sobriamente recita:

IL 28 APRILE 1945 DI FRONTE A QUESTA BENEMERITA P.A.N. L’ULTIMO PRESIDIO ANCORA IN ARMI DELL’ESERCITO TEDESCO DI OCCUPAZIONE SI ARRESE ALLE FORZE AMERICANE DELLA DIVISIONE BUFFALO.
TERMINO’ CON QUESTA RESA LA CRUDELE GUERRA VOLUTA DAI NAZIFASCISTI CHE PER 5 LUNGHI ANNI CAGIONO’ TANTI LUTTI E DOLORI
AL POPOLO ITALIANO
A MEMORIA E MONITO PER LE GENERAZIONI FUTURE
A.N.P.I./P.A.N.
NERVI 27 APRILE 2014

A Genova, la Liberazione avviene in seguito a un’insurrezione che si dipana tra il 23 e il 26 aprile 1945.
Il 24 aprile sono già in mano ai partigiani diversi quartieri sia a ovest sia a est; il 25 aprile i combattimenti proseguono, i tedeschi perdono anche i quartieri centrali e alle 19:30 il generale Gunther Meinhold firma la resa al CLN, dopo che anche le vie di fuga vero la pianura padana erano state tagliate sull’Appennino.
Però si combatte ancora per tutto il giorno seguente: come appunto a Nervi, dove le truppe tedesche ancora lì asserragliate ricevono da Berlino la notizia che Hitler ha condannato a morte Meinhold per aver firmato la resa, da considerarsi quindi nulla. Nella serata del 26 arrivano in città anche le truppe alleate e a quel punto anche gli ultimi tedeschi capiscono che è il caso di lasciare perdere e si arrendono.

Ma a chi si arrendono, a Nervi?
Alla 92a divisione di fanteria dell’esercito statunitense, nata nel 1917 in seguito all’entrata degli USA nella Grande Guerra, congedata nel 1919 e riformata nel 1942. Gli uomini della 92a sbarcano a Napoli il 1 agosto del 1944, hanno il battesimo del fuoco il 24 agosto risalendo verso nord. Nonostante sia dislocata in territori dove le forze nazifasciste non sono preponderanti, i suoi risultati sul campo sono giudicati insoddisfacenti e in breve tempo la divisione finisce relegata a compiti difensivi. Inoltre ci sono problemi a rinfoltire i suoi ranghi a seguito delle perdite, perché non c’è grande disponibilità di persone da arruolarvi.
La 92a, infatti, ha una caratteristica molto particolare: è una divisione composta unicamente da neri.

I soldati della 92a divisione “Buffalo” proprio sulla breccia aperta nella barricata eretta dai tedeschi in piazza Oberdan a Nervi, 27 aprile 1945 (foto da Il Nerviese)

Gli Stati Uniti erano una nazione in cui la segregazione razziale era sancita per legge e lo sarebbe rimasta fino alla fine degli anni sessanta (per venire sostituita da una segregazione di fatto, più o meno forte a seconda degli stati). I neri e i bianchi vivevano in spazi rigidamente separati e nemmeno la guerra faceva eccezione.
Quelli della 92a erano “Buffalo Soldiers”, un nome nato negli anni sessanta dell’ottocento per designare il primo reggimento di soli neri nato nell’esercito degli Stati Uniti dopo la guerra civile. Il richiamo sarebbe alla lanugine sul capo dei bisonti, assimilata ai capelli crespi degli afrodiscendenti (seconda una versione, la responsabilità del nomignolo sarebbe dei nativi americani). Forse inizialmente era dispregiativo, ma è stato poi adottato dagli stessi soldati, tanto da farne del bisonte lo stemma della divisione. Noi sicuramente lo conosciamo per la canzone di Bob Marley, ispirata proprio ai soldati ottocenteschi (Buffalo Soldier, dreadlock Rasta / There was a Buffalo Soldier / In the heart of America / Stolen from Africa, brought to America / Fighting on arrival, fighting for survival).1

