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Cinque di quattro

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Per farla breve: il titolo onorifico di “quinto Beatle” è stato assegnato a così tanta gente che c’è una pagina Wikipedia apposta.
Ma la realtà l’ha detta oggi Paul McCartney una volta per tutte: se c’è mai stato un membro esterno del gruppo dotato di pari dignità degli altri, quello è stato George Martin.
Sì, Brian Epstein ce li ha portati, da George Martin, li ha tirati fuori da Liverpool e li ha ripuliti. Ma Epstein era “solo” uno che aveva visto nei Beatles, così com’erano, qualcosa su cui valeva la pena investire.
George Martin è stato quello che ha avuto la lungimiranza di capire che quei tre giovanotti sfacciati (quando alla prima sessione di registrazione chiese al gruppo se c’era qualcosa che non andava nello studio George Harrison, implume, gli rispose “beh, tanto per cominciare la tua cravatta”), avevano qualcosa da dire. A patto di levare di torno quel batterista inaffidabile, Pete Best; una cosa che Epstein non aveva mai tentato di fare.
Si fidò di loro e accettò di farli esordire con Love me do invece che con una canzone scritta da un autore professionista. Mise le mani in Please Please Me in modo da farla diventare, dal lento che era, un pezzo più accattivante e, come predetto alla fine della seduta di registrazione, il loro primo numero uno in classifica.

E poi, con pazienza, li coltivò, assecondò la loro curiosità, fu complice e istigatore di tutto quello che fecero in una manciata, bruciante, di anni.
Anni di cui non è stato un testimone ma un protagonista. Nel 1965-66 i Beatles decisero, come altri gruppi nello stesso periodo, che anche lo studio doveva diventare uno strumento. E lo studio lo “suonava” Martin con i suoi tecnici.
Se a casa avete i DVD dell’Anthology, potrebbe essere la serata giusta per rivedere la parte in cui Martin, al banco del mixer di Abbey Road, spiega Tomorrow Never Knows.

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Beatles e Rolling Stones, quanta rivalità

Una delle più durature leggende della storia della musica pop è la rivalità tra Beatles e Rolling Stones.
Da un lato i bravi ragazzi, dall’altro i ragazzacci.
Facile, pulito, efficiente.
Peccato che, nella realtà dei fatti, tra Beatles e Rolling Stones c’erano in realtà delle larghe intese. Non solo le rispettive case discografiche cercavano di coordinare le uscite per evitare di sovrapporsi, ma anche perché tra i membri dei due gruppi c’era comunque una certa frequentazione che in alcuni casi è anche sfociata in vere e proprie collaborazioni. Sono cose che sapranno in molti, ma nel dubbio, una piccola carrellata.

Per dire: nel 1962 i Beatles scazzano un’udienza con la Decca. Negli anni l’evento passa negli annali come uno dei più clamorosi epic fail della storia della discografia, ma va detto che con Pete Best alla batteria i Beatles non sembravano pronti per la sala d’incisione (sì, Pete Best era un batterista molto peggiore di Ringo)

Comunque, un anno dopo i Beatles sono i Beatles e Dick Rowe, uno dei responsabili della Decca si sta ancora mangiando le mani per avere detto a Brian Epstein “l’epoca dei gruppi con le chitarre è finita”. George Harrison un giorno lo chiama e gli dice: “Ciccio, vai a fare un salto al Crawdaddy a sentire quei tizi che suonano”. Quei tizi si fanno chiamare “The Rolling Stones” e Rowe, nel dubbio, li mette sotto contratto.
Gli Stones esordiscono su disco con una cover di Chuck Berry, Come on, di cui non sono convintissimi perché loro si sentono musicisti blues e suonare quella roba commerciale per ragazzini li mette un po’ a disagio, a punto che si rifiutano di suonarla dal vivo. Per il secondo singolo, il loro manager Andrew Loog Oldham si mette in contatto con Paul Mc Cartney e John Lennon, per i quali aveva lavorato come ufficio stampa, e chiede se per caso non hanno una canzone che avanza.
Lennon e McCartney non ci mettono molto a mettere tra le mani dei futuri rivali I wanna be your man, completandola davanti a un esterrefatto Mick Jagger (che non aveva mai visto nessuno scrivere una canzone). Non è la migliore composizione del duo, tanto che, come dirà anni dopo Lennon “la nostra versione l’abbiamo fatta cantare a Ringo”, però gli Stones la interpretano con il giusto piglio. Brian Jones ci mette una chitarra slide, il basso di Bill Wyman pulsa come si deve, Keith Richard si ritaglia un assolo mordace, Mick Jagger sprizza ardore adolescenziale e Charlie Watts è la solita sicurezza.

Sul retro del singolo compare Stoned, uno strumentale blues (Mick Jagger dice giusto ogni tanto “Stoned” e “out of my mind”) composto dal gruppo al completo, compreso il pianista Ian Stewart (vero e proprio membro originario del gruppo, escluso dalla formazione ufficiale per questioni di immagine; già Oldham doveva fare i salti mortali per non fare scoprire che Bill Wyman era parecchio più anziano del resto del gruppo). Il primo germe della produzione autonoma Jagger/Richards.

Nel giugno del 1967, Brian Jones si presenta armato di sax a una sessione di registrazione dei Beatles. Incide una parte in una canzone che si chiama You know my name, look up the number, che è poco più che un momento di cazzeggio in studio e resta chiusa negli archivi del gruppo fino a quando non esce nel 1970 come B-side di Let it be.

Qualche giorno dopo, Lennon e McCartney ricambiarono la visita e, accompagnati da Allen Ginsberg, capitarono negli studi dei Rolling Stones mentre questi stavano registrando We love you, una canzone che era un beffardo messaggio alle autorità inglesi che quello stesso anno avevano arrestato Jagger e Richards per possesso di marijuana. Era successo a febbraio del 1967, a casa di Keith Richards nel Sussex: la polizia aveva fatto irruzione e trovato droga e Marianne Faithfull seminuda (lei stessa bolla come “fantasie di poliziotti segaioli” la leggenda urbana che avesse un Mars tra le gambe e Mick Jagger che lo mangiava; all’epoca, dice, non era una che si tirava indietro, ma quella era una stronzata). George Harrison e la fidanzata se ne erano andati da poco: secondo alcuni la polizia avrebbe aspettato che se ne andassero per non trascinare i Beatles nello scandalo, ma non c’è alcuna prova.
Comunque, non accreditati, Paul e John cantano nei cori.
La canzone ebbe anche un videoclip che richiama il processo a Oscar Wilde (quella cosa che i videoclip li avrebbero inventati i Queen è una stronzata o quantomeno una grossa imprecisione).

