Esistono canzoni che non esistono

L’altro giorno mi è passato sotto gli occhi un thread su X (il circo a tre piste che ha sostituito quello strumento non perfetto ma utile che era Twitter) dedicato alle migliori canzoni che “esistono” solo in film o serie tv. Per intenderci, non tanto quelle scritte appositamente per la colonna sonora, ma quelle che vengono scritte o eseguite dai personaggi e hanno un qualche ruolo nella storia.
Siccome l’idea è carina, la parassito per fare un post (senza un ordine particolare)

The Wonders – That thing you do!
Sta in un film del 1996 diretto da Tom Hank, Music Graffiti. Lo beccai una volta già iniziato in tv e rimasi a guardare perché c’era Liv Tyler. È la storia di ascesa e crisi di un gruppo fittizio degli anni sessanta, uno dei tanti complessi nati in America sulla scia dei Beatles, che azzecca questo singolo pazzesco. Scritta da Adam Schlesinger (Fountain of Youth), That thing you do! è un perfetto pastiche beatlesiano, al punto che è difficile non pensare che fosse un vero singolo dell’epoca. I riferimenti beatlesiani si estendono anche alla vicenda della canzone: nata come uno slow, esplode quando viene velocizzata – come Please Please Me.
Trad. – Good Ol’ Shoe
Wag the Dog, in italiano criminalmente intitolato Sesso e Potere (si parla molto di potere e nulla di sesso) è una satira molto pungente su un presidente americano che, aiutato da un cinico esperto di comunicazione (Robert De Niro in cosplay da Umberto Eco), inventa una guerra (inesistente) per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo. A un certo punto della storia, come sostengo emotivo alla storia di un soldato caduto prigioniero del nemico, viene fatta incidere una canzone folk con un vago collegamento con la vicenda per poi farla “ritrovare” nella biblioteca del Congresso come pezzo registrato negli anni Trenta. La cosa straordinaria è che la gente inizia a “ricordare” di avere sentito canticchiare il pezzo dal nonno, tipo. Film ancora molto bello, da recuperare assolutamente. Il vero autore di Good Ol’ Shoe è Edgar Winter.
The Rutles – Goose Step Mama
Restando in ambito beatlesiano, ai Rutles e al loro mockumentary “All you need is cash” avevo dedicato un post secoli fa. In generale, lo scimmiottamento dello stile dei Beatles è perfetto, prendo Goose Step Mama ma poteva essere qualunque altra.

PoP – Pop! Goes My Heart
Sta in Scrivimi una canzone, film del genere “commedia romantica con Hugh Grant”, in cui il mio Dylan Dog mancato preferito interpreta un cantante che aveva avuto un (nel senso di uno) successo enorme negli anni 80 per poi svanire nel dimenticatoio. La canzone è divertente, ma il video whammeggiante e carico di rimandi ad altri di quel decennio (compresa una sorprendente citazione del video di Breaking the Law dei Judas Priest) è imperdibile.

Drive Shaft – You all everybody
Chi ha perso dietro a Lost i migliori anni della propria gioventù non può dimenticare i Drive Shaft e la loro hit, presa di peso dal catalogo dei fratelli Gallagher.
Steel Dragon – Blood Pollution
Rockstar, con Mark Whalberg e Jennifer Anniston, è un filmaccio. Il tentativo di raccontare una storia ispirata alla sostituzione nei Judas Priest di Rob Halford con il cantante di una loro cover band, Tim “Ripper” Owens, ha avuto un esito abbastanza deludente, piena di cliché noiosi. Per fortuna la colonna sonora, tra cover e inediti, è invece godibile. Tra l’altro, alla chitarra c’è Zakk Wylde e alla batteria Jason Bonham.
Community – Dean’s Rap
Community è forse la mia sitcom preferita, per i suoi alti vertiginosi che riescono a far perdonare anche le ultime stagioni meno brillanti. Questo è uno dei momenti musicali più straordinari.
Infant Sorrow feat. Jackie Q – African Child
“La terza cosa peggiore mai successa all’africa, dopo guerre e carestie”, da In viaggio con una rockstar, è un gradevole pezzo pop “impegnato”, con un altro video perfetto.
Dewey Cox – Black Sheep
Walk hard, criminalmente ignorato dal grande pubblico, è la parodia definitiva dei biopic musicali, al punto che non capisco come sia possibile che continuino a farli tutti allo stesso modo dopo che nel 2007 tutti i loro trucchi erano stati ridicolizzati in modo così preciso. A ogni modo: usando come canovaccio la storia di Johnny Cash, Walk Hard racconta la lunga vita di Dewey Cox, che partendo dal country attraversa nei decenni tutti i generi (a volte anticipandoli, come quando scopre la cocaina e per un pomeriggio inventa il punk negli anni sessanta – un po’ come in Get Back si scopre che i Beatles nel pomeriggio in cui restano senza George Harrison sfogano la rabbia suonando qualcosa che assomiglia molto al futuro noise rock). Black Sheep fa parte del periodo psichedelico di Dewey, ispirato allo sbarellamento di Brian Wilson dei Beach Boys. La fedeltà al modello è garantita dal fatto che è scritta da Van Dyke Parks, che di Wilson è stato spesso collaboratore (anche in quegli anni).
Spinal Tap – Tonight I’m gonna rock you Tonight
E come si fa a non citare gli Spinal Tap? La credibilità del mockumentary che li vede protagonisti nasce anche da quanto le canzoni siano sì stupide ma musicalmente ben calibrate sui canoni dei generi che vogliono sbeffeggiare. Cosa che con il Metal fine anni settanta / inizio anni ottanta viene particolarmente bene.
Phoebe Buffay – Smelly Cat
Me l’ero in prima battuta dimenticata, ma forse è la canzone finzionale più influente e duratura di tutte, al punto che Lisa Kudrow è riuscita a farsi accogliere pure dal pubblico di Taylor Swift – cioè circa una generazione dopo l’epoca d’oro di Friends.

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Cicalone a Genova

Cicalone, per chi non lo conoscesse, è uno youtuber romano con un buon seguito (oltre 600.000 iscritti) che si è creato attraverso contenuti orientati prima allo smascheramento ironico dei fenomeni delle arti marziali (i “krav maghi”, come li chiama lui, quelli che offrono corsi in cui promettono di insegnare mirabolanti tecniche di autodifesa) e poi al racconto ravvicinato della “vita di strada”, delle situazioni di “degrado” e disagio della città, con un particolare focus sulla zona della Stazione Termini a Roma e dei quartieri di Roma.
Quest’ultimo format, che prevede una passeggiata accompagnato da un gruppo di pugili per raccogliere le voci di chi vive per strada o documentare situazioni a rischio, si è poi esteso alle zone “calde” di altre città italiane. Tra cui, nel video uscito a fine gennaio, Genova.

“Siamo stati a Genova per raccontare i famigerati vicoli del centro di Genova, da sempre temuti dagli abitanti e dai turisti , luoghi angusti dove ad ogni angolo è possibile fare un incontro poco piacevole , ci siamo fatti un giro con un gruppo eterogeneo di ragazzi di Genova ma ad un certo punto la tensione è salita e sono arrivati i soliti kamikaze che volevano impedirci di passare per certe strade”

Come è andata?

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Ritagli

Una delle cose più pratiche che permette di fare un e-reader è sottolineare i testi e avere poi a portata di mano tutti i passaggi che si vogliono conservare.
Di seguito, una piccola raccolta di sottolineature, senza un particolare filo conduttore, tra saggi e narrativa, dagli ultimi tre anni circa di letture.

Alberto Grandi, Denominazione di origine inventata
Questo è il paese nel quale due tra le regioni più ricche del mondo, il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia, si fanno la guerra per stabilire la paternità del tiramisù, dove politici di levatura nazionale scendono in campo come cavalieri medievali per difendere l’onore di una salsiccia o di un formaggio. C’è qualcosa di medievale, in effetti, nell’impegno profuso da ogni singolo comune per ottenere una qualche forma di riconoscimento al suo prodotto locale. Quasi che i prodotti tipici siano “le sacre reliquie del Ventunesimo secolo, il pane di grano arso venerato come il braccio di Sant’Antonio, la colatura di alici come il sangue di San Gennaro, le strade del vino come il cammino dei pellegrini, la lotta per la Dop come l’ultima crociata”

Anatolij Kuznecov, Babij Jar (trad. Emanuela Guercetti)
Era in corso una fantastica guerra con la Polonia. Hitler da occidente, noi da oriente – e fine della Polonia. Naturalmente, per salvare le apparenze la chiamammo «liberazione dell’Ucraina Occidentale e della Bielorussia», e appendemmo manifesti dove una specie di servo della gleba tutto lacero abbracciava un valoroso liberatore dell’Armata Rossa. Ma così si usa. Chi invade è sempre il liberatore da qualcosa.