Torniamo a Nervi nel 1945, fine aprile.
I tedeschi, soldati di un Reich basato sulla supremazia razziale, si arrendono, a uomini che considerano inferiori.
Ma allo stesso tempo si arrendono ai soldati di uno Stato che ha di fatto inventato la segregazione razziale, che ha ideato in occidente il modello di una società divisa legalmente per gruppi che dovrebbero essere impermeabili, e che continuerà per altri vent’anni a sostenere legalmente quel modello (e per chissà quanti ancora a farlo informalmente, perché si possono cambiare le leggi ma per le teste delle persone non è così facile).
È un paradosso, che il testo della lapide non sfiora nemmeno da lontano, forse perché non è il suo scopo, forse perché non è venuto in mente a nessuno. Però è significativo di quanto lavoro ci sarebbe da fare sul racconto della Seconda guerra mondiale, un conflitto che per molti versi viviamo giustamente come uno scontro tra “Buoni” e “Cattivi”, ma nel quale ci sono tante sfumature e contraddizioni che spesso si ignorano.
In ogni caso, se mai passerete di lì, fermatevi un secondo davanti a quella lapide e pensateci.

  1. Coincidenza che non c’entra niente: negli anni Ottanta/Novanta un coro della tifoseria sampdoriano cantava sul bridge della canzone di Marley “Luca Vialli segna per noi” ↩︎

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Cicalone a Genova

Cicalone, per chi non lo conoscesse, è uno youtuber romano con un buon seguito (oltre 600.000 iscritti) che si è creato attraverso contenuti orientati prima allo smascheramento ironico dei fenomeni delle arti marziali (i “krav maghi”, come li chiama lui, quelli che offrono corsi in cui promettono di insegnare mirabolanti tecniche di autodifesa) e poi al racconto ravvicinato della “vita di strada”, delle situazioni di “degrado” e disagio della città, con un particolare focus sulla zona della Stazione Termini a Roma e dei quartieri di Roma.
Quest’ultimo format, che prevede una passeggiata accompagnato da un gruppo di pugili per raccogliere le voci di chi vive per strada o documentare situazioni a rischio, si è poi esteso alle zone “calde” di altre città italiane. Tra cui, nel video uscito a fine gennaio, Genova.

“Siamo stati a Genova per raccontare i famigerati vicoli del centro di Genova, da sempre temuti dagli abitanti e dai turisti , luoghi angusti dove ad ogni angolo è possibile fare un incontro poco piacevole , ci siamo fatti un giro con un gruppo eterogeneo di ragazzi di Genova ma ad un certo punto la tensione è salita e sono arrivati i soliti kamikaze che volevano impedirci di passare per certe strade”

Come è andata?

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Quelli che davvero vogliono che non si dica più niente

“Elvis oggi non potrebbe più cantare Love Me Tender perché il sesso con i canotti di salvataggio è considerato sbagliato”

Ormai la stampa italiana, purtroppo non più solo quella di destra, assomiglia sempre più a quei tabloid americani con titoli tipo ELVIS È VIVO, AVVISTATO AL CINEMA INSIEME AL BIGFOOT – per dire, oggi 5 maggio la cosa di Biancaneve sta in prima pagina sul Corriere grazie all’ineffabile Gramellini. Ci assomiglia anche quando non parla degli ultimi misfatti della dittatura del politicamente corretto, ma come si sente odore di CANCEL CULTURE si scatenano i mastini.
Ho letto il famigerato articolo all’origine della bugia secondo la quale IL POLITICAMENTE CORRETTO VUOLE CAMBIARE IL FINALE DI BIANCANEVE PERCHÉ IL PRINCIPE LA BACIA SENZA CONSENSO.
Ovviamente, la faccenda è diversa da come è stata raccontata (fingiamo tutti stupore insieme), allo stesso modo in cui lo erano altri incredibili casi tipo A OXFORD CANCELLATO DAI PROGRAMMI DI STORIA DELLA MUSICA MOZART PER FARE SPAZIO A LIL WAYNE E 50 CENTS.