Il 1967 è anche l’anno in cui esce Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, sulla cui copertina, tra le altre cose, è visibile una bambola con una maglia con su scritto “Welcome the Rolling Stones”. A fine anno esce il disco “psichedelico” dei Rolling Stones, Their Satanic Majesties Requests: se si guarda bene la copertina si possono notare i volti dei quattro Beatles nascosti.

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Nel dicembre del 1968 i Rolling Stones registrano per la televisione un lungo spettacolo con ospiti come i Jethro Tull (unica occasione in cui si esibirono con Tony Iommi alla chitarra), The Who e i Dirty Mac, un gruppo occasionale formato da Mith Mitchell (batterista di Jimi Hendrix), Eric Clapton, Keith Richards (nelle vesti non troppo insolite di bassista) e John Lennon.

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All you need is cash, o della parodia preventiva

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C’è un film in cui recitano Eric Idle, Micheal Palin, John Belushi, Dan Akroyd, Bill Murray, Mick Jagger, George Harrison, Ron Wood, Neil Innes, Paul Simon e Bianca Jagger.
Sul serio.
Si chiama All you need is cash ed è la prima parodia preventiva della storia del cinema, nel senso che è uscito prima del materiale che prende in giro. Continua a leggere

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La rivoluzione nella testa

The Beatles met Muhammad Ali, 1964 (3)

Quest’estate per un paio d’ore ho creduto che Sir Perceval Reginard Deafon, esq., esistesse davvero. La sua biografia spicciola l’aveva fornita Leonardo in un post di inizio agosto:

Sir Perceval Reginald Deafon, Esq., è il critico musicale che durante il suo quarantennale servizio presso il blasonato Montly British Music Magazine conseguì un singolare record: riuscì a stroncare tutti i dischi dei Beatles. Pubblichiamo per la prima volta tradotte in italiano le sue brevi recensioni, che ci offrono un altro punto di vista su una delle più importanti avventure musicali del secolo scorso.

In fondo, ci ho creduto perché volevo crederci. Non è bellissima la storia di questo signore, che immagino come un gemello cattivo di George Martin? (non George R.R. Martin, lo scrittore; George Martin il compassato produttore dei Beatles) (di questi tempi tocca spiegare tutto) (una volta quando dieci anni fa ho iniziato a tenere un blog uno mi ha chiesto se Lansdale era lo stesso delle felpe, ma spero mi stesse trollando) 
Un disinto signore inglese che si trova incredibilmente per la prima volta dalla parte sbagliata delle opinioni, costretto ad assistere alla sua nazione prima e al mondo poi che cade preda di un’isteria collettiva per quattro ragazzotti con un accento spesso come porridge e le zazzere sempre meno decenti? Continua a leggere

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Bob Dylan ad Harlem, Guccini e la Caselli, quel secchione di Fabrizio

Riassunto della puntata precedente: vado sull’archivio della Stampa, cerco la prima volta che hanno parlato di musicisti famosi. Adesso, un aggiornamento veloce pre-capodannizio.

Dicevo che i Beatles sembravano servire come passepartout per raccontare il resto della musica rock.

Vedi per esempio come viene titolato un articolo del 1965, il primo su Bob Dylan (la storica foto con Suze Ruotolo si sposta in didascalia dalle strade del Village a quelle di Harlem):

L’articolo si appoggia tra le altre cose su una dichiarazione di Lennon (“Il più intelligente dei Beatles”) che dice che Dylan ha nel cantare delle inflessioni da negro. Da lì l’articolista parte per ricondurre tutto a quello. Per esempio:

Si mette nei panni di un negro per sapere cosa prova. La sua ragazza lo pianta in asso: «Non pensarci due volte, va tutto bene — canta —. Io sto dalla parte buia della strada, non pensarci due volte, va tutto bene».

I Doors, curiosamente, sono accolti parecchio bene. Forse le voci degli eccessi di Morrison non sono mai arrivate fino a Torino, perché le prime menzioni che trovo, il 12 giugno 1968 e il 29 ottobre dello stesso anno sono recensioni, favorevoli, dei loro singoli, perse in mezzo ad altre cose più o meno improbabili.

"un po' astruso"

 

Fanno capolino anche nel bill del Festival dell’Isola di Wight, a cui viene dedicato un articolo in una terza pagina di tutto rispetto, il 25 agosto del 1970:

Il signor Knaus, benefattore delle mammane.

Il festival viene presentato, dopo i soliti discorsi sugli idoli dei giovani, così:

Al festival saranno presenti anche sacerdoti che distribuiranno ai capelloni fuggiti da casa cartoline, gratuite da inviare ai genitori, almeno per fare loro sapere che non sono morti. Altri religiosi si terranno pronti ad assistere ì ragazzi in bisogno spirituale (o nel corso di un «viaggio» allucinogeno andato male). La gente del luogo è tollerante, dopo l’invasione dello scorso anno, è pronta a tutto, purché i ragazzi non spaventino gli animali. Non mancano i critici, naturalmente. Un ex colonnello vuole che i poliziotti aggrediscano a frustate i barbuti e zazzeruti ribelli. «Rumore, fornicazione, droghe, sporcizia, rifiuti», così ha definito il festival l’ex militare. La classe media soffre a vedere i propri figli educati nelle «Public Schools» finire negli stracci di una ribellione che di musicale ha solo il nome. Il «potere dei fiori» è morto, sono rimasti gli spettacoli. Per oggi, è atteso Leonard Cohen, professione cantante. Per aderire al Festival, ha preteso di essere accolto da una scorta di sei motociclisti.

Un po’ di metal? Gli Iron Maiden vengono citati per la prima volta in un articolo del 1981 che parla dei Saxon:

Un bignami della NWOBHM

C’è poi, in aprile, un reportage da un concerto dei Maiden all’Ariston di Sanremo:

Paul Di'Anno dice ai giovani fan di stare lontani dalla droga perché se cala la domanda i prezzi si abbassano.

E gli italiani? Tipo: Guccini. Eh, Guccini.
Articolo sul Festival di Castrocaro del 12 ottobre 1967:

Caterina Caselli è arrivata nell’alone di una curiosità creata dalle notizie di un suo presunto fidanzamento segreto con Francesco Guccini, studente universitario, bravo interprete di pezzi con la chitarra, autore tra l’altro delle più recenti canzoni da lei incise: Per fare un uomo e Dio è morto. Le chiediamo: «A quando il matrimonio?». Lei risponde con vivacità, ridendo: «Con Francesco non ci sarà matrimonio. Il fidanzamento è tutta un’invenzione». Ma è davvero questa la verità?