I sistemi della menzogna e della violenza hanno scoperto e sfruttato brillantemente un punto debole dell’uomo: la credulità. Il mondo va male. Si presenta un benefattore con un progetto di radicali cambiamenti. Secondo questo progetto oggi sono necessari sacrifici, ma in compenso sulla linea del traguardo sarà garantito a tutti il paradiso. Qualche parola incendiaria, una pallottola alla nuca per gli increduli – ed ecco già folle di milioni in preda all’entusiasmo. Una cosa incredibilmente primitiva – ma funziona!

Lawrence Wright, Dio salvi il Texas (trad. Paola Peduzzi)
La Humane Society degli Stati Uniti ritiene che ci siano più tigri che vivono in cattività in Texas che le tremila che vivono allo stato brado.

C’è un antico detto che dice che la ragione per i cui i battisti non avvitano nulla stando in piedi è perché qualcuno potrebbe pensare che stiano ballando.

Sfinita dal trattamento spietato riservato alle donne, Jessica Farrar, deputata liberal di Houston, introdusse la legge 4260, il Man’s Right to Know Act, usando lo stesso linguaggio paternalistico “lo faccio per il tuo bene” che caratterizza le molte norme riguardo all’aborto e alla salute delle donne – richiedendo per esempio un’ecografia e un esame rettale prima di prescrivere il Viagra.

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“Mio cugggino ha fatto questo e quello”: Il conte Attilio, di Claudio Paglieri

I Promessi Sposi è ambientato negli stessi anni dei Tre Moschettieri, in un periodo di intrighi internazionali, guerre, avventurieri, soldati di ventura e spadaccini, ma non ce ne si accorge perché Manzoni – per tutte quelle questioni di poetica che certamente ricordiamo tutti dai tempi delle superiori (…) – scelse di tenere quel mondo ai margini della sua storia.
Però ci sono dei personaggi che hanno vissuto, o ancora vivono, in quel mondo: Fra Cristoforo ne ha fatto parte, l’Innominato e Don Rodrigo ne fanno parte. E poi c’è il conte Attilio.

Attilio, secondo da sinistra, discute con Fra Cristoforo

Attilio è il cugino di Don Rodrigo, vive a Milano ed è pienamente immerso nel mondo dei nobili. È lui, per certi versi, il motore delle sventure di Renzo e Lucia, perché scommette con il cugino che non riuscirà a sedurre la ragazza, poi muove le sue pedine (il famoso “conte zio”) per far trasferire Fra Cristoforo, che ha intralciato il rapimento con cui Don Rodrigo sperava di vincere la scommessa.

Insomma, nel mondo di Manzoni, Attilio è una carogna fatta e finita – uno di quelli di cui la peste fa pulizia, senza neanche la dignità di una morte in scena.

A Claudio Paglieri, scrittore genovese autore della serie di romanzi gialli che ha per protagonista il commissario Marco Luciani, invece Attilio è sempre stato simpatico, tanto da farne il protagonista di un funambolico prequel cappa e spada del romanzo manzoniano, appunto Il conte Attilio. Ovviamente, non c’è alcuna pretesa di mimetismo manzoniano: il romanzo di Paglieri è un romanzo d’avventura, picaresco, in cui si avvicendano viaggi, avventure, conquiste amorose, truffe fatte e subite, agguati e tradimenti. Allo stesso tempo, però, rispetta l’attenzione manzoniana alla Storia, intrecciando le vicende dei personaggi con quelle dell’impero spagnolo (alle prese con guerre di religione e crisi finanziarie) e della sua alleata, Genova.
Non solo: Paglieri si rifà a un’interpretazione che vede nella famiglia di Don Rodrigo la trasposizione letteraria di una casata con cui quella di Manzoni ebbe rapporti molto tesi durante il XVII secolo, quindi è forse il primo caso di prequel di un romanzo in cui tra gli antagonisti ci sono gli antenati dell’autore del romanzo originale.
In mezzo, si trova un divertito uso di citazioni dirette di espressioni famose dei Promessi Sposi (oltre a vedere in diretta la bastonatura di un messaggero di cui si parla nel capitolo in cui Cristoforo si ritrova a tavola con Don Rodrigo e Attilio), in mezzo ad altre cose più contemporanee (c’è una sequenza che sta a metà tra Lady Hawke e Il laureato, ma ci sono anche echi della trilogia di Magdeburg di Altieri e un richiamo diretto al Tulipano nero* di Dumas).

Forse ogni tanto al buon Attilio, che scopriamo spregiudicato ma in fondo dotato di buon cuore e ben più onorevole di altri suoi contemporanei, tocca in sorte più fortuna di quella che sarebbe accettabile (nella texwilleriana sequenza del furto ai danni dei Balbi, per esempio) ma il romanzo è divertente, fila come un treno e fa venire voglia di leggerne il seguito. Non nel senso dei Promessi Sposi (che è comunque un libro molto migliore del ricordo che ce ne ha lasciato la scuola, come ho scoperto ascoltando qualche tempo l’audiolibro interpretato da Paolo Poli) ma nel senso di quello che l’autore lascia intravedere nel finale aperto e nelle note conclusive; un romanzo che dovrebbe a questo punto scorrere parallelo alle vicende manzoniane e che si prospetta interessante.

A questo punto ci vorrebbe, complice il 150° della morte di Manzoni, la nascita di un vero e proprio Manzoniverse: il passo successivo dovrebbero essere le vicende di Fra Cristoforo prima di diventare frate, e poi ovviamente la grande epopea dell’Innominato.

* Nonostante l’omonimia con un famoso sceneggiato televisivo e con un cartone giapponese la cui vera protagonista era invece la Stella della Senna (<3), il romanzo di Dumas non è una vicenda di cappa e spada ma una bizzarra storia di avventura “botanico-finanziaria” ambientata durante il boom del mercato dei tulipani in Olanda.

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Won’t you help to sing, these songs of revenge

La vicenda di Shakira che dissa il suo ex fidanzato paragonando se stessa a un Rolex e a una Ferrari e la di lui nuova fiamma a un Casio e a una Twingo mi sembra una buona occasione per rispolverare il blog e parlare di qualche revenge song, cioè quelle canzoni in un cui un’artista fa volare gli stracci verso un o una ex.
Non pretende di essere una trattazione esclusiva, sono solo quelle che mi vengono in mente (ovviamente, teniamo fuori Adele, la cui intera discografia ricade nella categoria).

You oughta know – Alanis Morrissette

La storia la sappiamo tutte/i: loro stavano insieme, lui l’ha lasciata per un’altra, lei gli chiede se la “versione più giovane di lei” gli faccia le stesse cose che gli faceva lui a teatro.
Ora, magari il problema era questo, Alanis: magari lui stava cercando di seguire l’Enrico VIII o quello che era.
Sul disco, ci suonava una specie di dream-team dell’Alternative Rock anni 90: Dave Navarro, Flea e Justin Hawkins, pronto a correre alla corte di Dave Grohl.

Quattro stracci – Francesco Guccini

A inizio anni novanta Francesco Guccini divorzia. Scrive sul rapporto con l’ormai ex moglie una canzone molto elegiaca e nostalgica, Farewell. Narra la leggenda che quando lei la sente risponde una cosa tipo “E quindi? Dovrei piangere?”.
Il Maestrone non la prende benissimo e butta giù quattro minuti di invettiva in sol maggiore, che raggiungono probabilmente l’apice con i delicati versi: “Nata di marzo, nata balzana, casta che sogna d’esser puttana” (ma c’è anche una delle massime gucciniane più citate, “ci vuole scienza, ci vuol costanza, per invecchiare senza maturità”.

Don’t think twice it’s all right – Bob Dylan

Suze Ruotolo (la ragazza che abbraccia Bob Dylan sulla copertina del suo primo disco, all’epoca sua fidanzata) decide di prolungare a tempo indeterminato la sua permanenza in Italia. Bob mette il capotasto alla chitarra, rispolvera un brano folk che ha imparato qualche tempo prima, ci canta sopra un testo nuovo e va all’incasso con la SIAE.
Sono tre minuti e mezzo passivo-aggressivi in cui Dylan dice che non c’è da stare a rimuginarci sopra, che va tutto bene, non è che fosse ‘sta gran cosa, “hai solo tipo sprecato il mio prezioso tempo”.
(poi Suze tornò dall’Italia e rimasero insieme ancora per un po’, lei ebbe un’aborto, lui iniziò una relazione con Joan Baez e tutto andò gambe all’aria. Dylan scrisse un’altra revenge song, Ballad in plain D, di cui poi si pentì – otto minuti e mezzo sul tema “tua madre e tua sorelle sono stronze”).