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Due parole su quella cosa di cui abbiamo parlato tutti

C’è una cosa che Fedez ha sbagliato la sera del Primo Maggio, sul palco dell’Auditorium di Roma, ed è stato il tematizzare subito il suo intervento nel frame della “censura”.
Annunciando che era stato dichiarato inopportuno dalla vicedirettrice di Rai3 – e poi subito dopo pubblicando come video parte della telefonata con lei e l’organizzatore del concerto, si è innescato un meccanismo che ha distolto l’attenzione dal contenuto dell’intervento (che era adamantino) e lo ha portato su un territorio molto più scivoloso e in cui è più facile mandarla in vacca.

Infatti, c’è ben poco da dire sulle espressioni e dichiarazioni degli esponenti leghisti citate (e su molte altre, non solo da parte della Lega) che spesso passano come “gaffe”, “provocazioni”, “attacchi”.
È invece molto più complicati districarsi nell’intreccio di ragioni che stanno dietro al rapporto tra Rai e partiti, e alla particolare natura del Concertone (è una trasmissione Rai o un evento che la Rai riprende e manda in onda?).
E, infatti, in questa confusione, i destinatari dell’attacco, sguazzano felici, anche se va detto che Salvini ci ha messo un po’ a capire che era quella la chiave per uscirne e ridurre tutto a un “problema di censura interno alla sinistra” (la prima reazione infatti era stata “avete visto che aveva un cappellino della nike? E comunque io sono un papà”) (ma lo sapevate che Salvini ha dei figli? Pazzesco, non lo aveva mai detto, è una cosa su cui è molto riservato).
Va detto che già dal pomeriggio lo stesso Salvini aveva messo in guardia dai “comizi de sinistra” (detto così, come tutti quelli che come arrivano a Roma devono romanescheggiare perché è più simpatico), segno che era stato evidentemente già preallertato, però appunto lasciarsi imbrigliare nella definizione della situazione imposta da altri è stato un errore.

Infatti, delle dichiarazioni di quello che metterebbe nel forno l’eventuale figlio gay o di quella convinta che ci siano le punture che fanno diventare gay i bambini, già la sera di domenica era difficile sentir parlare. Non mi risulta che nessun giornale abbia provato a contattare gli interessati per sentire come giustificavano quelle parole; Salvini si è limitato a dire un “parole orribili” di ufficio dalla D’Urso, mentre invitava Fedez a bere un caffè e ricordava che comunque lui parla da papà e non vuole genitore 1 e genitore 2.

Di conseguenza, sancito che all’opinione pubblica poco importa di avere al governo un partito i cui esponenti hanno quelle idee lì sull’omosessualità, ci si è lanciati felici nell’ennesimo dibattito sulla Rai e i partiti, una palude in cui siamo stati già tutti mille volte e dalla quale ogni volta usciamo coperti di fango sempre nuovo.

In tutto questo, trovo ammirevole che Fedez, che potrebbe serenamente vivere di facezie e unboxing di pinzette per francobolli (o qualunque cosa faccia nelle sue stories su instagram, non lo so perché per motivi anagrafici non seguo moltissimo), si prenda la briga di infilarsi in un ginepraio del genere per sostenere un decreto legge che cerca di ridurre almeno un po’ la barbarie in cui viviamo.
Ma nonostante quella che credo sia una sostanziale buona fede, l’attivismo purtroppo non è qualcosa che si possa improvvisare. Per cui, quella stessa velocità di reazione che sui social funziona bene e la stessa assenza di filtri sono state controproducenti all’interno del contesto più ampio della politica e della comunicazione.

Per cui l’attenzione si è spostata troppo rapidamente da un tema nel quale è difficile non prendere una posizione netta – perché le affermazioni citate sono indegne – a uno in cui, alla fine, hanno ragione tutti e nessuno.
Che si somma alla prevedibile critica a Fedez, a quello che non ha detto, a quello che ha detto in passato, a chi è, a chi è stato e a chi sarà.

Insomma, per farla breve, è un caso da manuale in cui essere abili a sfruttare un canale di comunicazione non vuol dire, automaticamente, riuscire a fare lo stesso con gli altri, perché sono campionati diversi, forse sport diversi.
Forse, sarebbe bastata un po’ di foga in meno e un pizzico di strategia in più per fare uscire meglio il messaggio che si voleva lanciare.