Noi di Buoni Presagi crediamo di no.
De André invece, fin da subito, fa la figura del primo della classe:

 «Quando carica d’anni e di castità / fra i ricordi e le illusioni / del bel tempo ohe non tornerà / troverai le mie cantoni  nel sentirle ti meraviglierai che qualcuno abbia lodato / le bellezze che allora più non avrai». Così si inizia il «Valzer per un amore», di Fabrizio De André: il pezzo più commerciale fra quelli finora scritti, musicati ed eseguito dal giovane cantautore genovese. Fabrizio è un umanista, studioso di teatro e di storia dell’arte, di letteratura, laureando in legge (con una tesi sul diritto di sciopero), ammiratore di George Brassens, appassionato del Rinascimento. E dello spirito rinascimentale le sue composizioni hanno la voglia di vivere, la malinconia sottile e la gioia ‘esaltata del «Carpe diem ». Ha scritto finora poche canzoni, ma «Il testamento» e «Il ritorno di Carlo Martello dalla battaglia di Poitlers» sono inserite in quasi tutti i juke-boxes e nel repertorio delle orchestrine dei locali notturni. Le altre sue composizioni sono «La ballata dell’eroe», «La guerra di Piero», «La ballata del Michè», «La canzone di Marinella». Insieme con altri quattro pezzi nuovi, verranno incise nel primo long-playing di Fabrizio, che uscirà a fine mese. Di essi, due sono canzoni di origine medioevale, «Fila la lana», dalla ballata di un Trovatore lorenese del ‘400, forse Bertrand de Villecroix, e «Tieni la vita mia», composizione anonima francese, del ‘500, il cui titolo originale era «Belle qui tiens ma vie captive dans tes yeux». Insieme con un amico, attore e chitarrista, anch’egli genovese, Vittorio Centanaro, Fabrizio le trovò a Parigi, nello sgabuzzino di un vecchio negozio di musica.

Che fine avrà fatto Anna Marchetti, la nuova Mina scoperta al circo?

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Quando i Beatles erano un duo di urlatori

L’archivio della Stampa permette di fare ricerche su tutte le annate del giornale, dal 1867 a oggi.
Uno strumento potentissimo per fare ricerche su “come eravamo” senza spostarsi da casa per andare in biblioteca. Sono certo che ci sia gente che lo usa per cose altissime e utilissime. A me, invece, è venuto in mente di andare a cercare cosa scriveva il giornale della FIAT degli eroi della musica moderna.
Il primo esperimento è stato succosissimo:

Questa anonima “fotonotizia” del 28 ottobre 1963 è stata evidentemente passata senza sapere bene di che cosa si trattasse, visto che il redattore ha deciso che questi “Beatles” dovevano essere un duo, tipo gli Everly Brothers, visto che nella foto sono in due. Così Harrison non solo è immortalato brancato da una giovane svedese ma diventa persino titolare al 50% dell’impresa.
La seconda menzione dei Beatles in quel di Torino è di sfuggita, in un articolo sulla crisi del cinema inglese del 7 gennaio 1964:

Nel 1953 c’erano in Inghilterra oltre quattromilacinquecento cinematografi. Adesso ne sono rimasti duemila. Tutti gli altri sono stati trasformati in sale da ballo, dove la gioventù inglese impazzisce per i «Beatles», un gruppo orchestrale di quattro urlatori

La terza volta che si parla di Beatles, il 16 gennaio 1964, è con un articolo e una foto tutti per loro:

Di nuovo, nell’articolo, George suo malgrado sale sugli allori:

I «Beatles» sono quattro, tutti di Liverpool, hanno dai 20 ai 23 anni e si chiamano Ringo Starr, John Lennon, George Harrison e Paul Cartney. Il primo suona la batteria, gli altri tre suonano la chitarra. John, che è ammogliato ed ha una figlia, scrive con George le parole e la musica delle canzoni che mandano in estasi le ragazzine britanniche.

In riva al Po dovevano avere un debole per il Beatles schivo, ma dovevano essere anche parecchio spaventati da queste orde di giovani urlanti.
Il primo titolo dedicato ai Rolling Stones è un capolavoro, in questo senso:

È l’agosto del 1964 e nel sottotitolo c’è la parola “soqquadro”. Il resoconto è purissimo rock and roll:

I primi incidenti si sono verificati al termine di un’esibizione dei « Rolling Stones », cinque giovani inglesi che suonano le musiche moderne più vivaci e che appunto al Casinò di Scheveningen avevano raccolto migliaia di fanatici ascoltatori. Che cosa sia successo esattamente non è possibile sapere. La polizia, quando è intervenuta in forze, accorrendo persino dall’Aia, ha avuto il suo da fare a dividere gruppi di ragazzi e ragazze, che si picchiavano o si dedicavano ad atti di vandalismo contro i negozi, gli alberghi e le automobili. Una ragazza è. stata trovata completamente svestita e gli agenti l’hanno ricoperta alla meglio con un impermeabile. Altre due ragazze di sedici e diciassette anni si sono presentate spontaneamente alla polizia, piangendo e sostenendo di essersi trovate spogliate nel mezzo della mischia.

È invece il 19 luglio del 1968 la prima volta che Jimi Hendrix fa capolino sulle pagine della Stampa, in un box di micro-recensioni:

La mia notizia preferita su Hendrix però è quella successiva, su StampaSera del 3 dicembre 1968, intitolata “SACERDOTE FA SEQUESTRARE LA COPERTINA DI UN DISCO”:

Un sacerdote ha visto la copertina in un disco esposta in un elegante negozio della Crocetta, si è scandalizzato e dopo una breve discussione con il commerciante ha telefonato in questura ed ha chiesto l’immediato sequestro della fotografia incriminata che raffigurava donne nude. L’ispettrice di polizia e gli agenti che la accompagnavano erano imbarazzati ed hanno deciso di «ritirare» la copertina. Sulla singolare questione deciderà in giornata la magistratura. La fotografia a colori rappresenta un folto gruppo di donne nude, in una posa che ricorda certi famosi dipinti di Delacroix. E’ la copertina di un disco di musica psichedelica con interprete il capellone inglese Jimi Hendrix. Appartiene alla Casa «Track» e non viene normalmente distribuito in Italia. L’ha comprato, durante una recente visita a Londra, Mario Pecol, che è appunto titolare del negozio di corso De Gasperi n. “7-bis. L’altra mattina un sacerdote ha notato la copertina, è entrato nel negozio ed ha chiesto al Pecol di toglierla immediatamente dalla vista dei passanti. «Ma se va in una qualunque edicola — ha ribattuto il commerciante — trova fotografie molto più scandalose di questa». Il religioso ha insistito, quindi si è rivolto per telefono alla squadra del «Buon costume». Pochi minuti dopo l’ispettrice di polizia Giuliana Cervini era nel negozio in compagnia di due agenti. Era la prima volta che le capitava di dover intervenire per il sequestro di un disco. Si è consultata a lungo con i colleghi, quindi ha ritirato l’oggetto della contestazione rilasciando una ricevuta nella quale si legge che il provvedimento è stato preso «per far fotografare in questura la copertina». In giornata l’ispettrice-capo di polizia, dottoressa Meini, si reca dal procuratore della Repubblica di Torino perché decida se mantenere il sequestro oppure restituire al negoziante la copertina incriminata.