You’re so vain – Carly Simon

Lui è un inguaribile narciso convinto di potersele fare tutte, quando lei era più giovane l’ha illusa, ma comunque lui è così vanesio che penserà sicuramente che questa canzone parlerà di lui.
Nel 1972, anno della canzone, Carly Simon era spostata con James Taylor, e diceva che la canzone non parlava di una persona specifica, ma degli uomini in generale. Tuttavia, ci sono alcuni dettagli nella canzone che fanno pensare che si possa riferire a una persona specifica e così la stampa ha sempre cercato di identificare questo uomo misterioso. Ora sembra abbastanza appurato che alcune cose si riferivano all’attore Warren Beatty, ma c’è sempre stato un grande candidato al ruolo di protagonista di questa canzone (che tra l’altro ci canta pure): Mick Jagger. Nel 1983 Simon ha detto che la canzone non parlava di Mick, ma nel frattempo…

Star Star – The Rolling Stones

Nel frattempo, nel 1973 pubblicano una canzone che si chiama Star Star solo per ragioni di presentabilità ma il cui vero titolo è sempre stato Starfucker e in cui Mick Jagger sembra rispondere in alcuni punti alla canzone di Carly Simon, nel tratteggiare la figura di una groupie seriale di cui sembra conoscere molti dettagli.
Il testo è un trionfo di gioiosa volgarità, con cose tipo “Yeah, Ali McGraw got mad with you / For givin’ head to Steve McQueen”; mentre nelle versioni dal vivo (pazzesca quella del 1978 in cui gli Stones rivendicano di essere stati i New York Dolls prima dei New York Dolls) spunta pure il nome di Jimmy Page.

Pretty tied up – Guns n’ Roses

Chiudiamo con una cosa un po’ azzardata, ma credetemi: Pretty Tied Up è una revenge song per una rock band, cantata dalla rock band stessa a cui è dedicata.
La storia è questa: Izzy Stradlin’ è amico di Axl Rose fin da ragazzino, insieme si fanno tutto di cui ci si può fare, vanno a Los Angeles, fondano i Guns n’ Roses, diventano rockstar, fanno tutto quello che hanno sempre sognato di fare. Poi succede che Izzy si renda conto che o ci dà un taglio con la droga o muore; si disintossica e, per la prima volta sobrio da anni, si accorge che Axl è un insopportabile coglione, che quella vita gli è insopportabile e che il gigantismo raggiunto dopo appena un disco dal gruppo non fa per lui. Fa in tempo a scrivere qualche canzone per i due Use your Illusion e suonarle, prima di levarsi di torno, a novembre del 1991. Una di quelle canzoni è questa, che parla di una ragazza che ha sempre più bisogno di essere maltrattata e legata per provare qualche piacere e in cui la seconda strofa parla di un gruppo rock che una volta era una forza, ma che con il tempo è diventato una barzelletta. È un mistero come Axl non abbia capito di che cosa parlasse la canzone – che sta nello stesso disco in cui sfida a singolar tenzone i giornalisti che hanno parlato male di lui, citandoli per nome e cognome.
Con una certa coerenza, Izzy non è mai rientrato in pianta stabile nei Guns, salvo per qualche concerto. Se Enrico Brizzi avesse intitolato il suo romanzo di esordio “Izzy è uscito dal gruppo” non si sarebbe trovato con l’eroe eponimo che gli sputtana uno dei passaggi più significativi rientrando nel gruppo in tempo per scagliarlo nei piani più alti dello star system.

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Finlandia, 2022

Giorno 1

Da Roma a Porvoo

In aeroporto succede questa cosa.
Al terminal c’è un pianoforte a disposizione dei viaggiatori. Per un po’ – se siete quelle persone come me che devono arrivare in aeroporto almeno tre ore prima anche se è un volo Schengen con solo bagaglio a mano e check-in online, al terminal ci state un po’ – alla tastiera si alternano persone abbastanza competenti. Stanno pur sempre imponendo della musica al prossimo, anche se in modo più socialmente accettabile che dalla cassa blutooth, però almeno si impegnano per farlo. Tutto sommato, sono piacevoli. Anzi, li invidio anche un po’.
Comunque, a un certo punto si impadroniscono del pianoforte due o tre bambini che percuotono la tastiera a mano aperta e non una o due volte.
Per dieci minuti. 
“E i genitori?” ci si chiederà.
Io per esempio me lo sono chiesto e quando ho allungato la testa verso il pianoforte ho visto – mentre uno dei bambini aveva scoperto il pedale del sostenuto, rendendo la situazione ormai ai confini delle più folli sperimentazioni rumoriste – un paio di adulti osservare compiaciuti e divertiti i propri figli che rendevano peggiore la mattinata di decine di persone. Mentre pensavo a come recuperare i loro indirizzi e regalare per Natale ai figli una battieria, sono comparsi due inservienti dell’aeroporto, che non hanno semplicemente chiuso il pianoforte: lo hanno portato via, per tutti, per chi sapeva suonare e per chi lo aveva scambiato per un attrezzo per far sfogare un po’ i figli.
Questa storia mi sembra che ci insegni qualcosa.

Non mettevo piede in aeroporto da due anni e mezzo.
L’ultimo viaggio del mondo prima io e Lucilla lo avevamo fatto a Budapest, nel febbraio del 2020. Anzi, eravamo partiti il 31 gennaio, il giorno dopo il ricovero per covid dei due turisti cinesi a Roma. Da Fiumicino. Quella mattina, l’aeroporto era pieno di gente che era corsa a procurarsi la prima mascherina che aveva a portata di mano: qualche chirurgica, forse recuperata da amici sanitari, moltissime da cantiere, i più intraprendenti una sciarpa ben stretta. A noi, quel giorno, sembravano ancora tutti matti.
Poi siamo rimasti separati tre mesi, io a Bologna e lei a Roma.
Ora, siccome ho più ferie di Lucilla ad agosto, sono partito per una settimana, da solo, in Finlandia.
È una cosa che non ho mai fatto: non andare in Finlandia (ci eravamo stati nel 2015), ma andare in viaggio da solo. Non solo, è la prima volta che faccio una vacanza guidando, visto che ho preso la patente, a 18 anni e qualche decina di mesi di troppo, solo a novembre del 2020.

Fiumicino mi ricorda una cosa: che viaggiare mi mancava, l’industria del viaggio meno.
Faccio venti minuti di coda per una brioche stopposa e un caffè che parliamone, in aereo per 9 euro acquisto da Finn Air un “cheese plate” neanche così orribile, se non fosse per l’hummus che sa di piedi. Il mio biglietto non prevede bagaglio da stiva, quindi ho un guardaroba minimale e devo fare attenzione a qualsiasi salsa.

Però per ora tutto bene. Scrivo bevendo una birra in lattina del supermercato (una gradevole Karhu Summer Ale da 3,50 euro per mezzo litro) seduto fuori da una casa di campagna fuori Porvoo dove ho affittato una stanza per la notte che mi è costata quanto la cena – l’hamburger blue cheese e blueberries è stato un ottimo azzardo, l’insalata di gamberetti finlandese con aneto pure. Ho il bagno in corridoio, ma ok, ci può stare.

Sono sopravvissuto non solo alla mia prima auto a noleggio, ma all prima con il cambio automatico (è bellissimo, la frizione è un retaggio ottocentesco da abbattere) (“nooo, perché io devo sentire il momento in cui il motore mi sussurra cambia ora, sarà bellissimooooh” dirà qualcuno, ma francamente la comodità non ha prezzo).

Porvoo è carina, una cittadina a mezz’ora da Helsinki che ha conservato un piccolo pezzo di città antica con gli edifici in legno colorati affacciati sul fiume. Il resto della città sembra abbastanza trascurabile, ma la città vecchia è piacevole. Certo, per una gita in giornata da Helsinki, come propone la Lonely Planet, mi sembra eccessiva. Però l’esperienza mi è stata utile perché mi ha permesso di decifrare un’altra delle espressioni ricorrenti del linguaggio Lonely Planet. Quando parlano di un posto dove dovete assolutamente pernottare, perché quando se ne vanno i turisti avete le strade tutte per voi dimenticano di specificare che tipo non c’è nemmeno più un posto dove mangiare e la tristezza e la solitudine possono diventare tangibili.