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Alcune cose sparse su SanPa

SanPa: luci e tenebre di San Patrignano, il documentario prodotto per Netflix da Gianluca Neri e scritto da da Carlo Gabardini, Gianluca Neri e Paolo Bernardelli è un ottimo prodotto.
Inizia un po’ come un Wild Wild Country (il documentario sulla sede americana della setta di Osho) nostrano e, a un certo punto, potrebbe quasi diventare il nostro Tiger King (i felini in gabbia – di certo fondamentali in una comunità di recupero – fanno ben sperare). Ovviamente, per trattare quasi trent’anni di storia in cinque ore molti temi sono dovuti restare fuori e suscitano riflessioni o suggestioni.

La prima cosa che viene in mente è che tutta la vicenda di Vincenzo Muccioli si è svolta nel cono d’ombra di quella che ha tutta l’aria di essere la totale noncuranza dello Stato nel confronto delle comunità di recupero. Il “processo delle catene” sembra uno di quei (tanti) casi in cui la magistratura deve fare le veci del legislatore nel decidere come trattare con tematiche etico-mediche. Un tossicodipendente in astinenza psicologica può essere trattenuto? Dove inizia e finisce la sua volontà? Perché non è dotato di volontà solo nel momento in cui vuole lasciare una comunità e non quando ci vuole entrare?

Il che ci porta al secondo punto. È plausibile che la storia di San Patrignano sia nata come un’impresa spinta da buoni propositi ma che Muccioli non ha saputo (nella più benevola delle ipotesi) gestire. Per i motivi ben esposti dalle testimonianze di chi lo ha conosciuto, l’idea di circondarsi di collaboratori qualificati – psicologi ed educatori – gli suonava probabilmente inaccettabile e il tutto ha preso la china che prendono di solito le iniziative dei leader carismatici: i collaboratori più stretti vengono scelti tra coloro che più mostrano venerazione per il leader, indipendentemente dalle loro qualità.
Se poi il leader imposta tutta la sua azione sull’idea che la punizione e la coercizione siano strumenti efficaci sempre, è chiaro che il disastro è dietro l’angolo.
Muccioli sembra avere avuto un grande amore per il tossico che si redime secondo le sue direttive e un assoluto disprezzo verso il tossico in quanto tale. In questo senso, la sua “missione” sembra essere molto più narcisistica che altro: trasformare dei rifiuti della società in soggetti adulanti.

Ovviamente, a questo punto bisognerebbe parlare, con dei numeri, dell’efficacia reale della comunità di San Patrignano. Quali sono i tassi di ricaduta, dopo la fine del percorso, sono paragonabili a quelli di altre comunità gestite in modo differente? Pare che, almeno per gli anni di Muccioli, sia impossibile saperlo, visto che pure la ricerca dei sociologi dell’università di Bologna fu fatta su un campione costruito ad hoc da San Patrignano stessa. E quindi torniamo un po’ al primo punto: esistevano criteri di valutazione? Allo Stato interessava davvero qualcosa? Pare di no, visto che tribunali di mezza Italia mandavano gente a San Patrignano persino quando un’ordinanza del Tribunale di Rimini imponeva di non fare entrare altra gente.

Quello che esce incredibilmente a pezzi dal documentario non è tanto Muccioli quanto Red Ronnie, più realista del re, che riesce non solo a liquidare come fisiologico in una comunità di 2000 persone un omicidio con occultamento di cadavere ma pure a farsi immortale mentre ridacchia complice con Montanelli che elogia i metodi decisi di Muccioli paragonandolo implicitamente a Mussolini. Red Ronnie ha preso comprensibilmente male il documentario finito e ha fatto una diretta riparatrice di TRE ORE (in realtà non così straordinaria, se si pensa che l’anno scorso ne aveva fatte tre e mezza in due parti per spiegare perché non aveva voluto intervistare Freddie Mercury a Sanremo).

Bonus: il figlio di Paolo Villaggio passato da San Patrignano ha poi interpretato l’hooligan che dà lezioni di aggressività a Fantozzi.

(spesso quando mi suona il telefono penso “Chi fottuto bastardo è?”)

