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Esistono canzoni che non esistono

L’altro giorno mi è passato sotto gli occhi un thread su X (il circo a tre piste che ha sostituito quello strumento non perfetto ma utile che era Twitter) dedicato alle migliori canzoni che “esistono” solo in film o serie tv. Per intenderci, non tanto quelle scritte appositamente per la colonna sonora, ma quelle che vengono scritte o eseguite dai personaggi e hanno un qualche ruolo nella storia.
Siccome l’idea è carina, la parassito per fare un post (senza un ordine particolare)

The Wonders – That thing you do!
Sta in un film del 1996 diretto da Tom Hank, Music Graffiti. Lo beccai una volta già iniziato in tv e rimasi a guardare perché c’era Liv Tyler. È la storia di ascesa e crisi di un gruppo fittizio degli anni sessanta, uno dei tanti complessi nati in America sulla scia dei Beatles, che azzecca questo singolo pazzesco. Scritta da Adam Schlesinger (Fountain of Youth), That thing you do! è un perfetto pastiche beatlesiano, al punto che è difficile non pensare che fosse un vero singolo dell’epoca. I riferimenti beatlesiani si estendono anche alla vicenda della canzone: nata come uno slow, esplode quando viene velocizzata – come Please Please Me.
Trad. – Good Ol’ Shoe
Wag the Dog, in italiano criminalmente intitolato Sesso e Potere (si parla molto di potere e nulla di sesso) è una satira molto pungente su un presidente americano che, aiutato da un cinico esperto di comunicazione (Robert De Niro in cosplay da Umberto Eco), inventa una guerra (inesistente) per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo. A un certo punto della storia, come sostengo emotivo alla storia di un soldato caduto prigioniero del nemico, viene fatta incidere una canzone folk con un vago collegamento con la vicenda per poi farla “ritrovare” nella biblioteca del Congresso come pezzo registrato negli anni Trenta. La cosa straordinaria è che la gente inizia a “ricordare” di avere sentito canticchiare il pezzo dal nonno, tipo. Film ancora molto bello, da recuperare assolutamente. Il vero autore di Good Ol’ Shoe è Edgar Winter.
The Rutles – Goose Step Mama
Restando in ambito beatlesiano, ai Rutles e al loro mockumentary “All you need is cash” avevo dedicato un post secoli fa. In generale, lo scimmiottamento dello stile dei Beatles è perfetto, prendo Goose Step Mama ma poteva essere qualunque altra.

PoP – Pop! Goes My Heart
Sta in Scrivimi una canzone, film del genere “commedia romantica con Hugh Grant”, in cui il mio Dylan Dog mancato preferito interpreta un cantante che aveva avuto un (nel senso di uno) successo enorme negli anni 80 per poi svanire nel dimenticatoio. La canzone è divertente, ma il video whammeggiante e carico di rimandi ad altri di quel decennio (compresa una sorprendente citazione del video di Breaking the Law dei Judas Priest) è imperdibile.

Drive Shaft – You all everybody
Chi ha perso dietro a Lost i migliori anni della propria gioventù non può dimenticare i Drive Shaft e la loro hit, presa di peso dal catalogo dei fratelli Gallagher.
Steel Dragon – Blood Pollution
Rockstar, con Mark Whalberg e Jennifer Anniston, è un filmaccio. Il tentativo di raccontare una storia ispirata alla sostituzione nei Judas Priest di Rob Halford con il cantante di una loro cover band, Tim “Ripper” Owens, ha avuto un esito abbastanza deludente, piena di cliché noiosi. Per fortuna la colonna sonora, tra cover e inediti, è invece godibile. Tra l’altro, alla chitarra c’è Zakk Wylde e alla batteria Jason Bonham.
Community – Dean’s Rap
Community è forse la mia sitcom preferita, per i suoi alti vertiginosi che riescono a far perdonare anche le ultime stagioni meno brillanti. Questo è uno dei momenti musicali più straordinari.
Infant Sorrow feat. Jackie Q – African Child
“La terza cosa peggiore mai successa all’africa, dopo guerre e carestie”, da In viaggio con una rockstar, è un gradevole pezzo pop “impegnato”, con un altro video perfetto.
Dewey Cox – Black Sheep
Walk hard, criminalmente ignorato dal grande pubblico, è la parodia definitiva dei biopic musicali, al punto che non capisco come sia possibile che continuino a farli tutti allo stesso modo dopo che nel 2007 tutti i loro trucchi erano stati ridicolizzati in modo così preciso. A ogni modo: usando come canovaccio la storia di Johnny Cash, Walk Hard racconta la lunga vita di Dewey Cox, che partendo dal country attraversa nei decenni tutti i generi (a volte anticipandoli, come quando scopre la cocaina e per un pomeriggio inventa il punk negli anni sessanta – un po’ come in Get Back si scopre che i Beatles nel pomeriggio in cui restano senza George Harrison sfogano la rabbia suonando qualcosa che assomiglia molto al futuro noise rock). Black Sheep fa parte del periodo psichedelico di Dewey, ispirato allo sbarellamento di Brian Wilson dei Beach Boys. La fedeltà al modello è garantita dal fatto che è scritta da Van Dyke Parks, che di Wilson è stato spesso collaboratore (anche in quegli anni).
Spinal Tap – Tonight I’m gonna rock you Tonight
E come si fa a non citare gli Spinal Tap? La credibilità del mockumentary che li vede protagonisti nasce anche da quanto le canzoni siano sì stupide ma musicalmente ben calibrate sui canoni dei generi che vogliono sbeffeggiare. Cosa che con il Metal fine anni settanta / inizio anni ottanta viene particolarmente bene.
Phoebe Buffay – Smelly Cat
Me l’ero in prima battuta dimenticata, ma forse è la canzone finzionale più influente e duratura di tutte, al punto che Lisa Kudrow è riuscita a farsi accogliere pure dal pubblico di Taylor Swift – cioè circa una generazione dopo l’epoca d’oro di Friends.