(“Imparare a leggere la Lonely Planet” è il libro che scriverò un giorno)

Giorno 2

Da Porvoo a Savonlinna

La Finlandia ha un curioso primato.
È l’unico stato europeo confinante con l’URSS all’inizio della seconda guerra mondiale a non essere finito nel Patto di Varsavia. Non che i sovietici non avessero cercato di invaderli, ma come è andata finita lo sintetizza una battuta che girava durante la Guerra Fredda, ogni volta che lo spettro di un’invasione sembrava diventare più concreta: “In Finlandia è pieno di soldati russi. Sono tutti sepolti lungo il confine”.
La relazione della Finlandia con la Russia dal 1918 in poi è stata abbastanza complicata, soprattutto dal fatto che nella seconda guerra mondiale i sovietici invasero la Finlandia due volte – e la seconda i finlandesi si allearono pure con i nazisti, per poi passare l’inizio del 1945 a ricacciarli dalla Lapponia. Un po’, volevo che la presenza dell’ingombrante vicino fosse il tema di questa giornata di viaggio. Per andare da Porvoo a Savonlinna, infatti, sarebbe molto più rapido passare all’interno della regione dei laghi. Io, invece, ho scelto di fare tappa a Lappeeranta, costeggiando così un bel tratto del confine russo.
Come europei, con i confini non abbiamo più molta familiarità, dopo il trattato di Schengen. Eppure, fino a non molto tempo fa non era così: quando da bambino andavo in montagna a Bardonecchia, d’estate, per andare a fare i picnic o le escursioni in Valle Stretta bisognava mostrare i documenti alla guarnigione di confine francese (oggi la guarnigione non c’è più e il confine esiste solo se vieni dall’Africa e cerchi di andare in Francia). Per arrivare qui in aereo ho mostrato la carta di identità solo all’imbarco – l’ultima volta che sono stato allo stadio credo di aver dovuto passare tre controlli di identità. 

Ora, invece, il confine tra Finlandia e Russia è tornato a essere un confine vecchio stile, una linea che separa due mondi con interessi esplicitamente contrapposti, tanto più con la Finlandia in procinto di entrare nella NATO.

Dall’autostrada, ovviamente, il confine non si vede. Ci sono un paio di strade che portano in Russia, vedo i cartelli che danno la distanza da San Pietroburgo, ma le foreste che fiancheggiano la strada impediscono di vedere qualsiasi cosa. So solo che di là, da qualche parte alla mia destra, c’è la Russia, che è tornata a essere, come nel pieno del Novecento, un mondo alieno e vagamento minaccioso.

Lappeeranta dista solo 30 km dal confine. È l’undicesima città finlandese per dimensioni ed è più vicina a San Pietroburgo che a Helsinki. Secondo la vecchia Lonely Planet che mi sono portato dietro, era una meta amata dai russi dei dintorni per lo shopping. Ma i suoi rapporti con il vicino sono più profondi e radicati. Come molte zone di confine, anche questa ha cambiato appartenenza diverse volte: nacque svedese, diventò russa nel 1741 e poi finlandese nel 1917 con tutto il Granducato di Finlandia (che ottenne l’indipendenza dal neonato governo bolscevico). Nel 1856 era stato aperto un canale che la collegava con la città di Vyborg, tornata russa nel 1940. Dal 1963 la Finlandia ha una concessione per usare la parte russa del canale, rinnovata nel 2012 per cinquant’anni – ma chissà se le condizioni resteranno le stesse.
Nella città è ambientata la serie poliziesca Bordertown, sfruttando le possibilità offerte dalla sua natura di confine, e la sua principale attrazione turistica è quello che resta della fortezza che ben poco poté fare nel 1741 quando i russi strapparono la città alla Svezia. Nell’area si trova un’elegante chiesetta di rito russo ortodosso, con bei dipinti settecenteschi, e una sala da te in stile russo, nella quale sono stato giusto il tempo per ordinare del cibo ma che già mi ha fatto venire voglia di rivolgermi alla cassiera chiamandola per nome e patronimico, come in un romanzo di Tolstoj.

Dopo pranzo, accompagnato da un bel sole che fa sembrare probabilmente più belle di quelle che sono le strade ai piedi della fortezza, arrivo fino alla settecentesca chiesa in legno di Santa Maria, unico esempio sopravvissuto della pianta a doppia croce, un tempo tipico della Finlandia. All’interno, conserva dei dipinti di gusto molto naïf – o semplicemente molto grezzi, specie rispetto a quelli della chiesa ortodossa – ed è sobriamente colorata di bianco e celeste. Il campanile, invece, è staccato dalla chiesa e sovrasta un piccolo cimitero che si è venuto a trovare nel mezzo della città, come un parchetto. Qui, accanto alle tombe ottocentesche, ci sono le sepolture dei soldati morti nel 1939-1940 (la guerra d’inverno) e nel 1941-1944 (la guerra “di continuazione” a fianco dei nazisti contro i sovietici), semplici lapidi quadrate nel terreno, con fiori freschi. Ma ci sono anche un monumento ai morti rimasti nelle terre diventate russe nel 1940, agli orfani di guerra di quegli anni e la scultura di un cigno ad ali spiegate nel punto dove si trovava un rifugio antiaereo colpito da una bomba nel febbraio del 1940.
Insomma, l’area attorno alla chiesa è come una grossa ferita aperta e sanguinante che parla del rapporto di quest’area con il proprio passato, recente e non.

Però non mi bastava. Non volevo arrivare fino a un varco di confine, ma volevo sentirlo da vicino, il confine. 
C’era un punto in cui l’autostrada ci sarebbe passata molto vicino, ma non abbastanza. Mi fermo a prendere un caffè, il terzo della giornata (i finlandesi sono tra i maggiori consumatori al mondo di caffè), studio un po’ su Google Maps e noto che c’è una strada secondaria che arriva a un passo dalla Russia. 
La deviazione mi porta in una strada sterrata che sfila accanto a case di campagna rosse e nere nascoste tra gli alberi o circondate da campi. Quando non manca molto al punto più vicino, sulla destra vedo un cartello, a bordo strada. Avvisa che è un’area di confine e che non si può proseguire oltre senza autorizzazione. Ci siamo. Il confine. Mi fermo, lo fotografo. 
Proseguo ancora, c’è una diramazione a sinistra, ma se proseguo dritto arriverò al punto più vicino. All’incrocio c’è una casetta, mi ricorda quella della guarnigione francese di Valle Stretta. Fermo la macchina, in mezzo alla stradina, tanto non c’è nessuno. Scendo con il telefono, c’è un cartello con un disegno della zona di confine, vorrei fotografarlo. 
Rumore di motore. In avvicinamento dalla strada che dovrei imboccare.
Sulla strada arriva un furgone dell’esercito. Batto in ritirata, salto in macchina, metto in moto, sgombero la strada e rinuncio a proseguire. Cercando di non dare l’impressione di essere in fuga, saluto i soldati sul furgone. Loro mi guardano un po’ perplessi e tirano dritti; probabilmente non sono arrivati perché mi avevano visto arrivare qui (dove non c’è alcun motivo per andare), forse stavano solo facendo il normale giro di controllo. Ma io ormai ero già entrato in modalità “confine” e avevo pensato che farsi trovare a fare foto accanto a un confine, uno vero, non fosse una buona idea.
Non ho il fisico, per il confine.