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Sui confini e le distanze

Willie Doherty, The Other Side

Nelle settimane in cui, zitta zitta, la curva dei contagi stava rincominciando a salire ho lavorato alle redazione del catalogo della prima mostra monografica italiana dedicata a Willie Doherty, fotografo e videomaker originario di Derry nell’Irlanda del Nord (quella della Bloody Sunday e della bella serie tv Derry Girls) .
Il catalogo lo abbiamo finito ed è pure venuto molto bene, ma nel frattempo la mostra, che doveva inaugurare il 7 novembre a Modena è finita nel limbo delle cose rimandate.

Willie Doherty, Protecting / Invading

Doherty si occupa, da sempre, del concetto di confine e molte sue opere ritraggono quello tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda. Un confine che è nato, come racconta il saggio di Declan Long che compare nel catalogo, negli anni venti del Novecento, ricalcato su tutta una serie di confini tra contee, territori, giurisdizioni che già esistevano ma ai quali non era mai stato dato particolare valore. È un confine frastagliato e schizofrenico, grazie al quale ci sono parti della Repubblica Irlandese che sono più a nord dell’Irlanda del Nord – oltre ad altre dove l’Irlanda del Nord sta a est o a ovest di quella repubblicana. Un confine che ha finito per dividere comunità un tempo unito, con l’obbligatoria casistica di proprietà o singoli edifici che si trovano a cavallo della linea di confine.

È anche un confine che è attraversato da un’infinità di strade, sentieri, cammini, che nei periodi più drammatici dei Troubles sono state quanto più possibile chiuse dalle autorità per consentire il passaggio solo attraverso punti più facilmente controllabili.
Le foto di Doherty apparentemente documentarie, sono sempre permeate da un senso di inquietudine e non è difficile immaginare i fantasmi che si aggirano nelle zone più remote del confine irlandese. Non è un caso che una delle sue videoinstallazioni più famose si chiami Ghost Story.
Una delle fotografie-simbolo della poetica del confine di Doherty è quella che si vede qui sotto, nella quale una strada di campagna è sbarrata da due blocchi di cemento che, però, possono solo fermare i veicoli – anzi, le automobili – lasciando il confine, di fatto, aperto pur essendo chiuso.

Qualche giorno fa, ho trovato quasi la stessa foto su Repubblica. Questa volta non era uno scatto d’autore, ma una fotonotizia, e non ritraeva l’Irlanda durante una specie di guerra civile ma l’Appenino (sic) emiliano durante una pandemia.

Il soggetto è lo stesso: una strada sbarrata ma fino a un certo punto. Tanto che chi ha scattato la foto è verosimilmente l’autista stesso, che è sceso dalla macchina e ha attraversato a piedi il “confine”.
E, in fondo, anche il contesto non è, con le dovute differenze, dissimile. I confini delle regioni italiani sono, in condizioni normali, tutto sommato di scarso significato nella vita di tutti i giorni. Invece, con il DPCM del 4 novembre 2020 che ha suddiviso su base regionale, l’Italia in tre fasce di rischio per il contagio da coronavirus, i confini tra regioni sono diventati di colpo significativi, perché possono separare una zona “gialla” da una zona “rossa”. E come da manuale, ci sono i casi in un cui un singolo edificio si trova a cavallo della linea, come il locale tra Toscana ed Emilia.

La cosa curiosa è che questa mostra già risuonava con l’attualità pandemica anche per un altro dettaglio: in una delle videoinstallazioni proiettate, Home, realizzata nel 2016, il personaggio, un profugo solitario, si rifugia sotto a un ponte ed estrae dallo zaino una serie di pietre che maneggia e depone con cura a terra. Prima di farlo, però, si disinfetta le mani con il gel di uno di quei boccettini che sono entrati a fare parte quest’anno della nostra quotidianità.
Nel frattempo, se qualcuno fosse interessato, fino al 16 novembre è possibile vedere in anteprima l’installazione Where / Dove che dà il titolo alla mostra, facendo richiesta a Fondazione Modena Arti Visive.