È un quadretto bellissimo con il prete, l’ordine costituito, il negoziante che va a Londra a comprare i dischi che in Italia non si trovano. E mi piace pensare che in questura la fotocopia della copertina sia rimasta appesa in molti armadietti per anni. Purtroppo non ci sono più notizie al proposito.

E gli Who?
Facile. Stampa Sera, 24 agosto 1966, rubrica delle domande dei lettori:

Chitarre infrante
Perché i Beatles si chiamano Beatles?
Elena Delogu, Roma

«Beatle» significa scarabeo. I quattro cantanti hanno scelto per il loro complesso questa denominazione perché nell’abbigliamento e soprattutto nell’acconciatura dei capelli somigliano vagamente a coleotteri. Il mondo della musica leggera anglosassone (e per riflesso anche il nostro che lo imita molto) è pieno di simili stravaganze. In Gran Bretagna accanto ai Beatles sono celebri i Rolling Stones «pietre ohe rotolano», dal proverbio «a rolling stone gathers no moss»; cioè «pietra che rotola non prende muffa», gli «Animals», i «Pretty Things» (= «Cose carine», detto ironicamente, perché son molto brutti) i «Kinks» (= «grilli per la testa» o anche «accessi di tosse»), la chiassosissima «Band of Angels («banda di angeli») e, ultimi arrivati, i «Who» (= «Chi», cioè invece d’un nome han scelto un pronome). I «Who» hanno la caratteristica di spaccare deliberatamente le loro chitarre sulla scena. I «Beatles» al confronto paion musicisti da salotto del ‘700.

Si noti che il redattore sfata la cattiva traduzione “Beatles – scarafaggi” e che sembra essere decisamente sul pezzo per quello che riguarda la musica inglese.

I Beatles sono comunque ancora nel 1970 il perno attorno al quale far ruotare la spiegazione del rock. I Led Zeppelin, per esempio:

Londra, 17 settembre. E’ la fine di un’era: i Beatles hanno ceduto il trono della musica pop al quartetto dei Led Zeppelin. L’avvenimento è stato definito «una rivoluzione pop» dal settimanale «Melody Maker», i cui lettori hanno decretato il tramonto dei lungocriniti ragazzi di Liverpool. Ma, come dopo ogni rivoluzione, è valido anche in questo caso il detto «plus ça changen». Gli Zeppelin sono un complesso rock, nella tradizione dei Beatles. Essi, tuttavia, rappresentano la musica underground, cioè quella del mondo semi-clandestino hippie, più dei Beatles, che da sei anni facevano ormai parte dell’establishment musicale, e sociale, britannico. E’ stata una «rivoluzione nella rivoluzione». Gli Zeppelin hanno conquistato il primo posto tra i complessi inglesi ed internazionali, oltre a quello per il miglior album britannico. Al secondo posto, i Beatles, ormai divisi e in declino. Non hanno giovato loro i miliardi, le onorificenze, le attività cinematografiche, i litigi, il distacco anarchico dalla gioventù britannica in continua evoluzione. John Lennon dipinge e fa il rivoluzionario, Paul McCartney incide dischi per conto suo, George Harrison si occupa di filosofie orientali e Ringo Starr, il meno dotato musicalmente, suona la batteria a casa propria. I Beatles hanno rappresentato per la gioventù meno sofisticata d’Inghilterra ciò che fu il commediografo John Osborne («Ricordo con rabbia») per la classe media degli Anni Cinquanta. La musica, le idee, le evasioni oppiacee dei quattro musicisti hanno effettuato una rivoluzione nei costumi della gioventù britannica. Il mondo dei Beatles, prima romantico, si stemperò nella magia allucinogena di Sergeant Pepper, quindi nella delicatezza formale di Abbey Road, per scivolare nella relativa mediocrità di Let it be. Gli Zeppelin raccolgono l’eredità dei Beatles e portano nuovi valori, sia pure incerti e talvolta eccentrici, della ribellione underground, non solo musicali. Non nasce quella società alternativa che promuovono con le loro attività, ma in compenso si arricchiscono. I Led Zeppelin hanno già guadagnato tre miliardi di lire. I loro nomi forse diventeranno famosi quanto quelli dei loro predecessori. Jimmy Page è il chitarrista, John Bonham è il batterista, John Paul Jones si avvicenda ai vari strumenti e Robert Plant è un ottimo cantante. I loro dischi più famosi sono Whole gotta love e How many more times. Sono ragazzi capaci di sviluppare una musica emotiva con ritmi piacevoli non privi d’un forte swing. Non amano le luci della ribalta, non hanno mai inciso un disco a 45 giri, né sono mai apparsi alla televisione britannica. La loro musica, dicono i fans, fa «partire» chi ascolta, è capace cioè di dare sensazioni simili ad un «viaggio» psichedelico. Anche sul loro conto, tuttavia, già circolano voci di una probabile scissione. Ieri sera gli Zeppelin sono venuti appositamente dalle Hawaii, dov’erano in vacanza, a Londra, per partecipare ai festeggiamenti in loro onore al Savoy Hotel. Robert Plant è stato anche nominato il cantante più popolare della Gran Bretagna. Al ricevimento mancavano i Beatles sconfitti. Dalle loro lussuose dimore di campagna, John, Paul, Ringo e George non hanno commentato la sconfitta. Con gli Zeppelin, tuttavia, non si ripeterà la «beatlemania». I nuovi idoli della musica pop non hanno nuovi messaggi da dire ai giovani inglesi. Venderanno più dischi, ma saranno sempre i Beatles ad avere rappresentato una svolta determinante nella musica pop dei nostri tempi.