Savonlinna, invece, è nata attorno a un castello costruito per proteggere il confine orientale del regno di Svezia nel 1475. La fortezza, dedicata a sant’Olaf, da fuori sembra molto bella, arroccata sul lago, ma di più non so dire perché quando sono arrivato alle 17.30 era già chiusa e riapre alle 11, quando sarò già lontano da qui – gli orari di lavoro finlandesi sono una delle sette meraviglie del mondo moderno.
Però anche qui c’è un’altra traccia delle complicate relazioni più recenti tra Finlandia e Russia: nei pressi della cattedrale si erge la statua, enorme, di un uomo nudo che regge un elmetto militare (un albero strategicamente collocato evita a chi esce dalla chiesa la visione delle sue gigantesche chiappe di pietra). È circondato dalle lapidi di persone morte durante la guerra civile del 1918, nella quale si scontrarono i “rossi”, che dopo l’indipendenza volevano una Finlandia vicina alla neonata Unione Sovietica, e i “bianchi”, il cui referente politico era invece la Germania. Il conflitto fece 36.000 morti, lasciò 15.000 orfani (“what’s so civil about war, anyway?” diceva quello) e si concluse con la vittoria dei bianchi. La sua natura di proxy war tra le due nazioni che alla fine del 1918 erano alle prese – per motivi differenti – con una difficile ricostruzione permise alla Finlandia di prendere una propria strada, diventando per esempio una repubblica invece che una monarchia come progettato dalla Germania.
Se si pensa alla storia della Finlandia indipendente e alla dottrina della storia russa espressa da Putin a febbraio, si capisce facilmente perché dopo decenni di equilibrismo con l’URSS prima e neutralità poi il paese abbia chiesto di entrare nella NATO: se è stato un errore dei bolscevichi l’Ucraina, figuriamoci la Finlandia, uno stato vassallo della Russia zarista a cui venne frettolosamente concessa l’indipendenza subito dopo la Rivoluzione (e che per ben due volte nel corso della Seconda guerra mondiale ha combattuto contro l’URSS).

Chiudo la giornata prima di tornare in albergo passando davanti a un bar in riva al lago. Un cartello all’esterno, a due passi dalla fortezza costruita cinque secoli fa per scoraggiare i re russi dall’accampare pretese su queste terre, mostra un cavaliere in armatura medievale, disegnato con uno stile anni ’50, che regge un boccale spumeggiante di birra. Sul petto ha una stella a quattro punte, con i bracci bianchi e blu. Accanto, in uno scudo merlato è scritto a caratteri gotici “Olaf”. È una pubblicità della “famosa birra OTAN”. In piccolo, sopra la birra, si legge in inglese “un sapore di sicurezza con un sentore di libertà”.

Giorno 3

Da Savonlinna a Kuopio

Poco dopo aver fatto colazione con sei chili di salmone nella grande sala di un albergo anni Trenta, dal soffitto altissimo, la tappezzeria a righe, i lampadari di cristallo e in generale quell’aria che ti fa temere che da un istante all’altro arrivi Poirot per annunciare che il barone è stato trovato assassinato nella sua stanza e siamo tutti sospettati, mi accorgo che la Russia me la sono portata in tasca dal primo giorno.
Nel portafoglio ho infatti una moneta da 10 rubli, che per peso e dimensioni è simile a quelle da 1 euro (ma è fatta di un solo metallo). Come ci è finita? La prima sera, di ritorno in albergo, sono stato al supermercato a comprarmi una birra e patatine per il dopocena e ho pagato in contanti. Doveva essere nel resto che mi ha dato la cassiera. Lo sapeva di avere quella moneta truffaldina in cassa? E me l’ha rifilata di proposito? L’ipotesi un po’ mi ferisce, ma non è campata per aria.

In fondo, sono lo straniero, qui.
C’è quel dittico che gira molto in certi ambienti di internet, secondo cui il fascismo si cura leggendo e il razzismo si cura viaggiando. Che è una cazzata, anche se suona bene: tutti conosciamo fascisti che leggono e viaggiatori razzisti.
Però, è vero che viaggiare può darti la sensibilità di cosa voglia dire essere straniero, trovarsi in un mondo di cui non sai decifrare i codici e passi per cretino. Non è solo la questione della lingua: io so parlare un inglese tutto sommato comprensibile, ma se entro in un locale in America o in Inghilterra non so precisamente come comportarmi, il modo in cui ci si rivolge a chi sta alla porta, come si ordina. Da stranieri siamo tutti un po’ goffi, un po’ spaesati – succede persino all’interno dell’Italia, quando mi rendo conto che a Genova ordino la focaccia con molta più naturalezza di quella con cui, dopo due anni, do indicazioni a chi mi serve la pizza al taglio a Roma. E forse, viaggiare può aiutare non a combattere il razzismo quanto la xenofobia, a capire quanto debba sentirsi fuor d’acqua chi non è a casa sua e magari deve reinventarsi una vita in età adulta.
Oppure, invece, te ne sbatti e gli rifili quella moneta che sembra 1 euro ma vale 16 centesimi e vaffanculo, chiusura di cassa salvata (senza rancore, se è andata così mi ha dato qualcosa di cui scrivere e un bel souvenir di questo viaggio).

A tutte queste cose penso mentre mi muovo goffamente nel buffet self-service della caffetteria del monastero ortodosso di Valamo.
Il monastero ha una storia che, di nuovo, si intreccia con quella russa: Valamo, infatti, è il nome di un’isola nel lago Ladoga, che si trova oggi nella Carelia russa, e dove il monastero fu fondato nel 1717 (ristabilendo una presenza monastica andata perduta da un secolo ma che secondo alcuni risaliva al X secolo). All’epoca il monastero faceva parte del regno di Finlandia e rimase anche nei confini della Finlandia indipendente nel 1918. Nel 1939, però, all’avanzare delle truppe sovietiche verso il lago i monaci fuggirono verso ovest, portando con loro icone, libri e tutto quello che poteva servire per rifondare altrove il monastero. La scelta del luogo cadde su Heinävesi, un’amena località sulle rive di un lago, ben lontano dai confini, e dove erano state ritrovate le icone dei santi Ermanno e Sergio di Valaam, i supposti fondatori del monastero originale. Qui arrivarono poi i transfughi di un altro paio di monasteri, rendendo quello di Valamo l’unico monastero maschile della chiesa ortodossa finlandese (poco distante c’è quello femminile di Lintula).

È una dinamica che anticipa quella dei monasteri buddisti tibetani, che dopo la conquista cinese sono stati spesso rifondati in India o in Nepal, dando vita a coppie di monasteri con lo stesso nome in due luoghi diversi (e buona fortuna a decidere quale sia quello “vero”). Anche il monastero di Valamo “originale” esiste ancora, fisicamente e, dal 1989, dopo essere stato un avamposto dell’Armata Rossa, di nuovo come luogo di culto e sede di monaci. Un grande sponsor della sua rinascita era stato il patriarca Alessio II, il primo patriarca della chiesa ortodossa russa post-comunista, che aveva frequentato il monastero da bambino – e che nel 2000 canonizzò i Romanoff, una tappa molto significativa nel revival imperiale/zarista della Russia di Putin, così come molto pesante è il ruolo della chiesa ortodossa russa nella definizione dell’identità nazionale.
Devo dire che una certa aria tibetana si respira già all’ingresso del recinto del monastero, un cancello sormontato da una cupola “a cipolla” dorata. Il monastero è un insieme di edifici sparsi su un’area abbastanza ampia in riva al lago, che comprende anche due strutture ricettive e, appunto, il ristorante.
La chiesa nuova risale al 1977. È un edificio semplice ed elegante, dalle pareti bianche che all’interno sono ricoperte di icone e immagini di santi. La bellezza dell’arte ortodossa è che ha raffinato le tecniche, ma non ha mai modificato il linguaggio dai tempi di Bisanzio; i suoi santi sono immobili, ieratici, sospesi fuori dai luoghi e dal tempo. Ti fissano, severi, mentre ti domandi chi siano, perché il cirillico non lo leggi e la loro iconografia per chi è cresciuto nel mondo cattolico è da un lato riconoscibile ma dall’altro aliena, come quella (appunto) buddista.
È quasi commovente la chiesa più antica, quella costruita ottant’anni fa dai primi monaci: un capanno in legno con unico stanzone, basso e lungo. Qui, l’iconostasi, la parete che separa l’altare dallo spazio per i fedeli, sembra davvero, con la ricchezza delle icone che la decorano, nascondere un mondo segreto. In quella chiesa costruita in povertà, oltre la soglia si ripeteva il miracolo della transuntazione, senza bisogno di architetture raffinate; un’esperienza, che immagino, doveva riportare alla mente gli albori del cristianesimo.
Valamo oggi è una realtà consolidata, che si mantiene con le offerte e con le sue attività economiche, ma non è difficile immaginare quanti sacrifici siano stati necessari per renderla tale e che impresa inebriante, nella sua incertezza, debba essere stato per dei monaci rifondare un monastero, ridare vita a una comunità ripartendo da zero.
Un bel frammento di storia, di nuovo.