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Su questa cosa di Evangelion e Netflix

L’adattamento di Neon Genesis Evangelion rivendicato (come si fa con i crimini) da Gualtiero Cannarsi per Netflix è oggetto da giorni di articoli molto più dettagliati, precisi e documentati di quello che potrei scrivere io, arrivando ampiamente dopo la puzza.
C’è però una cosa che si sta diffondendo come luogo comune e che è sbagliatissima.

Il problema dell’Evangelion di Netflix non è il “linguaggio aulico”. Questo è quello che farebbe comodo fare credere a Cannarsi e che lo collocherebbe sullo stesso livello di un adattamento molto libero rispetto all’originale ma efficacissimo, con il quale i Cavalieri dello Zodiaco sono arrivati per la prima volta sulle reti televisive italiane:

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I dettagli dei sandali! L’occhio della Madre (Teresa di Calcutta)!

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Il lettore dell’edizione italiana del libro di Christopher Hitchens su Teresa di Calcutta, La posizione della missionaria, si trova a un certo punto dell’introduzione davanti a questa frase:

Molly Moore, l’acuta cronista del Washington Post che seguì il viaggio, spiegò chiaramente nei suoi pezzi che la visita era in stile corazzata Potemkin

Segue la descrizione dell’attraverso da parte della neo-santa di un villaggio completamente rimesso a nuovo in fretta e furia. E uno pensa “boh, vorrà dire che la visita è stata una cagata pazzesca“, anche perché non c’è alcun legame con le vicende dell’ammutinamento nel paragrafo che segue.


Però, per quanto la scena del cineforum di Il secondo tragico Fantozzi sia famosissima (e spesso citata un po’ a sproposito), come poteva conoscerla Hitchens?
Tra l’altro, nel film la pellicola russa si chiama La corazzata Kotiomkin perché non è il vero film di Ėjzenštejn (che nella versione più lunga conosciuta dura appena 80 minuti, tra l’altro) bensì un suo calco. Per dire, le scene che si vedono proiettate sono state ricostruite dallo stesso Luciano Salce perché non c’erano i diritti per utilizzare quelle del vero film; e il regista è chiamato “Einstein”, nel cartello introduttivo.
Quindi?
Beh, il signor Grigory Potemkin a cui era intitolata la famosa corazzata era un nobile russo vissuto nel diciottesimo secolo, gran favorito della zarina Caterina. Il suo nome è legato non solo alla famosa pellicola e alla sua parodia ma anche, per chi si occupa di raccontare il potere, ai cosiddetti “villaggi Potemkin“.
Il nome si riferisce all’idea che alcuni biografi gli attribuirono (ma non è dato sapere quanto a ragione) di fare visitare all’imperatrice solo villaggi accuratamente rimessi a nuovo, anche con quinte teatrali, apparati assolutamente effimeri e forse addirittura figuranti, per darle l’impressione che la gente vivesse meglio di quanto effettivamente non facesse.
Il testo originale, infatti, non fa alcun riferimento a nessuna nave da battaglia:

[…] the visit was of a Potemkin nature […]

Spero che minimum fax non abbia crocifisso nessuno in sala mensa per questa cosa.

Disclaimer: lavoro in una casa editrice, ho tradotto e revisionato traduzioni e sicuramente mi è scappata roba anche peggiore di questa. Questo post serve solo perché magari qualcuno che ha trovato incomprensibile il riferimento ci si imbatte e scopre l’arcano.

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Yado

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Ci sono film di cui nessuno ha celebrato il trentennale.
Film che non avranno ristampe in Blu Ray con commenti, extra, immagine restaurata. E per fortuna perché sono bruttissimi.
Yado (o Red Sonja), sto parlando proprio di te.

"Non piangere, quel che è fatto è fatto"

“Non piangere, quel che è fatto è fatto”

Yado, uscito nel luglio del 1985 in America e poco dopo da noi, è uno di quei disastri ferroviari su pellicola che è veramente difficile riuscire a rivalutare, anche in questa epoca di ironia e distacco post-moderno. Perché la sua bruttezza non è figlia dell’essere troppo legato al periodo della sua realizzazione (anzi, sembra un film di dieci anni prima), non dipende da una storia piena di trovate improbabili (è semplicemente piatta e banale); è la pura e semplice noia di vedere alcuni pezzi di legno aggirarsi su un set scambiandosi battute brutte senza il minimo impegno. Si salva giusto una messa in scena di un certo livello, con costumi e interni ricercati e dotati di una loro selvaggia nobiltà. Ma tutto il resto è noia.
No, non ho detto Hyboria, ma noia noia noia.

"Iz it a voman I zee beevore me?"

“Iz it a voman I zee beevore me?”