L’ho copiato tutto perché comunque è un bel pezzo in diretta dalla fine di un’epoca. Il 24 novembre del 1970, “Led Zeppelin III” figurava come disco da regalare “alla ragazza beat”.

A sorpresa, i Deep Purple appaiono per la prima volta in un box di consigli discografici,il 25 febbraio 1969, così:

E i Black Sabbath? La loro prima citazione è in un articolo del 4 agosto 1970 sui riti satanici (figuriamoci):

Le mode girano. La stregoneria è ormai l’ultimo grido della generazione pop e i « figli dei fiori » stanno cedendo il passo ai «figli di Satana». Un avido commercialismo già sfrutta la nuova voga demenziale: gli  opuscoli sulle pratiche occulte e le ristampe dei vecchi trattati di magia nera si moltiplicano; l’arte informale volge al «prisma magico» (proprio a Roma un pittore esperto in astrologia e geomanzia ha tenuto una mostra) e abbiamo i dischi della dannazione ritmica, abbiamo i complessini musicali, come Black Sabbath e Black Widow (inglesi, naturalmente: da dove, se non dalla Gran Bretagna può partire l’offensiva degli spettri?), specializzati in «messe nere» sceniche e così via.

C’è anche il resoconto di un travagliato festival palermitano del 1971 in cui i nostri hanno diviso il palco con, tra gli altri, Bobby Solo, nel settembre del 1971:

Assenti i Circus 2000, assenti i Mungo Jerry, rinunciatari gli Osanna per non essere stata accolta la loro richiesta di esperti addetti alle luci, mentre dal canto loro i Black Sabbath facevano le bizze perché pretendevano di  giungere alla Favorita in «Rolls Royce». In queste condizioni, Joe Napoli si è visto costretto a ripresentare Claudio Rocchi, i «Delirium» e Bobby Solo, i quali si erano già esibiti nella seconda serata. Le esecuzioni dei «Delirium» e dei «Black Sabbath » hanno salvato lo spettacolo dal grigiore, ma la loro esibizione ha avuto come risvolto un’ondata incontenibile di entusiasmo. Le transenne sono siate abbattute e il palcoscenico è stato invaso dal pubblico.

(continua? Continuerà?)

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Autodifesa – luglio 2011

Peter Gunnarson era uno svedese che arrivò in Nuova Svezia (la colonia svedese lungo il fiume Delaware) nel 1640. Giunto sul continente americano, prese il nome di Rambo, che era la contrazione di “Rambergetbo”, cioè “quello che viene da Ramberget”, un’isola nei pressi di Gothenburg. Coltivatore prima e uomo politico poi, diede il suo nome a una varietà di mele.
Nel 1968, in Pennsylvania, un giovane aspirante scrittore nato in Canada sta rimuginando sul nome da dare al protagonista del romanzo che ha intenzione di scrivere.  E quello che succede ce lo racconta lui:

One of my graduate school languages was French, and on an autumn afternoon, as I read a course assignment, I was struck by the difference between the look and the pronunciation of the name of the author I was reading, Rimbaud. An hour later, my wife came home from buying groceries. She mentioned that she’d bought some apples of a type she’d never heard about before. Rambo. A French author’s name and the name of an apple collided, and I recognized the sound of force.

Una delle lingue che studiavo era il francese e, un pomeriggio d’autunno, leggendo uno dei testi del corso, sono rimasto colpito dalla differenza tra come si scriveva e come si pronunciava il nome dell’autore che stavo leggendo, Rimbaud. Un’ora dopo, mia moglie è tornata a casa dopo aver fatto la spesa. Mi ha detto che aveva comprato alcune mele di una varietà di cui non aveva mai sentito parlare. Rambo. Il nome di un poeta francese e quello di una mela si scontrarono e riconobbi il suono della forza.

More about First BloodInsomma: uno dei personaggi iconici del XX secolo deve il suo nome, per vie traverse, a un colono svedese e a un poeta francese.
Tutto questo per dire che ho letto “First Blood“, il romanzo di David Morrell pubblicato nel 1972 dal quale Sylvester Stallone trasse un film dallo stesso titolo, che in Italia è arrivato come “Rambo”.
La storia credo che la conoscano pure i sassi: un reduce del Vietnam arriva in una cittadina, lo sceriffo del luogo lo scambia per un vagabondo e cerca di farlo andare via, lui non se ne va, lo sceriffo lo arresta, lui scappa, si rifugia nei boschi e inizia il suo Vietnam personale contro gli uomini che cercano di fermarlo.
Morrell è stato bravo e attento a caratterizzare entrambi gli antagonisti con la stessa cura. Rambo non è il protagonista assoluta, ma divide il ruolo con lo sceriffo. I capitoli alternano il punto di vista di ciascuno e i due uomini sono più simili di quanto non possa sembrare a prima vista. Alla fine, anzi, è sostanzialmente un romanzo sull’incapacità maschile di comunicare: a scongiurare tutto il macello sarebbe bastato che nel loro primo incontro i due si fossero parlati un pochino di più. E invece diventa uno scontro tra cazziduri ciascuno tutt’altro che disposto a cedere sul punto. Colpisce molto la caratterizzazione di Trautman, che invece che essere la figura paterna che ricordavo dal film è un freddo addestratore in serie di assassini. In generale, rispetto al film, è molto più radicale e problematico il tema dei reduci del Vietnam, che resta del tutto (e drammaticamente) irrisolto.
Ci sono ovviamente un sacco di sequenze di azione ben orchestrate, però Morrell non è che sia il più bravo scrittore del mondo.
Ha avuto un’ottima idea, l’ha messa giù ordinatamente e con tutti gli snodi al punto giusto, ma si sente comunque che è il tipico romanzo americano da “scuola di scrittura”, privo di quel qualcosina in più che lo renda davvero indimenticabile.

More about Assassinio sull'Orient ExpressSe c’è invece qualcosa che rende indimenticabile un classico come “Assassinio sull’Orient Express” di Agatha Christie è quel distaccato contrasto che c’è tra la compostezza della messa in scena della storia, tutta molto in punta di forchetta, e la ferocia e la brutalità, degne di un romanzo noir, che c’è sotto all’atmosfera rarefatta dei vagoni di lusso. Non so se si possa parlare di spoiler per uno dei gialli più famosi dell’universo, ma immagino che come non l’avevo ancora letto io ci sia altra gente che non conosce i particolari della storia e sarebbe un peccato rovinare il gusto della sorpresa.
Per inciso, la mia edizione è quella uscita a luglio nella nuova veste grafica del Giallo Mondadori, che ha un formato più grande e un font di dimensioni più generose, per venire incontro alla triste realtà che il pubblico della collana è per la maggior parte composto da gente di una certa età che inizia a fare fatica a leggere. O questo o è Maurizio Costanzo, che tra le mille altre cose fa pure il direttore del Giallo, che non ce la fa più a leggere.