In mattinata ero stato a visitare un’altra chiesa, con una storia del tutto diversa, un monumento invece alle ambizioni di una comunità religiosa. Si trova a Kerimaki, poco fuori Savonlinna ed è la chiesa in legno più grande del mondo, con i suoi 37 metri di altezza. Può ospitare 5000 persone, più o meno la metà della popolazione dell’intera regione di Kerimaki all’epoca della sua costruzione, tra il 1844 e il 1847. Purtroppo, l’ottimismo dei costruttori non fece i conti con la realtà: la chiesa non solo non si riempì mai, ma era anche impossibile da riscaldare in inverno, nonostante otto stufe. Così, fu necessario costruire sul retro una seconda chiesetta, da 300 posti, per i mesi invernali.
Dentro, la chiesa è semplicissima, come molte chiese luterane. Sui pilastri di legno sono dipinte marezzature a imitazione del marmo e l’unica concessione figurativa è una pala d’altare. La luce è bellissima, l’odore di resina ancora fortissimo, ma la chiesa non sembra un luogo religioso – almeno non nel senso che do io alla religione. È un luogo per radunare una comunità, pratico, essenziale. Razionale.
Quello che le manca è il senso del mistero, del mondo oltre il mondo che invece la semplice chiesa vecchi degli ortodossi, con i suoi spazi proibiti, il suo Cristo abbigliato come un imperatore bizantino su uno sfondo d’oro, riusciva a evocare pur dentro a uno stanzone di legno.
È buffo pensare che i sogni di grandezza di chi volle nell’Ottocento una chiesa così imponente in un paesino così piccolo si siano trasformati in una rogna per i loro discendenti, che devono trovare i fondi per mantenere un edificio che richiede molte attenzioni e che si è riempito, per un concerto di beneficenza, per l’ultima volta 50 anni fa.

Per finire, stasera stavo cenando in un ristorante sul porto di Kuopio, quando in lontananza si sono sentiti sette o otto colpi fortissimi, tipo tuoni – ma non erano tuoni. C’è stato un qualche scambio di sguardi perplessi tra noi commensali, ma purtroppo, o per fortuna, nessuno ha sentito la battuta che mi è venuta spontanea: “Uh? The russians?

Giorno 5

Da Kuopio a Tampere

Il giorno 4 è stato un altro giorno a Kuopio nel quale mi sono riposato – e ho lasciato riposare la macchina – in vista della giornata più impegnativa, quella a Tampere.
Tra le due città ci sono circa 300 km, durante i quali mi godo la mia ormai completa padronanza dei sistemi di bordo, da Apple Car Play che ho finalmente capito come attivare il cruise control adattivo che regola la mia velocità in base ai limiti che imposto io e alla distanza dalla macchina che mi precede. In pratica, sono diventato il passeggero della mia stessa macchina (ed è bellissimo).

A Tampere c’è una tappa importante di quello che ho deciso essere diventato il tema di questo viaggio: il museo di Lenin, nell’edificio in cui il “piccolo padre” e Stalin si sono incontrati per la prima volta nel 1905. Rinnovato alcuni anni fa, il museo non è più un museo dedicato a Lenin ma ospita un percorso legato al rapporto tra Finlandia e Unione Sovietica prima e Russia poi. Nell’impeto rinnovatore – che deve essere coinciso con il passaggio della gestione dalla società dell’amicizia finnico-sovietica al sindacato dei lavoratori che è proprietario del palazzo – si è forse un po’ perso il punto iniziale, ovvero, perché c’è un museo intitolato a Lenin a Tampere e proprio in quel palazzo. Si capisce che alcune parti del vecchio museo sono rimaste, ma sono rimaste vagamente decontestualizzate. C’è poi da stendere un pesante velo pietoso sulla photo opportunity con Lenin sul sidecar e Stalin accanto, due statue di cera vagamente inquietanti; per l’occasione si possono indossare una cuffia da pilota e una giacca di pelle che ricordano l’abito di scena di John Belushi in 1941: Attacco a Hollywood.
“Che cosa ci faceva Lenin a Tampere nel 1905” comunque si spiega abbastanza in fretta: era lì che si era tenuto, nel dicembre del 1905, il convegno del partito operaio socialdemocratico russo. Un convegno di cui non si sa molto perché fu tenuto nella massima segretezza, visto che dall’inizio dell’anno la Russia (di cui la Finlandia era parte, come Granducato) era scossa da moti rivoluzionari che lo zar reprimeva con la massima solerzia.
Ma perché proprio Tampere? Perché con la fondazione nel 1820 dell’industria tessile Finlayson (un marchio tutt’ora esistente) la città era diventata un polo industriale di prim’ordine. Nel 1900 contava 36.000 abitanti, 3.000 dei quali lavoravano per la Finlayson. Un pubblico molto fertile per le idee socialiste, come si può immaginare – tanto che Tampere fu poi durante la guerra civile una roccaforte dei “rossi”.
La Finlayson nel 1836 era stata ceduta a un uomo d’affari russo, Carl Nottbeck e al suo socio Georg Rauch. Nottbeck non andò mai, pare, mai a Tampere, ma mandò suo figlio Wilhelm a imparare come si dirigeva uno stabilimento. Wilhelm imparò in fretta e in breve fece diventare la Finlayson una città dentro alla città: all’interno delle mura della fabbrica gli operai non solo lavoravano, ma vivevano. Nel 1879 fece addirittura costruire una chiesa, che aveva il suo prete residente.
Se vi sembra una cosa lontana nel tempo, giusto la settimana prima che io partissi mio fratello è stato in Uganda per realizzare delle foto per una ONG e ha visitato uno zuccherificio gestito allo stesso modo – ma anche il tablet su cui sto scrivendo queste note è stato probabilmente assemblato in una fabbrica cinese retta con modalità di vita simili (e lo stesso qualsiasi device su cui mi state leggendo).

A ogni modo, uno dei figli di Wilhelm, Peter, volle farsi costruire un palazzo sulla collina che sovrasta le fabbriche, al quale diede il nome di Milavida (una parola inesistente di cui nessuno ha mai saputo ricostruire il significato). La casa fu completata nel 1898, ma Peter non ci visse mai: lui e la moglie morirono entrambi quello stesso anno, lasciando orfani quattro figli, di cui due neonati perché lei morì di parto. I bambini abitarono brevemente nelle sale del secondo piano affidati a tutori, prima che l’edificio fosse venduto alla città.


Oggi, mentre al pianterreno si trovano un ristorante e un caffè, il piano nobile è un piccolo museo che ricostruisce quello che doveva essere l’arredamento originale, con tanto di statue di cera – vagamente inquietanti – di tre generazioni di Nottbeck: i nonni, i genitori e gli sfortunati figli. È una visita breve, ma sufficiente a preparare alla successiva tappa, il museo del lavoro all’interno dell’edificio del cotonificio.

Qui, sono stati ricostruiti vari ambienti lavorativi “di una volta” e c’è una mostra permanente sulla storia dell’industria in Finlandia, dalla lana filata alla Nokia – non c’è il 3310, ma davanti alla vetrina risuona in continuazione il “Nokia tone”. Rifà capolino lo spettro della Russia, perché nel dopoguerra, fino agli anni sessanta, l’industria finlandese ha lavorato per ripagare i danni di guerra all’URSS e anche dopo il mondo sovietico è stato un ottimo cliente per la Finlandia. 

Ma il vero pezzo forte è il motore a vapore che era il cuore pulsante dell’intera filanda, una ruota di acciaio di 8 metri di diametro mossa da due pistoni da 1650 cavalli (ai quali erano stati dati i nomi delle mogli dei due proprietari). Davanti a quel macchinario, ora immobile ma che non è difficile immaginare muoversi in un infernale clangore di metallo e sbuffi di vapore, puzzolente di grasso animale e sudore, il pensiero della ricca tavola apparecchiata di casa Nottbeck, appena qualche centinaio di metri più in su, è un contrasto stridente. Ed è facile la triangolazione tra i tre musei: quello di Lenin, quello di casa Nottbeck e quello del motore a vapore. Gli ultimi due spiegano l’esistenza del terzo. Spiegano quanto dimentichiamo che cosa fosse il lavoro quando nacquero e si diffusero le idee socialiste, lo shock che deve essere stata l’industrializzazione, che metteva l’uomo al confronto con macchine enormi e terribili che permettevano di moltiplicare a livelli inimmaginabili la ricchezza di chi poteva disporre del capitale per installarle, allontanando i prodotti da chi ci lavorava. Che aveva, magari, in cambio, il paternalismo e il controllo di una vita all’interno dei recinti della fabbrica. 
Da qui a pensare al macchinista ferroviere di Guccini che mette a confronto i velluti e gli ori del treno dei signori al magro giorno della sua gente attorno non ci vuole molto. 