L’elefante in mezzo al bosco è Arnold Schwarzenegger. Doveva per motivi contrattuali un cammeo a De Laurentiis, una roba da una settimana sul set e poi via. Rimase in Abruzzo, dove si girava il film, un mese. In montaggio la sua parte fu estesa fino a farlo diventare uno dei principali comprimari del film, in scena per una buona ventina di minuti. In tutto il mondo il suo personaggio il suo personaggio si chiama Kalidor; nell’edizione italiana invece si chiama Yado ed è l’eroe titolare del film. Pare che esista una teoria propugnata da alcuni fan secondo la quale Kalidor/Yado sarebbe in realtà proprio Conan sotto mentite spoglie, facendo di questo il terzo film di Conan con Arnie. La verità è che il personaggio che interpreta è talmente neutro che potrebbe essere anche il vostro lattaio sotto mentite spoglie.

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“Frechete!”

La vera protagonista del film, Sonja, è un’esordiente Brigitte Nielsen ventiduenne, catapultata dagli studi fotografici al set cinematografico senza particolare preparazione. Sorprendentemente, una delle poche esperienze positive del film è scoprire che prima che si facesse impiantare due tacchini del giorno del Ringraziamento al posto delle tette, era una ragazza sì muscolosa e imponente ma anche parecchio aggraziata. Peccato che le sia pure toccato di recitare. E probabilmente è stata lei la ragione per cui Schwarzenegger non ha fatto troppe storie a prolungare la sua presenza sul set, visto che quando qualche anno fa il buon Arnie è stato sgamato come traditore seriale pure la Nielsen ha alzato la mano e ha detto “ah sì, mentre giravamo Red Sonja faceva delle robe con me”. Durante la promozione del film, Brigitte conoscerà Sylvester Stallone, che oltre a sposarla avrà la fenomenale intuizione di farla non-recitare in Rocky IV nel ruolo della moglie di Ivan Drago: un ruolo che prevede la più totale mancanza di espressioni facciali ed emozioni, nel quale effettivamente riesce a giganteggiare.
 Ma non divaghiamo.

Giustamente cerca di non farsi riconoscere con una maschera

Giustamente cerca di non farsi riconoscere con una maschera

L’antagonista, la malvagia regina/strega cripto-lesbica, è interpretata dalla stessa attrice che nel primo Conan interpretava Valeria, Sandahl Bergman. Qui le avevano offerto il ruolo della protagonista, ma probabilmente dopo aver letto il copione deve avere detto “no, guarda, faccio la cattiva” per dare meno nell’occhio.

Bikini chainmail!

Bikini chainmail!

Il film fu accolto bene, nel senso che comunque nessuno cercò di ammazzare i responsabili. Su Rotten Tomatoes vanta un mirabolante 15%. Schwarzenegger racconta di averlo usato come deterrente con i suoi figli: “Se vi comportate male vi chiudo in camera vostra e vi faccio vedere dieci volte di fila Yado”. L’allora moglie di Schwarzenegger, scrollando desolata i maestosi palchi, sentenziò: “Se non ammazza la tua carriera questa roba qua non so proprio che altro potrebbe riuscirci”.
 Credo che nemmeno Italia Uno negli anni ottanta e novanta lo trasmettesse frequentemente, nonostante il richiamo che poteva esercitare Schwarzenegger.
Si parla da anni di un remake, o meglio di un nuovo film dedicato a Red Sonja, che è titolare di una serie a fumetti di un certo successo nel suo campo. A un certo punto doveva girarlo Rodriguez, poi mi sa che non se ne sia fatto più niente.
Da allora, Schwarzenegger si è tenuto più che alla larga dal fantasy. Abbiamo avuto davvero un terzo film di Conan, che è riuscito a sprecare Jason Mamoa (che era un cimmero fantastico, molto vicino alla visione di Barry Windsor Smith) costruendogli attorno un fantasy dozzinale molto lontano dall’essenza della sword and sorcery. Forse avremo un nuovo Conan con Schwarzenegger, ma quasi inizio a disperare.
Così Red Sonja/Yado resta lì, figlio ripudiato che ha soffiato in solitudine sulla sua trentesima cartolina, in uno di quegli squallidi residence di periferia fatto di riedizioni in dvd da due soldi in cui vivono i film che nessuno vuole rivedere, nemmeno per farsi due risate.

Buon compleanno, vecchio.
Ti è andata male, sono cose che succedono.

(questo post dovevo pubblicarlo l’anno scorso, poi mi sono dimenticato. Così ora Yado/Red Sonja non può neanche vantare un post commemorativo nell’anno giusto)

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Cose che non vorrei più leggere su “Il risveglio della Forza”