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Alla gente piace vedere la faccia di Briatore

Nel 2009, il gruppo rock milanese Ministri pubblicava il suo secondo (e migliore) disco, Tempi Bui.
Ricordo che lo ascoltai la prima volta su segnalazione di un amico, con un certo scetticismo, per poi ricredermi all’incirca all’altezza della seconda strofa della prima canzone, appunto Tempi Bui:

i tedeschi sono andati via
come faremo ora a liberarci?
Non possiamo neanche uccidere il re
perché si dice siamo noi i bersagli.

C’è questa cosa che funziona molto bene, nel disco, di dire delle cose molto precise e anche esplicite, ma con un taglio che evitava “l’effetto Punkreas”, cioè l’affrontare le questioni con una grossa dose di retorica e a suon di slogan. E che, appunto, questa amara considerazione esemplifica piuttosto bene.
Scorrendo la tracklist ci si imbatte in una canzone intitolata La faccia di Briatore. All’epoca, avevo scaricato una copia dal disco da qualcuno che per qualche motivo l’aveva ribattezzata La feccia di Briatore.
A sorpresa, la canzone non è un attacco frontale al personaggio che da un ventennio ormai aleggia con la sua presenza sul dibattito pubblico del Belpaese, facendo capolino quando meno te lo aspetti, quanto una riflessione sul fatto che “Briatore” è una distrazione che ci troviamo sempre tra i piedi perché, di fatto, funziona.
A tutti quanti piace “vedere la faccia di Briatore”, che lo si apprezzi o che lo si disprezzi.

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Angus Fangus paladino della verità

Nel 1996 esordisce PK New Adventures, una serie a fumetti che trasforma definitivamente Paperinik, l’alter-ego di Paperino nato nel 1969 come parodia dei fumetti “neri” con la K degli anni Sessanta (Diabolik, Kriminal ecc.), in un supereroe vero e proprio, con tanto di albi in formato Marvel/DC. L’idea sembra stramba, ma quello che viene fuori è uno dei fumetti più amati dai lettori di quel periodo, che si sono trovati davanti a una sintesi ben calibrata tra il mondo Disney e le trame supereroistiche.

Nel 2014, dopo diverse incarnazioni, PK si trasferisce per la prima volta sulle pagine di Topolino, con una storia in quattro parti, Potere e Potenza, scritta da Francesco Artibani, disegnata da Lorenzo Pastrovicchio e colorata da Max Monteduro. Nella quale compare questa vignetta:

(in realtà questo è un ritaglio, ma è la parte che ci interessa)

A parlare è Angus Fangus, uno dei personaggi più amati e caratteristici della serie. Giornalista di pochi scrupoli, perennemente stropicciato, odia Paperinik e non perde occasione per ridicolizzarlo, con ogni mezzo a sua disposizione.

Per tutta la serie Angus si oppone in maniere categorica a quella che lui stesso definisce “la minaccia Pikappa”. Nonostante sia testimone oculare di numerosi fatti che testimonino l’eroismo e il coraggio del papero mascherato, Fangus grazie ai prodigi della tecnica è in grado di rimontare le immagini a suo piacimento, mostrando come Pikappa non sia altro che un banale teppista che si rende responsabile di atti vandalici pur di attirare su di sé l’attenzione pubblica

Angus Fangus, Paperpedia

Nello stesso periodo, una pagina Facebook ora non più attiva, Reazioni d’anatra, prende la vignetta e cambia il testo nel balloon:

Notare lo spazio di troppo prima di “opinione” e il testo centrato male nel secondo balloon

Del resto, è lo scopo stesso della pagina, ricontestualizzare tavole e immagini dei fumetti Disney:

(in questo caso tocca a Don Rosa)

L’ironia della cosa, per chi conosce il personaggio, è abbastanza evidente. Siamo nel pieno della prima ondata dell’allarme “fake news” e a un noto manipolatore dell’informazione viene messa nel becco una frase che riecheggia Harlan Ellison: “Non hai diritto a esprimere un’opinione, hai diritto a esprimere un’opinione dopo che ti sei informato”.
Ma, ovviamente, non tutti conoscono Fangus – o non tutti ricordano esattamente chi sia davvero – e così la vignetta ritoccata inizia una sua vita autonoma su facebook, forum, chat di whatsapp e via discorrendo. Anche perché, effettivamente, il concetto è assolutamente corretto.
Finisce persino in una community disneyana come quella di Ventenni che piangono leggendo la Saga di Paperon De’ Paperoni, probabilmente ingannando gli stessi gestori della pagina, poi costretti a una correzione nei commenti:

E, in tutto questo girare, a un certo punto succede il capolavoro.
Il principe dei debunker David Puente, nel febbraio 2017, scrive un articolo intitolato I giornali, i siti di informazione e i blogger tra il pappagallo e la puttanata, nel quale stigmatizza i blogger che riprendono non verificate pubblicata da quelle testate che andavano molto all’epoca, tipo il Fatto Quotidaino, Libero Giornale – o anche dalla stessa stampa “seria”:

Questo articolo non è un attacco alla Rete, ma un invito alla riflessione molto profondo rivolto a tutti coloro che, attraverso la propria professione (giornalista o blogger), pretendono di voler informare. Fatelo, ma nella maniera corretta.

Tutto bellissimo e condivisibile, ma – ironia della sorte – che immagine piazza Puente al centro del suo post?

OOOPS

La morale trovatela voi.

Un grazie a chi ha risposto alla mia richiesta di informazioni su Twitter, tra cui lo stesso Francesco Artibani, che ha addirittura postato l'estratto della sceneggiatura originale:

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Persone, fatti, idee

Tingere di rosso la statua di Montanelli è stato un errore, in rosa come l’anno scorso stava meglio.

C’è quell’aforisma un po’ buongiornista/rancoroso di solito attribuito a Eleanor Roosevelt che recita così:

Grandi menti parlano di idee, menti mediocri parlano di fatti, menti piccole parlano di persone.

Se lo si applica al dibattito pubblico italiano, perché in fondo funziona bene nonostante l’usura da social network, il risultato è disarmante.
Esatto, stiamo parlando di Montanelli, della sua statua, di una ragazzina abissina di cui non sappiamo bene né il nome (Fatima come nell’intervista televisiva o Desmà come nella risposta a una lettera sul Corriere?), né l’età (dodici anni o quattordici) – ma di cui in compenso conosciamo le straordinarie doti di orientamento.
Però non vorrei parlare di Montanelli. O meglio, non solo di lui.
Perché quello che è successo in questi giorni, da quando I sentinelli di Milano hanno scritto una lettera al sindaco di Milano chiedendo, sulla scia delle proteste legate a Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd, di rimuovere la sua statua dai giardini di Porta Venezia, è stato dare il via a una parata di giornalisti maschi, bianchi, di mezz’età che discutono, con dettagli tra il morboso e il raccapricciante, di quanto fosse inevitabile quello che ha fatto Montanelli e che ci ricordano che grande persona fosse.

Esempio di editorialista schierato in difesa di Montanelli
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Breve storia di lunghi rapimenti

Stamattina, trovo in un articolo su Repubblica una notizia che mi incuriosisce. Silvia, ora Aisha, Romano non è il primo ostaggio italiano che si converte all’Islam durante un rapimento, ma il terzo in un anno.

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Mi incuriosisce per almeno due motivi; il primo è che ho vaghi ricordi della liberazione di Tacchetto e della compagna e praticamente nessuno di quella di Sandrini. Indice che probabilmente i loro casi, nonostante il lunghissimo rapimento di quest’ultimo, hanno ricevuto molta meno attenzione pubblica di quella che ha invece ricevuto lei.
Il secondo è che anche nel caso di Tacchetto non ricordavo di avere sentito niente riguardo a una conversione.
Così, ho fatto una ricerca sugli articoli all’epoca della loro liberazione: in quelli di Sandrini non se ne parla, nemmeno quando a ottobre è stato processato per reati commessi prima della sua partenza per la Turchia.
Idem per Tacchetto: niente alla liberazione/fuga, niente neanche dopo.
Entrambi, al rilascio, si sono presentati con la barba lunga con i baffi corti, alla maniera islamica (secondo la tradizione, Maometto la portava così). Un segno di appartenenza come la veste indossata da Silvia (a quel punto) Aisha Romano al suo arrivo in Italia.

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