Più amenamente, Tampere oggi è una città che ha recuperato il suo patrimonio industriale, dopo la dismissione nel 1995, in un modo spettacolare. Gli spazi della Finlayson sono diventati ristoranti, centri commerciali, musei e caratterizzano la zona della città in cui si trovano, dialogano con il verde e il fiume. Dopo quattro giorni di paesini, Tampere mi sembra probabilmente ancora più vibrante, ma il suo parchetto dove convivono sfattoni, skater, gente che ascolta black metal (a un volume garbatissimo per non disturbare gli altri), gruppi di ragazzini che chiacchierano, senza che nessuno sembri troppo infastidito dagli altri, è un posto dove avrei passato l’intera serata semplicemente a guardare la gente.

Domani, invece, mi tocca l’ultima tappa in macchina, fino all’aeroporto di Helskinki per restituirla e poi trascorrere due mezze giornate, forse meno, nella capitale. 

Conclusioni

Ho scritto i paragrafi precedenti in diretta, alla fine di ogni giornata.
Ora, scrivo da Roma, due giorni dopo essere tornato.
Le due mezze giornate a Helsinki sono state un lungo respiro prima di tornare a casa. Ho lasciato la macchina in aeroporto dopo aver controllato almeno tre volte di non averci lasciato niente dentro, preso il treno per il centro città, sono arrivato in un albergo un po’ triste, la cui natura era resa ancora più evidente dal mio essere da solo.
Poi sono uscito e sono andato verso la piazza del mercato, al porto.
Dopo un hot dog di renna (!) e una birra da cinque euro e 2,5 gradi che aveva il sapore di quando per sbaglio versi l’acqua nel bicchiere dove c’era ancora un dito di birra, sono salito sul traghetto e me ne sono andato a Suomenlinna. Suomenlinna è un piccolo arcipepago di otto isole, sei delle quali collegate da ponti e trasformate nel 1748 in una fortezza, il cui scopo era quello di proteggere i possedimenti svedesi da… i russi. Ovviamente. Non servì però a molto perché nel 1808 la fortezza si arrese all’esercito dello zar quando tutta la Finlandia entrò a far parte del regno russo.
Dal 1973 Suomenlinna non ha quasi più funzione militare ed è sostanzialmente un grande parco sul mare, con musei, ristoranti e anche case private. Nella loro breve estate, come già avevo visto nel 2015, gli abitanti di Helsinki vanno a godersi il sole e il mare sui suoi prati e i suoi scogli. Quest’anno, sarà per il gran caldo, l’erba secca (che non ricordavo sette anni fa) dà al tutto un’aria particolarmente mediterranea e a un certo punto, sdraiato sugli scogli piatti a prendere un po’ di sole, mi sono trovato a chiedermi se non fossi invece a Genova, sulla passeggiata di Nervi – dove però avrei potuto comprare una birra a prezzi ben più umani.
Per la prima volta da giorni sento parlare italiano, da due coppie, in due momenti diversi: in entrambi i casi c’è del nervosismo (perché non si trovano i prezzi segnati su dei souvenir, perché non si capisce quando bisogna mettere la carta di credito nella macchinetta dei biglietti del traghetto). È curioso, perché all’estero mi sembra sempre che siamo gli unici un po’ stressati.
Ritorno a Helsinki alle 17:30, quando la giornata lavorativa di gran parte dei negozi, di sabato, sta volgendo al termine. Tolti i supermercati e alcune catene internazionali, per lo più i negozi chiudono alle 18. Dopo aver aperto tra le 9 e le 10. E quelli che sono aperti la domenica è raro che aprano prima delle 12 – anche grandi centri commerciali in centro città.
È una cosa spiazzante, ma in Finlandia la settimana lavorativa media è di 36,3 ore. È facile immaginare che orari del genere sembrino meno strani nel lunghissimo inverno nordico, quando alle 18 buio e freddo non invogliano certo ad andare a fare compere. Però è altrettanto facile immaginare come permettano a chi lavora nel commercio di avere una vita un filo più normale, più tempo da dedicare a famiglia, amici, interessi. Preservando al tempo stesso la possibilità di fare acquisti essenziali al supermercato fino a tardi (in media, chiudono alle 22).
Certo, poi camminare la domenica mattina in un centro quasi deserto, se non per altri turisti perplessi, è curioso. Come è curioso scoprire che una caffetteria da quel giorno (14 agosto) è passata all’orario “invernale” e la domenica è aperta 12-17.
Però, se per il quinto anno consecutivo la Finlandia sembra essere il “paese più felice del mondo” secondo il World Happiness Report (posizione dell’Italia nel 2022: 31°, con un punteggio misero nella categoria “libertà di fare scelte sulla propria vita”), forse anche questo incide un po’.

Ma è meglio chiuderla qui, perché mettersi a fare l’elogio di paesi in cui si è stati sei giorni da turista è sempre avventurarsi su un terreno scivoloso.

Grazie per la pazienza, alla prossima.

ps: a parziale deroga di quanto scritto prima, sul giudicare altri paesi, cinque giorni di guida in Finlandia mi hanno aiutato a mettere fuoco quanto sia tossico il modo di guidare italiano, per cui se sei su una statale devi stare 5/10 km/h sopra al limite e anche così avrai comunque lo stronzo che ti si attacca al culo e ti fa i fari prima di superarti rischiando il frontale con chi arriva sulla corsia opposta, perché i limiti di velocità sono un’offesa alla sua capacità di guida. Lì, un po’ probabilmente per la diffusione di cambio automatico e cruise control, un po’ per la grande presenza di autovelox, forse anche un po’ per rilassatezza generale, ho fatto un migliaio di chilometri serenamente, senza incontrare fenomeni (nonostante per altro i limiti di velocità abbastanza bassi; ma magari è anche sapere che il rischio di schiantarsi su una renna c’è sempre, che aiuta)

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I migranti di Ganden

Monastero di Ganden, agosto 2019

Nell’ultima canzone scritta e cantata da Franco Battiato prima che la sua mente andasse altrove, Torneremo Ancora (scritta con Juri Camisasca) c’è questa strofa:

Lo sai
Che il sogno è realtà
E un mondo inviolato
Ci aspetta da sempre
I migranti di Ganden
In corpi di luce
Su pianeti invisibili

A Ganden ci sono stato, nel 2019. È uno dei tre maggiori monasteri buddisti della valle di Lhasa, Tibet, con Drepung e Sera.
Come ho raccontato, ci ho assistito alla cerimonia di disvelamento di un tankgha (un gigantesco arazzo, per farla breve), che era un incredibile misto di sublime e mondano, di religioso e politico, di solennità e involontaria comicità.
Ma il monastero di Ganden che ho visitato io è un fantasma, un simulacro, perché quello originale fu raso al suolo nel 1959 dall’esercito cinese, e quello che venne ricostruito distrutto ancora durante la Rivoluzione Culturale. Solo a partire dagli anni 80 è stato ricostruito nelle forme e nel luogo originali. In India, intanto, gli esuli tibetani lo avevano ricostituito a partire dal 1966.
Ma Ganden è anche il nome tibetano del Tushita, uno dei sei cieli degli dèi del desiderio della cosmologia buddista, quello in cui risiede il futuro Buddha, Maitreya, prima di manifestarsi sulla terra.
Sì, è tutto molto complicato (e cozza un po’ con l’idea di molti occidentali che il buddismo sia più una filosofia che una religione).

Quindi il punto è: chi sono i migranti di Ganden? I monaci che scapparono dal Tibet – in questo davvero migranti – per rifondare il loro monastero in India? O anime, spiriti che migrano da un livello di esistenza a un altro?
O tutti questi insieme, in una corrispondenza tra il fisico e lo spirituale, le contingenze della vita e i cicli dell’universo?
E quanto si può essere densi con due sole parole e una congiunzione?

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Quelli che davvero vogliono che non si dica più niente

“Elvis oggi non potrebbe più cantare Love Me Tender perché il sesso con i canotti di salvataggio è considerato sbagliato”

Ormai la stampa italiana, purtroppo non più solo quella di destra, assomiglia sempre più a quei tabloid americani con titoli tipo ELVIS È VIVO, AVVISTATO AL CINEMA INSIEME AL BIGFOOT – per dire, oggi 5 maggio la cosa di Biancaneve sta in prima pagina sul Corriere grazie all’ineffabile Gramellini. Ci assomiglia anche quando non parla degli ultimi misfatti della dittatura del politicamente corretto, ma come si sente odore di CANCEL CULTURE si scatenano i mastini.
Ho letto il famigerato articolo all’origine della bugia secondo la quale IL POLITICAMENTE CORRETTO VUOLE CAMBIARE IL FINALE DI BIANCANEVE PERCHÉ IL PRINCIPE LA BACIA SENZA CONSENSO.
Ovviamente, la faccenda è diversa da come è stata raccontata (fingiamo tutti stupore insieme), allo stesso modo in cui lo erano altri incredibili casi tipo A OXFORD CANCELLATO DAI PROGRAMMI DI STORIA DELLA MUSICA MOZART PER FARE SPAZIO A LIL WAYNE E 50 CENTS.