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C’è stato un risveglio.
Più che nella Forza, nella gente che si riversa su internet a esprimere la propria opinione su cose che non ha capito.
Io capisco che sia passato il JJ Abrams Act che intima di avere un’opinione sul nuovo Star Wars, ma è dal 16 dicembre che mi trovo a leggere commenti sul film che mi sembrano quanto meno fuori luogo. O che andrebbero almeno contestualizzati meglio.
Partiamo dall’aspetto che forse offre maggiormente il fianco alle critiche: la faccenda del reboot / remake di episodio IV.
Se non avete trascorso le ultime settimane su Jakku avrete forse sentito dire che la struttura di Il risveglio della Forza è decisamente ricalcata su quello di Una nuova speranza (o semplicemente Guerre Stellari, quando uscì), con spruzzatina degli altri due film della trilogia classica. A qualcuno la cosa proprio non va giù. Per me è ok: il senso della storia non è la sua struttura profonda, ma gli “abiti” che a questo scheletro vengono appesi. E bisogna tenere conto del fatto che non è che Lucas per Una nuova speranza abbia esattamente concepito un intreccio rivoluzionario: il film era infatti un caso di applicazione da manuale del “viaggio dell’eroe” identificato da Joseph Campbell come struttura comune a infinite narrazioni mitologiche (successivamente lo sceneggiatore Christopher Vogler ha distillato la teoria di Campbell in un libro diventato una specie di bibbia per la scrittura cinematografica, intitolato appunto “Il viaggio dell’eroe“) e ha funzionato alla perfezione per creare una mitologia. Non solo: Una nuova speranza è anche uno straordinario crocevia di immaginari diversi, che Lucas ha distillato (e questo è il suo enorme, gigantesco, ineludibile merito) in una mitologia nuova, ridefinendoli per una nuova generazione.
En passant, nel 1977 la critica cinematografica Pauline Kael (una delle più influenti della sua epoca) scrisse una recensione di Star Wars che sembra anticipare le stesse critiche di quelli che oggi attaccano Il risveglio della Forza, definendo il film “un assemblaggio di parti disgiunte, privo di una presa emotiva. Potrebbe essere il primo film nel quale le sorprese sono rassicuranti, è un’epica priva di sogno. Ma è probabilmente l’assenza di meraviglia a essere la causa dell’enorme e particolare successo del film. L’entusiasmo di chi lo definisce il film dell’anno supera la nostalgia e tocca il sentimento che sia giunto il momento di tornare all’infanzia.”
Per noi che viviamo in un mondo post-StarWars può essere difficile capire il senso di questa critica; ma il montaggio che trovate qui sotto, che ricostruisce Una nuova speranza senza usare una sola immagine o un solo suono del film, ma solo elementi di film da cui Lucas ha preso ispirazione (o, in misura minore) di film che hanno ripreso Star Wars, può essere d’aiuto. Oltre a essere un lavoro di cinefilia da competizione.

Insomma, che Abrams, Arndt e Kasdan abbiano voluto rimettere in piedi lo scheletro della storia di Lucas per raccontare un nuovo inizio (anche) a un nuovo pubblico non mi sembra un peccato mortale, visto che quello scheletro fa ormai parte del nostro patrimonio di storie tanto quanto ne facevano parte, nel 1977, gli ingredienti scelti da Lucas.
Tra l’altro, tutto questo concentrarsi sulle similitudini fa perdere di vista la diversa strada scelta per raccontare il Male.

(da qui in poi, chi non ha visto il film forse farebbe meglio a smettere di leggere)Lego_Kylo_Ren_Cape

L’internet è pieno di gente che, con il tono di quelli che sono svegli e mica se le bevono le stronzate degli americani, si sta dilettando in tutta una serie di variazioni sul tema di “oh minchia, bozzacelo, Kylo Ren è troppo uno sfigato! Gli hanno dato l’armatura figa ma è un babbo di minchia, mica come Darth Vader!”.
A questo punto ti rendi conto che l’incapacità di comprendere un testo non si limita a quelli scritti ma si estende evidentemente anche a quelli audiovisivi, che pure in teoria dovrebbero essere più immediati.
Kylo, per quanto mi riguarda, è una delle cose migliori del film e la più promettente per il prosieguo della saga. Mi affascina perché è la messa in scena di un problema che gli sceneggiatori devono essersi posti in fase di scrittura: rimpiazzare Darth Vader. È assodato che scrivere un altro cattivo come Darth Vader è molto difficile. Se non impossibile. Vader distillava in sé, per un’abile combinazione di design, caratterizzazione, interpretazione, generazioni di improbabili crudeli villain pulp e fantascientifici. Era uno stregone, un relitto di un’epoca passata, guardato con sospetto ma temuto. Non è immediatamente chiaro se sia un umano o no. È una delle principali cause di morte tra i graduati dell’Impero. È iconico.
Un altro Vader non lo trovi.
Infatti Lucas non ci aveva nemmeno provato, nella trilogia prequel, limitandosi a mettere in scena dei Sith monodimensionali senza neanche preoccuparsi di approfondirli (Darth Maul, il conte Dooku, Lord Grievous) al di là del “sono cattivi”.
Qui invece cosa abbiamo?
Un personaggio che vorrebbe essere Darth Vader. Ma che non è Darth Vader. Ed è conscio non solo di non esserlo ma anche che con ogni probabilità non potrà mai esserlo. Perché Vader è un modello inarrivabile per lui, nel mondo della narrazione, come lo è per noi, nel nostro mondo di spettatori. E quindi Ben Solo, come l’ultimo dei fanboy del pianeta Terra, si concia come lui, cerca di essere lui. È persino frustrato perché una parte di sé non vorrebbe essere Darth Vader e vorrebbe rifiutare di abbracciare il Lato Oscuro.
Se Una nuova speranza metteva in scena il “viaggio dell’eroe”, Il risveglio della Forza gli affianca il “viaggio” della sua nemesi. Darth Vader nel primo film non aveva un arco narrativo vero e proprio: incarnava una minaccia monolitica ai personaggi, fin dall’inizio della pellicola. A Kylo viene offerta una possibilità di essere altro e lui sceglie invece di essere Darth Vader, sperando che il patricidio sia abbastanza Lato Oscuro.
Kylo Ren in realtà più che un altro Darth Vader è un altro giovane Anakin. In una manciata di scene Adam Driver e gli autori riescono a delineare un giovane di grande potenziale attratto dal Lato Oscuro; quello che Lucas, per niente aiutato dall’avere scelto un attore improbabile, non è riuscito a fare negli episodi II e III. Quindi, vai tranquillo, giovane Kylo, che stai facendo meglio di tuo nonno.