More about I delitti della speranzaI delitti della Speranza” di Javier Calvo (Baldini & Castoldi Dalai Editore) (l’ultimo chiuda la porta) è un romanzo ambientato nella Barcellona del 1877, sconvolta da una serie di efferati delitti proprio mentre l’industrializzazione sta cambiando il volto della città. Si presenta apparentemente come un giallo (e in effetti l’impianto narrativo è quello del giallo) ma rapidamente si capisce che Calvo non sta scrivendo un bel romanzo in costume di menti razionali alla ricerca di un assassino con addosso i loro bei abiti ottocenteschi. Uno dei personaggi sembra un incrocio tra Sherlock Holmes e uno scienziato pazzo (più scienziato pazzo, a dire il vero), l’atmosfera è quella di un horror che sembra flirtare con il sovrannaturale (l’irrazionale ha una buona parte nella storia, senza però che si arrivi mai nel fantastico vero e proprio) e tutto il romanzo è come se si svolgesse in un pozzo nero. Se un paragone va fatto è con la Londra descritta da Alan Moore ed Eddie Campbell in “From Hell”, il capolavoro sulla storia di Jack lo Squartatore (il film con Keanu Reeves è solo un buon giallo in costume, il fumetto è un’opera letteraria colossale che tutti dovrebbero leggere o morire provandoci).
Il romanzo di Calvo non cerca la strizzata d’occhio post-moderna, nemmeno quando introduce nella storia uno scrittore super-star autore di un immaginario best-seller a puntate, Città segreta, ma fa terribilmente serio: usa gli strumenti del romanzo gotico ottocentesco con la massima consapevolezza, aggiornandoli a un gusto contemporaneo e a una scrittura densa ed evocativa. Insomma, vince.
(Un plauso alla casa editrice per essere sfuggita alla tentazione dell’uomo in frac per la copertina)
(E un plauso anche alla traduttrice, che ha fatto un lavoro notevole)
(Per la trasparenza, devo dire che è una mia amica. Ma sono davvero convinto abbia fatto un bel lavoro di eliminazione del “traduzionese”)

More about Ai miei cari compagniLa questione dell’eredità letteraria di Luciano Bianciardi è un po’ confusa. Anni fa ISBN fece uscire due volumi che raccoglievano la sua produzione, ribattezzati “AntiMeridiani“, prendendo in modo un po’ snob le distanze dalla storica collana Mondadori ma ripetendone formato, prezzo e alone prestigioso. Una scelta che l’altro figlio di Bianciardi, Ettore, non ha trovato consona allo spirito del padre, cristallizzato in un’edizione di lusso non proprio accessibile; a dimostrazione di ciò, Ettore Bianciardi è diventato collaboratore di Stampa Alternativa per la riproposta delle opere del padre, presumo quelle rimaste fuori dai due balenotteri ISBNiani.
Ai miei cari compagni” (Stampa Alternativa) è una raccolta di scritti di tema risorgimentale, alcuni inediti, di Luciano Bianciardi, assemblati da Ettore in una specie di romanzo a posteriori. Il diario garibaldino è la parte meno interessante, se non altro perché non fa altro che riprendere la memorie di Giuseppe Bandi, garibaldino, di cui lo scrittore toscano aveva curato un’edizione (ne ho parlato giusto un anno fa). La parte spettacolare e che vale i soldi del libro è il pirotecnico racconto delle Cinque Giornate di Milano, in cui Bianciardi fa collidere, senza dare alcuna spiegazione ma in totale scioltezza, la Milano di metà Ottocento e quella a lui contemporanea. L’effetto è straniante – doveva esserlo di più all’epoca della stesura del testo perché oggi quella Milano e quell’Italia sembrano pure loro lontanissime come gli Austriaci a Milano – ma efficace. Il grande merito è quello di scuotere lo sterile monumento nazionale in cui è stato trasformato il Risorgimento e ridargli vita, mettere a nudo le contraddizioni, i germi di problemi storici di lunga durata insiti in un’unificazione fatta quasi per sbaglio e tutto sommato non voluta davvero nemmeno dai Savoia.
Non mi ha colpito particolarmente, invece, la serie di “esercizi” proposti al lettore dal curatore del volume.

More about I Beatles in IndiaI Beatles in India” di Lewis Lapham (e/o) è un reportage scritto dall’unico giornalista ammesso a Rishikesh nell’ashram del Maharishi all’epoca in cui i Beatles soggiornarono là per approfondire la meditazione trascendentale. Va detto che il titolo, tanto quello italiano quanto quello originale, è leggermente fuorviante perché Lapham con i Beatles a Rishikesh ha avuto pochissimo a fare, un po’ perché in realtà non gli interessavano neanche tanto e un po’ perché erano comunque, pur tra tutte le star del cinema e della canzone che affollavano in quei giorni il santuario, gli ospiti meno avvicinabili di tutti. Che cos’è allora il libro? È soprattutto un racconto dell’ambigua figura del Maharishi e della sua dottrina, tra tradizione spirituale e spiccatissimo senso degli affari (l’impressione che si trattasse di un furbone di tre cotte che è stato bravissimo a cavalcare i cavalli giusti al momento giusto resta fortissima, dopo aver letto il libro). I Fab Four appaiono ogni tanto, quasi in secondo piano, e tutto sommato quello che viene detto su di loro non fa altro che confermare la vasta galassia di aneddoti su quel periodo indiano, a partire da quelli Ringo Starr – il primo ad andarsene – con la sua avversione per il cibo, gli insetti e la meditazione in generale.
Il reportage è bello, si legge alla svelta e ha ancora quel buon sapore di giornalismo di viaggio di una volta. È una bella testimonianza di una delle pagine più pittoresche di quella straordinaria storia del Novecento che è stata l’avventura dei Beatles (al di là della musica, la storia dei Beatles è così strettamente intrecciata con buona parte della cultura di almeno un ventennio del secolo scorso che mi stupisco non la facciano studiare a scuola).