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Due parole su quella cosa di cui abbiamo parlato tutti

C’è una cosa che Fedez ha sbagliato la sera del Primo Maggio, sul palco dell’Auditorium di Roma, ed è stato il tematizzare subito il suo intervento nel frame della “censura”.
Annunciando che era stato dichiarato inopportuno dalla vicedirettrice di Rai3 – e poi subito dopo pubblicando come video parte della telefonata con lei e l’organizzatore del concerto, si è innescato un meccanismo che ha distolto l’attenzione dal contenuto dell’intervento (che era adamantino) e lo ha portato su un territorio molto più scivoloso e in cui è più facile mandarla in vacca.

Infatti, c’è ben poco da dire sulle espressioni e dichiarazioni degli esponenti leghisti citate (e su molte altre, non solo da parte della Lega) che spesso passano come “gaffe”, “provocazioni”, “attacchi”.
È invece molto più complicati districarsi nell’intreccio di ragioni che stanno dietro al rapporto tra Rai e partiti, e alla particolare natura del Concertone (è una trasmissione Rai o un evento che la Rai riprende e manda in onda?).
E, infatti, in questa confusione, i destinatari dell’attacco, sguazzano felici, anche se va detto che Salvini ci ha messo un po’ a capire che era quella la chiave per uscirne e ridurre tutto a un “problema di censura interno alla sinistra” (la prima reazione infatti era stata “avete visto che aveva un cappellino della nike? E comunque io sono un papà”) (ma lo sapevate che Salvini ha dei figli? Pazzesco, non lo aveva mai detto, è una cosa su cui è molto riservato).
Va detto che già dal pomeriggio lo stesso Salvini aveva messo in guardia dai “comizi de sinistra” (detto così, come tutti quelli che come arrivano a Roma devono romanescheggiare perché è più simpatico), segno che era stato evidentemente già preallertato, però appunto lasciarsi imbrigliare nella definizione della situazione imposta da altri è stato un errore.

Infatti, delle dichiarazioni di quello che metterebbe nel forno l’eventuale figlio gay o di quella convinta che ci siano le punture che fanno diventare gay i bambini, già la sera di domenica era difficile sentir parlare. Non mi risulta che nessun giornale abbia provato a contattare gli interessati per sentire come giustificavano quelle parole; Salvini si è limitato a dire un “parole orribili” di ufficio dalla D’Urso, mentre invitava Fedez a bere un caffè e ricordava che comunque lui parla da papà e non vuole genitore 1 e genitore 2.

Di conseguenza, sancito che all’opinione pubblica poco importa di avere al governo un partito i cui esponenti hanno quelle idee lì sull’omosessualità, ci si è lanciati felici nell’ennesimo dibattito sulla Rai e i partiti, una palude in cui siamo stati già tutti mille volte e dalla quale ogni volta usciamo coperti di fango sempre nuovo.

In tutto questo, trovo ammirevole che Fedez, che potrebbe serenamente vivere di facezie e unboxing di pinzette per francobolli (o qualunque cosa faccia nelle sue stories su instagram, non lo so perché per motivi anagrafici non seguo moltissimo), si prenda la briga di infilarsi in un ginepraio del genere per sostenere un decreto legge che cerca di ridurre almeno un po’ la barbarie in cui viviamo.
Ma nonostante quella che credo sia una sostanziale buona fede, l’attivismo purtroppo non è qualcosa che si possa improvvisare. Per cui, quella stessa velocità di reazione che sui social funziona bene e la stessa assenza di filtri sono state controproducenti all’interno del contesto più ampio della politica e della comunicazione.

Per cui l’attenzione si è spostata troppo rapidamente da un tema nel quale è difficile non prendere una posizione netta – perché le affermazioni citate sono indegne – a uno in cui, alla fine, hanno ragione tutti e nessuno.
Che si somma alla prevedibile critica a Fedez, a quello che non ha detto, a quello che ha detto in passato, a chi è, a chi è stato e a chi sarà.

Insomma, per farla breve, è un caso da manuale in cui essere abili a sfruttare un canale di comunicazione non vuol dire, automaticamente, riuscire a fare lo stesso con gli altri, perché sono campionati diversi, forse sport diversi.
Forse, sarebbe bastata un po’ di foga in meno e un pizzico di strategia in più per fare uscire meglio il messaggio che si voleva lanciare.

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Beforeigners

Una notte, preceduti da misteriosi lampi verdi, uomini e donne provenienti da altri epoche appaiono nei mari di tutto il mondo.
Vent’anni dopo, la convivenza tra gli umani del ventunesimo secolo e i “naufraghi temporali” provenienti da età della pietra, medioevo e ottocento è la realtà quotidiana, non facile.
È questo lo spunto di partenza di Beforeigners, una serie norvegese prodotta da HBO e visibile dal 20 gennaio su RaiPlay, che è una delle cose più intriganti che abbia visto da parecchio tempo.
Ambientata a Oslo, mette in scena un classico copione poliziesco: una coppia di poliziotti molto diversi (lui è stato lasciato dalla moglie per un signore dell’ottocento ed è dipendente da un collirio usato per sedare i naufraghi all’arrivo, lei era un Skjaldmær norrena ed è la prima agente transtemporale uscita dall’accademia) si trova a indagare su un caso di omicidio che presto si rivela solo un aspetto di un mistero più ampio e ramificato.
In sei puntate da 45 minuti, Anne Bjørnstad ed Eilif Skodvin, autori della serie, riescono a portare avanti le trame legate ai vari personaggi, chiudere l’indagine, rilanciare per una seconda stagione che promette di spingere più sul pedale della fantascienza ma, soprattutto, costruiscono un mondo credibile senza mai scivolare nello spiegone gratuito.
Il modo in cui uomini preistorici, vichinghi e persone dell’ottocento si sono inseriti nel mondo contemporaneo, a loro volta influenzandolo, è raccontato in modo funzionale alla storia o lasciato intendere dall’ottima sigla (una corsa in macchina attraverso la città che ogni volta mostra scenette differenti di vita quotidiana).

Ovviamente, c’è una componente satirica nei confronti dell’intolleranza verso l’immigrazione, con i gruppi “identitari” che vogliono la Norvegia per i norvegesi e ringhiano ai “naufraghi” di tornarsene nella loro epoca. E fanno sorridere e divertire i momenti legati ai vichinghi, che nel ventunesimo secolo frequentano locali dove si ascolta metal o si tengono serate di poesia nelle quali le composizioni più amate vengono invocate a gran voce dal pubblico come se si fosse a un concerto.

Ma la cosa che più mi ha entusiasmato è che, potenzialmente, questo potrebbe essere un franchise facilmente declinabile e rivendibile in altri paesi. E già successo, per esempio, con Skam, serie norvegese di cui esistono almeno nove adattamenti in diversi paesi (e quella italiana è sorprendentemente bella, tra l’altro), ma Beforeigners potrebbe portare il gioco un passo più avanti e dare vita a un vero proprio universo condiviso, per cui ogni nazione avrebbe la sua declinazione del concetto originale che convive con tutte le altre nello stesso spazio narrativo (già durante la serie di parla di eventi accaduti in Francia e di un movimento neo-luddista nato dai naufraghi temporali inglesi). Un’edizione italiana con guelfi, ghibellini e italiani pre-unitari offrirebbe una miriade di spunti che risuonano con l’attualità, creando il campo per trame criminali e lotte per il potere di ampio spettro (magari, ecco, non ci farei lavorare quelli che hanno scritto Curon solo perché sul tema “gente che esce dall’acqua” hanno già scritto qualcosa).
Però, visto che la serie originale è del 2019 e non si è ancora mosso niente, dubito che se ne farà mai qualcosa. Ma spero di avere torto, perché sarebbe una grande occasione che non è il caso di sprecare (anche eventualmente su altri media: romanzi, fumetti…)

Alfhildr e Urd BFF

Intanto, comunque, il consiglio è quello di dedicare quelle tre orette alla visione di Beforeigners, che merita tantissimo.

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