(incidentalmente, Emo Kylo Ren è il profilo twitter dell’anno)

E poi. La Disney! Il merchandising! Il marketing!
Un sacco di gente pensa che la Walt Disney Company sia unicamente quell’azienda che produce le storie di Topolino e Paperino, i cartoni animati e i film per famiglie. Quando invece è una delle più grandi aziende mondiali dell’intrattenimento a tutto campo, che controlla tutta una serie di compagnie di produzione e distribuzione. Per dire, Pulp Fiction uscì nel 1994 distribuito dalla Miramax, che era un’azienda controllata dalla Disney.
Ma se leggete le critiche di un sacco di gente da quando nel 2012 Lucas ha venduto la Lucasfilms alla Disney, penserete che i primi tre film di Star Wars fossero usciti come piccole pellicole indipendenti, piene di sesso, violenza e temi adultissimi; e che George Lucas viva in miseria a causa della sua coerenza nell’avere difeso la propria visione d’artista. In realtà Lucas è ricchissimo grazie alla brillante intuizione di avere chiesto, per la realizzazione del primo Star Wars, un compenso fisso relativamente basso in cambio di tutti i diritti sul merchandising.
Magari non tutti si ricordano Space Balls.

Mel Brooks non ci aveva “visto lungo” come ho letto da qualche parte in questi giorni: stava semplicemente descrivendo l’esistente.
Scelte di marketing, racconta Gary Kurtz, che produsse con Lucas i primi due film, fecero scegliere a Lucas di non fare morire Han Solo durante Il ritorno dello Jedi (come chiesto da Harrison Ford, che non ne poteva più del ruolo, e suggerito anche da Kasdan, che sosteneva che la morte di uno dei personaggi avrebbe reso più tesa l’atmosfera del film) e di non chiudere il film su una nota minore, con Luke che se ne va da solo come un eroe spaghetti-western e Leia alle prese con i rischi del potere. I film tristi fanno vendere meno pupazzetti, quindi vai con la festa degli ewok (poi degenerata nella festa della galassia intera con le riedizioni).
Da sempre Lucas è stato un abile venditore del suo materiale, sia agli studios sia ai fan; semplicemente, ha ceduto la Lucasfilm a un pesce più grosso, con più esperienza e più possibilità. Ma i meccanismi di promozione sono gli stessi.
Per quello che riguarda i contenuti, davvero credete che tra i film di Lucas (la trilogia classica e i prequel) e Il risveglio della Forza ci sia tutta questa distanza o siano state edulcorate delle cose?
Star Wars è sempre stata una serie grossomodo “per famiglie”, con molta violenza fuori campo (nei prequel abbiamo due stragi di bambini in due film, ma non su schermo) e qualche momento un po’ più forte soprattutto nei primi due film: i cadaveri carbonizzati di Owen e Beru, un braccio mozzato a Mos Eisley, la sequenza della palude con la testa mozzata di Luke… Già Lucas nelle riedizioni si era messo all’opera per smorzare qualcosa (Han che non spara più per primo; anzi, per unico, visto che Greedo non fa a tempo a rispondere), dopo avere reso il Ritorno decisamente più family-friendly (anche per i papà, grazie al bikini dorato). Il risveglio della Forza per certi versi alza l’asticella, anche rispetto ai prequel: il massacro iniziale da parte degli stormtrooper è feroce e brutale, condotto su persone per lo più inermi. E c’è un simbolismo del sangue, con quella manata dell’uomo morente sull’elmetto di Finn, che se fossi un bambino troverei abbastanza forte. Anche il combattimento tra Finn e Kylo Ren è parecchio meno asettico degli altri duelli a colpi di spada laser che abbiamo visto in precedenza, anche grazie alle famigerate “else” laser che dimostrano la loro utilità (torturare la gente). E che dire di Kylo Ren che si prende a pugni la ferita per risvegliare il dolore che alimenta il Lato Oscuro?
Certo, tralasciando poi quel piccolo particolare del patricidio a sangue freddo di uno dei personaggi più amati della saga (che come abbiamo visto va a rimediare a una “marketta” di trent’anni fa).
Ma anche, in generale, è leggermente più adulto di tutto quello che abbiamo visto nella saga il rapporto tra Han e Leila, il loro distacco causato dal fallimento come genitori. E pure la solitudine di Rey, abbandonata a una vita al confronto della quale quella di Luke su Tatooine sembra uno spasso.
Però sì, sicuramente è colpa della Disney.