More about CicatriciCon la storia dei Beatles ha dei legami – poco più che un inside joke, ma che fa immediatamente drizzare le orecchie a chi familiarità con le date – “Cicatrici” (Guanda), romanzo di Gianluca Morozzi appartenente alla sua vena “seria” (come Blackout o la serie a fumetti con Michele Petrucci FactorY). In realtà Morozzi non ha lasciato del tutto da parte le tragicomiche avventure sentimentali di trentenni non abbastanza cresciuti: semplicemente ha preso un personaggio parecchio border-line innamorato di una donna bellissima ma che c’ha grossa crisi pure lei e invece di virare la storia in commedia è andato verso atmosfere tragiche. Non è il romanzo migliore di Morozzi e l’ambizione di unire a una storia di dominazione psicologica una sfumatura sovrannaturale non si realizza completamente, perché l’innesto tra le due parti stride un po’. Però come sempre si legge bene, i dialoghi filano che è un piacere e le pagine vanno via una dopo l’altra.

(e con questo siamo arrivati al 15 del mese. Poi ho iniziato a leggere A Dance with Dragons e ci ho messo venti giorni. Era un po’ lungo.)

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The day the music died. Twice.

L’8 dicembre, oltre a essere una festa religiosa su cui la gente di solito ha le idee poco chiare (è il giorno in cui viene concepita Maria che è, i soliti raccomandati, immune dal peccato originale, non quello in cui l’angelo mette incinta Maria) è la Giornata Nazionale di Sparare ai Musicisti.
Tutti sanno di John Lennon, ma pochi sanno che il vero assassino non è Mark Chapman bensì Stephen King. Quest’anno sono 30 anni tondi tondi e il livello di moleste celebrazioni zuccherose del Cristo Ateo sarà ancora più elevato del solito.
A me questo tipo di glorificazione fa un po’ ridere, perché Lennon era un personaggino abbastanza lontano dal santino che ne è stato fatto nel corso degli anni. Sia nei turbolenti anni di Liverpool prima e Amburgo poi (dove i Beatles vissero da Rolling Stones tra amfetamine, prostitute, malavitosi e spacciatori), sia in quelli successivi.
Una delle infamie più memorabili perpetrate ai danni di Paul McCartney all’epoca in cui i Beatles stavano andando in frantumi è la registrazione di The Long and Winding Road, canzone che Macca aveva pensato perché diventasse uno standard per i Grandi Cantanti. E che, incidentalmente, Phil Spector o non Phil Spector, è una lagna mortale. All’epoca i quattro volevano tornare alle registrazioni in presa diretta, così Ringo suona la batteria, George la chitarra, Paul il piano e John Lennon il basso.
Il risultato è questa traccia, in cui il basso fa un po’ di tutto fuorché le note giuste (ed è facile immaginare John che sogghigna mentre sbaglia).

Ian McDonald, autore del monumentale e fondamentale “Revolution in the head”, in cui analizza tutte le registrazioni dei Beatles, definisce quello di Lennon un vero e proprio sabotaggio per rendere inutilizzabile quello che doveva essere un demo e che poi ha finito per diventare la traccia vera e propria. A me fa impazzire la “scivolata” a 1:03, che non c’entra nulla.  Comunque, le foto del Getty sono bellissime (occhio che parte Imagine a tradimento).
C’è anche un curioso aneddoto sul giovane John raccontato da Lemmy nella sua autobiografia. In pratica, i giovani Beatles sono al Cavern a suonare, tra un pezzo e l’altro un tizio urla “Lennon sei un frocio”. Lennon mette giù la chitarra, scende e chiede chi è stato. Si fa avanti uno e dice “Sono stato io, e allora?” BAM! BAM! Due craniate sul naso, il “Liverpool kiss”. E poi di nuovo sul palco. “Qualcuno ha qualcos’altro da dire? No? Ok. Il prossimo pezzo è Money”. Living life in peace, yu-hu, uhuhuh.

Ma l’8 dicembre 2004 a Columbus, Ohio, è morto, ucciso a colpi di pistola sul palco, Dimebag Darrell, chitarrista dei Pantera.
Spiegare il ruolo dei Pantera nell’evoluzione del metal alla fine degli anni ottanta in poche parole non è semplicissimo. Ascoltare Vulgar Display of Power è molto più semplice e divertente. Qui magari basta dire che per qualche anno prima che il mondo del metal piombasse nella più bieca restaurazione ottantiana, i Pantera sono stati la bandiera di uno svecchiamento del genere, di un metal che non sembrava la caricatura di qualcosa. Poi sono arrivati gli Hammerfall.
A ogni modo, Dimebag come chitarrista aveva tutto: un immenso senso del ritmo, velocità e ignoranza e un suono enorme (dato, almeno fino al 2004, solo da amplificatori a transistor; cosa molto inusuale visto che di solito i chitarristi prediligono quelli a valvole). E poi è stato seppellito in una bara dei Kiss.
Uno dei progetti a cui aveva lavorato prima di morire era il disco di Southern Metal Rebel meets Rebel, insieme al cantante country David Allan Coe e al batterista e al bassista dei Pantera.
Che è un bel disco cialtrone e rumoroso e divertente. E che spiega che i cowboy si bombano più droga che i musicisti rock.

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70

Il signore che suona la batteria qui, come solo lui avrebbe potuto fare, compie 70 anni. Ed è notizia di stamattina che ha appena smaltito la sbronza del 5 marzo 1963.

(e ricordiamo che se Ringo è ingiustamente passato alla storia come batterista mediocre, Pete Best faceva davvero schifo. Ed è vero che tutte le fanzine di Liverpool dell’epoca lo idolatravano, ma perché era pure il proprietario di uno dei club cardine di quella scena)

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I libri di giugno

I libri letti nel mese precedente. Brevi commenti, più impressioni che recensioni. Evidenziato, al solito, il libro che mi ha colpito di più.

8 euro e qualcosa da Bookdepository.

