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I migranti di Ganden

Monastero di Ganden, agosto 2019

Nell’ultima canzone scritta e cantata da Franco Battiato prima che la sua mente andasse altrove, Torneremo Ancora (scritta con Juri Camisasca) c’è questa strofa:

Lo sai
Che il sogno è realtà
E un mondo inviolato
Ci aspetta da sempre
I migranti di Ganden
In corpi di luce
Su pianeti invisibili

A Ganden ci sono stato, nel 2019. È uno dei tre maggiori monasteri buddisti della valle di Lhasa, Tibet, con Drepung e Sera.
Come ho raccontato, ci ho assistito alla cerimonia di disvelamento di un tankgha (un gigantesco arazzo, per farla breve), che era un incredibile misto di sublime e mondano, di religioso e politico, di solennità e involontaria comicità.
Ma il monastero di Ganden che ho visitato io è un fantasma, un simulacro, perché quello originale fu raso al suolo nel 1959 dall’esercito cinese, e quello che venne ricostruito distrutto ancora durante la Rivoluzione Culturale. Solo a partire dagli anni 80 è stato ricostruito nelle forme e nel luogo originali. In India, intanto, gli esuli tibetani lo avevano ricostituito a partire dal 1966.
Ma Ganden è anche il nome tibetano del Tushita, uno dei sei cieli degli dèi del desiderio della cosmologia buddista, quello in cui risiede il futuro Buddha, Maitreya, prima di manifestarsi sulla terra.
Sì, è tutto molto complicato (e cozza un po’ con l’idea di molti occidentali che il buddismo sia più una filosofia che una religione).

Quindi il punto è: chi sono i migranti di Ganden? I monaci che scapparono dal Tibet – in questo davvero migranti – per rifondare il loro monastero in India? O anime, spiriti che migrano da un livello di esistenza a un altro?
O tutti questi insieme, in una corrispondenza tra il fisico e lo spirituale, le contingenze della vita e i cicli dell’universo?
E quanto si può essere densi con due sole parole e una congiunzione?

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Verso Oriente – Lhasa (2.3)

Dopo un’altra colazione al ristorante cinese, partiamo sotto un cielo di piombo da cui ha iniziato a scendere la pioggia, prima sottile poi sempre più forte a mano a mano che ci allontaniamo da Lhasa. La nostra meta è il monastero di Ganden, uno dei tre grandi complessi templari che circondano Lhasa; gli altri sono Drepung (visto il giorno prima) e Sera (che invece non vedremo). 
Il mio umore, dopo una notte praticamente in bianco e una colazione non pienamente soddisfacente, è sotto le scarpe. Non riesco a recuperare un po’ di sonno neanche durante il trasferimento e quando scendiamo dalla macchina sta decisamente piovendo. Non solo: siamo anche parcheggiati parecchio lontani dal tempio, perché pare che mezza Lhasa stamattina sia salita qui sopra.
“Oggi c’è una festa” ci spiega Sangpo.

Intanto, però, mentre ci incamminiamo a piedi sulla strada, lungo la quale è parcheggiata una serie interminabile di auto di gente che è arrivata prima di noi, abbiamo una vista del monastero. Definirlo monastero è riduttivo, perché di fatto è un intero paese che spicca, bianco e rosso, su un versante del colle davanti a noi.
Gruppi di tibetani sono accampati, come per un picnic, incuranti della pioggia, sul declivio che sovrasta la strada; altri si incamminano più in alto per andare a stendere bandiere di preghiera sul crinale. Altre persone ancora hanno montato gazebo lungo la strada e stanno preparando del cibo.

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