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Poi, certo, resta quella sensazione di insoddisfazione dovuta al fatto che non hai visto un film compiuto ma il primo tassello di un progetto più ampio che comprende non solo i due seguiti che comporranno la terza trilogia ma anche tutta una serie di produzioni collaterali. È chiaro che c’è molto nel film che sembra messo lì come un test per verificare il gradimento del pubblico in vista di eventuali spin-off: per esempio, io vedrei volentieri una serie tv su Poe Dameron.
Ma neppure questa è una novità. L’Universo Espanso di Star Wars (per lo più dichiarato apocrifo dopo la cessione alla Disney del 2012) era già un gigantesco blob che espandeva il nucleo iniziale su più media: film, cartoni animati, libri, fumetti, videogiochi. Il Nuovo Canone diventerà in breve altrettanto ramificato.
Pensare, nel 2015, che un franchise come Star Wars si possa basare unicamente sull’evento cinematografico è, quale che sia la nostra opinione al riguardo, pura utopia (e già questa strategia era stata sperimentata nella trilogia prequel, con Clone Wars che si andava a piazzare tra il secondo e il terzo episodio, introducendo tra l’altro Grievous, che gli spettatori cinematografici si trovavano all’inizio del terzo film senza quasi alcuna introduzione). Il passaggio della proprietà alla Disney, che già sta sperimentando la gestione di un universo cinematografico/televisivo condiviso con i personaggi Marvel, da questo punto di vista è un vantaggio perché permette di sperare che il tutto venga supervisionato da un’azienda che sta maturando esperienza in materia e che ha le carte in regola per gestire il tutto al meglio.
Insomma, buongiorno Forza.

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Non ci sono montagne alte abbastanza

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C’è una scena di quel filmaccio su Jerry Lee Lewis in cui il protagonista è costretto a suonare prima di Chuck Berry, nonostante sia lui quello che vende più dischi al momento. Allora mette su un esibizione tiratissima, che conclude dando fuoco al pianoforte. “Sono tutti tuoi,” dice alla fine al povero Berry, andandosene dal palco.

Ecco, “Guardiani della Galassia” fa lo stesso con il nuovo film di Star Wars in lavorazione.

Già il povero JJ Abrahms doveva sudare le proverbiali sette camicie per ridare fiato a un franchise che Lucas aveva cercato di disintegrare in tutti i modi possibili; ora si troverà pure a doversi confrontare con l’ingombrante spettro di un film che ha messo in scena tutto quello che di spettacolare c’era nella saga senza neanche un filo delle menate sulla Forza e il Lato Oscuro di cui, in fin dei conti, non è mai fregato niente a nessuno. Tanto appunto che quando Lucas ci ha propinato tre film in cui la cosa era costantemente in scena con la delicatezza di un panzer abbiamo tutti pregato per una morte rapida (ancora più che per Jar Jar Binks o per la faccia di fango del cane che interpretava Anakin).
Pensare che è tutto in casa Disney. E che in vista dell’acquisizione di Star Wars la stessa Disney aveva fatto di tutto per soffocare nella culla il promettente John Carter.
E invece, BAM, ti spunta dal nulla questo gruppo di personaggi improbabili ripescati dai meandri dell’Universo Marvel da una serie divertentissima e in due ore porta a casa un film in cui c’è tutto: azione, tamarragine, il famigerato sense of wonder, guasconeria, personaggi larger than life, UN PROCIONE CON IL MITRA (ed è tutta di colpa di Paul McCartney, pensa un po’), un sacco di risate, Space Invaders a tradimento, persino il Tempo delle mele…

La cosa più folle di tutte è che questa roba, sulla carta un suicidio commerciale, ha sfondato il botteghino.
Il che è straordinario perché vuol dire che “Marvel” è evidentemente diventato un marchio capace di portare al cinema molta più gente di quanta compri o comprerà i fumetti. E a questo punto, se è andata bene con questa, c’è il rischio che davvero si azzardino a portare sullo schermo più o meno qualsiasi cosa dal titanico serbatoio della Casa delle Idee; e non so se abbiamo abbastanza pop-corn, da queste parti. Poi non è detto che tutto venga bene (ciao, Agents of S.H.I.E.L.D.), però magari va a finire che ci scappa fuori un film decente sul Punitore (a questo punto è lecito anche aspettarsi il Punitore sopra le righe della prima gestione Ennis?). E magari pure il remake di quel film evocato alla fine…

Comunque: auguri JJ.
Ne avrai bisogno, con tutti quei pianoforti in fiamme.

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All you need is cash, o della parodia preventiva

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C’è un film in cui recitano Eric Idle, Micheal Palin, John Belushi, Dan Akroyd, Bill Murray, Mick Jagger, George Harrison, Ron Wood, Neil Innes, Paul Simon e Bianca Jagger.
Sul serio.
Si chiama All you need is cash ed è la prima parodia preventiva della storia del cinema, nel senso che è uscito prima del materiale che prende in giro. Continua a leggere

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Pacific Rim

Purtroppo il film non si merita tutta questa fighezza

Faccio parte, essendo nato nel 1979, della seconda generazione o giù di lì, in termini televisivi, ad avere visto i cartoni animati giapponesi di robottoni. E il primo ricordo che ne ho è che mi facevano paura, al punto da cambiare canale appena iniziavano. Avevo tre, quattro anni e non avevo paura dei mostri: avevo paura dei robot.
Razionalmente, questo dovrebbe dire qualcosa sulla potenza di quei cartoni animati (oltre che sul mio essere un fifone da competizione), ben espressa da una frase del prologo, decisamente in medias res, di Pacific Rim: per combattere dei mostri abbiamo costruito dei mostri. Una frase potentissima che, come molto altro nel film, verrà buttata lì e abbandonata.