The Taqwacores – Michael Muhammad Knight (Soft Skull Press)
Allah è grande e Jello Biafra il suo profeta.
Questo potrebbe essere in sintesi il succo di questo libro, che è una roba esplosiva. Era da parecchio che non mi capitava di trovarmi così preso da una storia, dai suoi personaggi, dalle idee che mette in mostra. MMK racconta di una casa in cui abitano alcuni punk. Islamici. Che cercano, ognuno a modo suo, di trovare una convivenza tra la propria religione e lo stile di vita punk. Il modello a cui guardano è la scena Taqwacore della costa ovest: gruppi punk di fede islamica, dai nomi minacciosi, l’ultima frontiera della minaccia all’America WASP. La cosa straordinaria è che se oggi si cercano su Myspace i gruppi citati, come i Vote Hezbollah, li si trova. Perché dal libro è nata davvero una scena taqwacore. E questo è il potere della letteratura in tutto il suo splendore: quando le idee diventano cose reali. Quando la letteratura non si limita a raccontare il mondo, ma contribuisce a trasformarlo.
Il romanzo, una storia di formazione raccontata da un ragazzo di origini pakistane, è pieno zeppo di dialoghi pungenti e spicci sulla religione, su Maometto, sulle affinità tra Islam e punk, su cosa possa voler dire essere americano e musulmano insieme. E si conclude con un concerto in cui tutte le contraddizioni, tutte le anime, tutto quanto, esplode in tutto il suo drammatico potenziale.
È un libro terribilmente affascinante, sfacciato e compiaciuto. Che ha fatto incazzare musulmani integralisti a go-go. Tanto che in UK è uscito pure tagliuzzato. In Italia ha avuto una fugace edizione usa-e-getta per la Newton, con il titolo di Islampunk; ma è già esaurito. Cercatelo. Leggetelo. Fatelo leggere.
Dal libro sono stati tratti ben due film: un documentario e un adattamento.
Adesso devo procurarmi il seguito: Osama Van Halen.

Tutti i miei amici sono supereroi – Andrew Kaufman (Meridiano Zero)
Non sono molto a mio agio con questo genere di letteratura vagamente surreale e romantica. Ma se non altro il libro di Kaufman ha dalla sua il fatto di essere piuttosto breve (poco più che un racconto lungo) e di avere qualche idea carina nella descrizione dei “supereroi” che ne popolano le pagine. Ma per il resto mi ha lasciato parecchio indifferente.

Summer of love – George Martin (Coniglio Editore)
George Martin racconta la registrazione di Sgt. Pepper, concedendosi anche quale sortita nel resto della storia del suo lavoro con i Beatles. Non vengono rivelati segreti particolari (bene o male è tutta roba che i fan conoscono da tempo), ma è bello sentire raccontate certe cose direttamente dalla voce di chi ha dato forma alle idee dei quattro. Peccato per una traduzione un po’ altalenante. Il vero ero del libro però è Geoff Emerick, che una volta suggerisce di appendere John Lennon a testa in giù davanti a un microfono, in modo che cantando il dondolio del corpo riproduca un effetto Leslie e l’altra prova a infilare un microfono ina caraffa mezza piena d’acqua per vedere che suono esce cantando dentro la caraffa.

Cassandra – Christa Wolf (e/o)
Il mito della guerra di Troia, con tutte le sue infiniti propaggini (un Marvel Universe ante-litteram, al quale il fumettista Eric Shanower ha applicato una robusta dose di ret-con per poterlo raccontare in un’opera colossale e di una profondità senza precedenti, “L’età del bronzo“) sta alle fondamenta della cultura occidentale, con le sue figure archetipiche, il suo modo di raccontare le passioni, i difetti, i dubbi degli uomini. Christa Wolf prende questo mondo e lo guarda, ci costringe a guardarlo, attraverso gli occhi di una delle figure più drammatiche di quei miti, la profeta Cassandra. E lo fa in un romanzo-monologo incalzante, ipnotico e allucinato, che sbatte in faccia al lettore tutta la brutalità che è possibile immaginare, da una prospettiva dichiaratamente femminista, di grandissima efficace. È difficile, dopo, tornare a pensare ad Achille in termini diversi dalla “bestia”, che incarna tutto il furore e la mancanza di umanità di un mondo in cui la sopraffazione del forte sul debole è la norma e travalica ogni legge che gli uomini si sono dati al punto che per fermarlo è necessario violare le leggi.
Un’opera impressionante, che ha la stessa forza d’urto e la stessa intensità delle tragedie antiche, la stessa profondità di temi. Solo, ovviamente, non sempre agevolissima da seguire.

Acapistrani – Pablo Renzi (Libero di scrivere)
Ecco, mettiamo l’avvertimento: Pablo è un mio amico. Acapistrani è una raccolta di racconti umoristici, del genere che fa, grosso modo, capo a Woody Allen: parodie, inserti surreali, personaggi strampalati. Mediamente, i racconti fanno ridere. Alcuni di più degli altri. Uno in particolare, “Ho scritto t’amo sulla sabbia”, mi è piaciuto parecchio più degli altri.

Carni (e)strane(e) – Adriano Barone (Epix Mondadori)
Epix ha fatto una cosa che è mediamente l’equivalente editoriale di un suicidio: pubblicare la raccolta di racconti di un esordiente italiano. Racconti fantastici, per di più. E lo ha fatto due volte. Questa di Adriano Barone è la seconda (la prima, Malarazza, l’ho saltata); a dire il vero Barone non è un esordiente-esordiente, visto che come autore di fumetti ha pubblicato due volumi prima di questa raccolta (“L’era dei titani“, con i disegni di Massimo Dall’Oglio, è un bell’esempio di storia di robottoni post-evangelion), ma siamo comunque lì. Ciò detto, i racconti oscillano tra l’horror, lo strano (o weird) e il fantasy (in senso lato); e il meglio sta proprio in questi ultimi, con i racconti finali dedicati ai personaggi biblici, che avanzano con un passo sicuro e inarrestabile. È bello anche il primo racconto (già apparso su Carmilla), mentre francamente mi ha colpito abbastanza poco tutto quello che c’era nel mezzo.

Slash. The autobiography – Slash & Anthony Bozza (Harper&Collins)
Le autobiografie rock sono un genere che fa sempre piacere leggere. Ci trovi mescolati un po’ di pettegolezzi, un po’ di notizie interessanti, degli incroci inaspettati con gente che non ti aspetteresti e via così. Questa dell’unico vero guitar hero “di massa” degli ultimi venticinque anni non fa eccezione: il buon coautore ha fatto un bel lavoro nel mettere in bella forma i ricordi di Slash, dall’infanzia ai Velvet Revolver. Ovviamente la parte del leone la fanno gli anni con i Guns n’ Roses e la sua versione degli scazzi con Axl (i cui avvocati devono avere letto sillaba per sillabe le bozze, perché il tutto è molto con il freno a mano tiratissimo). Le parti più noiose, alla lunga, sono quelle relative alla droga, a quella volta che era sfatto di qua e quella in cui era sfatto di là. È interessante, però, che non ci sia mai una presa di distanza forte da quelle esperienze. Slash non pare rinnegare granché, se non i casini che la dipendenza gli ha procurato. Il che è abbastanza onesto, da parte sua. In generale, è la versione “down to earth” di tutte quelle ridicole biografie su “Guns n’ Fucking Roses” uscite negli anni novanta, che ridimensiona alcune leggende, senza però smentirne le basi. Bello, nel suo genere.

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