Perché purtroppo, al di là di scene di lotta bellissime e di una concezione dei robottoni per fortuna lontana anni luce da quella di Transformers, Pacific Rim tende a fare questo: prende delle idee, ti ci fa vagamente appassionare e poi… le butta via.
Tutte le parti “umane” del film sono frustranti perché non mettono neanche in scena degli stereotipi, ma si limitano ad accennarli il tempo necessario ad arrivare finalmente al momento di menare le mani con i kaiju. Che, è vero, è quello che volevamo vedere tutti e siamo stati accontentati quasi oltre le nostre più rosee aspettative; però al di fuori dei container sulla faccia, delle mazzate sulla nuca, delle spade retrattili e delle esplosioni nucleari non c’è un mondo che ti faccia davvero appassionare a quello che sta succedendo.
L’inizio senza fronzoli del film è fantastico perché ti butta direttamente nel cuore della storia, al prezzo però di sacrificare la possibilità per lo spettatore di calarsi davvero nel mondo degli jaeger (i robot), dei loro piloti, della minaccia dei kaiju (i mostri). Avete presente la massima dello show don’t tell? Ecco, Pacific Rim cerca di costruire un mondo raccontando molto e mostrando poco: ci viene detto che i piloti nel momento di massima gloria sono popolari come rockstar, per esempio. Ci viene detto quanto sono fighi il robot russo e quello cinese, ma ci vengono mostrati pochissimo in azione. Dobbiamo fare a fidarci.
Il mondo è sull’orlo della catastrofe, quando il film inizia davvero, ma lo sappiamo perché ogni tanto qualcuno si ricorda di dirlo, perché altrimenti tutti conducono la loro vita abbastanza tranquillamente. Uno degli aspetti più interessanti del film, quello del mercato delle parti di kaiju, è appena introdotto e, di nuovo, lasciato cadere: sappiamo che gli umani fanno uso delle parti di mostri quasi solo perché, di nuovo, ci viene detto da un personaggio.
A questa sciatteria nel delineare il mondo in cui si svolge la storia si aggiunge quella nel tratteggiare i personaggi. Mako è il caso più evidente, perché il suo trauma viene introdotto, messo in scena (in una scena visivamente bellissima) e poi… puff! finisce lo screen time per le beghe dei personaggi ed eccola pronta all’azione. La rivalità tra i piloti è accennata, c’è la scazzottata e poi, boh, finita lì. Gli scienziati, esplicitamente ricalcati su Leonard e Sheldon di The Big Bang Theory, sono sempre sull’orlo del grottesco senza mai che il film di decida di spingere davvero in quella direzione.
Da più parti sento dire che i personaggi sarebbero stereotipi: è vero a metà, perché se fossero stereotipi fino in fondo avrebbero dei percorsi soddisfacenti e non abbozzati (Avatar è un film dove ogni personaggio risponde perfettamente a degli stereotipi e svolge alla sua perfezione il suo ruolo; anche se questo non vuol dire che sia un buon film, ma semplicemente che la sua linea narrativa è formalmente più compiuta). Sarebbe stato più onesto e più soddisfacente, almeno per me, avere dei personaggi più monolitici, non accennare nemmeno a tentativi di sviluppo se poi non si vogliono portare a compimento.
Un film di gente cazzuta che pilota robot giganteschi e si scambia battute cazzute da film di guerra avrebbe avuto un effetto diverso (tipo Starship Troopers) (poi se siete quelli a cui Starship Troopers non è piaciuto io non so che farci, problemi vostri). O una vera storia di rivalità e amicizia tra piloti come Top Gun. Non un grosso, enorme, BOH.

Tutto quello che ho scritto sopra dei personaggi umani e dell’ambientazione azzoppa un film che invece, quando tira fuori i robot, fa tutto nel modo più corretto. I jaeger sono delle macchine, grosse, pesanti, piene di parti in movimento e il cui peso, la cui materia sono ben espressi dalle inquadrature, dalla CGI. Sono quasi più belli quando perdono dei pezzi che quando sono interi, guadagnano un’espressività e un pathos che la linea narrativa umana non riesce mai a raggiungere.
Pacific Rim poteva essere un film gigantesco, di quelli che “fanno immaginario”. E invece non lascia quasi nulla, al di là del divertimento delle belle scene di lotta, rese ancora più epiche (e un po’ paracule) da tutta quell’acqua che viene giù dal cielo o sta attorno ai robot.
Non è una questione di sospensione dell’incredulità: accetto senza problemi le premesse del genere, per stupide che possano sembrare (creare giganteschi robot antropomorfi è stupido e antieconomico, se ci si pensa bene), trovo strepitoso buttare lì una cosa come quella dei dinosauri in barba al buon senso scientifico, mi va bene che a un certo punto uno di quei cosi partorisca; ho pagato il biglietto per un film di robottoni e mostri e so cosa stavo comprando.
È una questione di mancanza di appigli a cui cercare di attaccare una qualunque forma di affezione: i personaggi sono piatti come sottilette, inconcludenti e incoerenti, tanto che Ron Perlman, con una macchietta, conquista la scena senza alcuna fatica. Non c’è non dico un Han Solo o una Ripley ma neanche una Vasquez o un Boba Fett (diventato un’icona nonostante tutto quello che faccia sia più o meno ritirare Han Solo come pacchetto postale e finire poi per sbaglio divorato da un mostro). Pure i mostri sono alla fine abbastanza anonimi e difficilmente distingubili tra di loro.
Ci resterà pochissimo, di Pacific Rim, una volta che sarà passato dal grande schermo ai DVD e ai Blue Ray, perché non c’è niente che ci possa davvero fare appassionare alla lotta per la salvezza della Terra tra una scena di lotta all’altro.

(Nel caso qualcuno si stesse chiedendo un esempio di una buona storia di robottoni contro mostri, consiglio di dare un’occhiata a Beta di Luca Vanzella e Luca Genovese, pubblicato da Bao in due volumi [1 e 2; i link sono sponsorizzati quindi per ogni acquisto in caso io ricevo qualche spicciolo da amazon]. Lì ci trovate l’omaggio ai cartoni della nostra infanzia, dei personaggi che sono più che dei segnaposto tra una scazzottata e l’altra, un disegno dinamico in bilico tra il tratto orientale e qualcosa di più personale, sempre dinamicissimo, guardare l’anteprima su Iussu per credere)

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“Andiamo in Polonia” (7 di 15; trompe l’oeil)

Riassunto: mai arrivare troppo presto in aeroporto, ma andate a Cracovia che è bella, basta stare attenti agli italiani idioti e alle vespe fuori dalle miniere di sale. Inoltre, a Wroclaw occhio che si inciampa negli gnomi.

Mezzucci per aumentare le visite al blog.

Una cosa buffa che dovete sapere della Polonia è che sono cattolicissimi. Ma del tipo che ho visto farmacie che non esponevano i preservativi, preferendo nasconderli nel cassettone più nascosto di tutti, protetti dai sette sigilli di Salomone.
Però poi per il centro di Wroclaw (e di Pozan e di Torun e di Danzica) trovi queste ragazze in minigonna fucsia e ombrellino in tinta che distribuiscono volantini per una catena di nightclub agli uomini non accompagnati. Continua a leggere

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Indiana Jones e il tempo maledetto

Ciao George, ciao Steven,

alla fine mi sono preso due ore per vedere Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo. E avrei fatto meglio a restare nell’ignoranza.
No, tranquilli. Non ho intenzione di fare il pippone da fan tradito, quello lo avrete già letto milioni di volte e francamente non credo interessi più a nessuno parlare della scena del frigorifero (che era una bella idea, se solo si spostava il paesino ben lontano dal punto d’impatto) o di quanto quel milione di formiche in CGI non riescano a essere spaventose come il pavimento croccante del Tempio Maledetto. E non diciamo niente degli alieni. E di Shia LaBeouf che sembra Ross di Friends. E dei sovietici che non hanno un briciolo del carisma dei nazisti. E…
Scusate, stavo finendo per fare il pippone nerd.
Il punto è un altro: avrete senz’altro visto la famosa puntata di South Park in cui siete stati accusati di avere stuprato Indiana Jones (e l’universo di Star Wars, ma questa è un’altra storia). Fa abbastanza ridere, anche se non si dovrebbe usare lo stupro come una gag. Però fa ridere.
Ma è sbagliata.
Non è Indiana Jones che avete brutalizzato. In fin dei conti, il dottor Jones fa quello che faceva negli altri film, grossomodo.
Il punto è un altro. Che bisogno c’era di ricordare a noi che oggi abbiamo un po’ più di trent’anni o giù di lì – e che i film di Indiana Jones li abbiamo visti da quando eravamo bambini al cinema e/o (soprattutto) in vhs registrate da Italia Uno con in mezzo la pubblicità – che quelle persone che un tempo ci sembravano giovani e forti e infallibili invece sono invecchiate e non sono e non saranno mai più quello che sono nei nostri ricordi?
Anche se Harrison Ford è in forma per un uomo della sua età, ogni inquadratura in cui si vede Indiana Jones invecchiato è ammantata di una malinconia potentissima, è un memento mori crudele e spietato di cui nessuno sentiva il bisogno. Succede nel mondo reale, davanti ai nostri occhi, ogni giorno; che bisogno c’era di corrompere con lo scorrere del tempo anche il microcosmo perfetto di Indiana Jones?
Non so se mai nessuno l’ha scritto esplicitamente, ma io credo che inconsciamente gran parte del rifiuto con cui parte del fandom ha accolto il vostro film nasce proprio da questo: non ve ne siete accorti, ma ci avete tenuti due ore a ricordarci che i padri invecchiano.
Quando noi non volevamo altro che un po’ di avventura e dialoghi brillanti.
Siete soddisfatti?

a.

ps: lo sa già che cosa state dicendo: “e se si fa il prequel di Star Wars non va bene, e se si fa il seguito di Indiana Jones non va bene. Che cosa dovremmo fare?”. La risposta è semplice: lasciare in pace le cose che funzionano. O almeno farle con garbo. Nessuno si è mai lamentato troppo della serie sul giovane Indiana Jones, no?
pps: no, ma la scena del frigo? E il pitone nelle sabbie mobili?

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