Verso Oriente – Lhasa (2.3)

Dopo un’altra colazione al ristorante cinese, partiamo sotto un cielo di piombo da cui ha iniziato a scendere la pioggia, prima sottile poi sempre più forte a mano a mano che ci allontaniamo da Lhasa. La nostra meta è il monastero di Ganden, uno dei tre grandi complessi templari che circondano Lhasa; gli altri sono Drepung (visto il giorno prima) e Sera (che invece non vedremo). 
Il mio umore, dopo una notte praticamente in bianco e una colazione non pienamente soddisfacente, è sotto le scarpe. Non riesco a recuperare un po’ di sonno neanche durante il trasferimento e quando scendiamo dalla macchina sta decisamente piovendo. Non solo: siamo anche parcheggiati parecchio lontani dal tempio, perché pare che mezza Lhasa stamattina sia salita qui sopra.
“Oggi c’è una festa” ci spiega Sangpo.

Intanto, però, mentre ci incamminiamo a piedi sulla strada, lungo la quale è parcheggiata una serie interminabile di auto di gente che è arrivata prima di noi, abbiamo una vista del monastero. Definirlo monastero è riduttivo, perché di fatto è un intero paese che spicca, bianco e rosso, su un versante del colle davanti a noi.
Gruppi di tibetani sono accampati, come per un picnic, incuranti della pioggia, sul declivio che sovrasta la strada; altri si incamminano più in alto per andare a stendere bandiere di preghiera sul crinale. Altre persone ancora hanno montato gazebo lungo la strada e stanno preparando del cibo.

Se certe forme della devozione sono trasversali a tutte le culture, stiamo più o meno addentrandoci dentro all’equivalente locale di una festa patronale. Come diventa ancora più evidente quando raggiungiamo i primi edifici del monastero, che hanno l’aria di essere una tavola calda, al cui esterno si affollano venditori di incenso, bandiere di preghiera, ninnoli, cibo e bevande. Mentre Sangpo si prepara alla giornata (o si riprende dalla serata) con una Red Bull, veniamo avvicinati da mendicanti e persone che chiedono soldi per le spese mediche di amici o parenti. Questi ultimi hanno raccoglitori ad anelli con buste di plastica che contengono fotografie della persona che stanno cercando di aiutare – in un caso la vittima di un incidente stradale, con tanto di immagini del veicolo distrutto – informazioni sull’ospedale e persino un QR code che immagino serva per trasferire soldi tramite il cellulare (il Tibet è territorio cinese e i pagamenti elettronici sono molto più diffusi di quanto ci si aspetti – tanto che ci era stato sconsigliato di portarci banconote da 100 yuan perché difficilmente saremmo riusciti ad avere dei resti, cosa che per fortuna è successa solo in un’occasione).
Ma ci sono anche monaci che recitano preghiere o si esibiscono in canti, con un certo successo. Ovunque ci giriamo, girano soldi.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Quando arriviamo al monastero vero e proprio, c’è una grande folla riunita sul piazzale antistante a una scalinata sormontata da una grande parete rossa e spoglia. Sangpo scambia qualche parola con altri colleghi e finalmente ci svela l’arcano. Per puro caso siamo arrivati a Ganden nel giorno dell’esposizione di un tangkha. Che non è un tipico indumento intimo dei monaci più disinibiti, ma un dipinto sacro buddhista. Nello specifico, un dipinto sacro delle dimensioni della parete che abbiamo davanti. 

Backstage

Lo svantaggio di questa situazione è che, essendo i monaci impegnati nella laboriosa preparazione dell’evento – che sicuramente avrà anche tutta una serie di rituali preliminari – solo alcune delle cappelle del monastero sono aperte. Ma, tutto sommato, importa poco. Il Ganden odierno, dal punto di vista storico, è una ricostruzione moderna del monastero originale (che è stato rifondato in India), che è stato completamente raso al suolo tra il 1951 e gli anni della Rivoluzione Culturale, quando addirittura il corpo mummificato del suo fondatore fu dato alle fiamme per ordine delle autorità (ma il monaco incaricato di gettare nel fuoco la mummia riuscì a salvare la testa e qualche altro pezzetto – immagino grazie a quelle vesti così ampie che devono essere comodissime). Lo stesso, è un po’ un peccato perché ero curioso di vedere una cappella dove è custodita la statua di una divinità, Dorje Shugden, il cui culto era stato giudicato “pericoloso” dal Dalai Lama, ma che i monaci di Ganden avevano difeso (nel buddismo tibetano c’è una gerarchia abbastanza articolata e il Dalai Lama non è l’equivalente del papa per i cattolici; non per tutti i monasteri, almeno). Fino al giorno in cui altri monaci, più fedeli ai precetti del Dalai Lama, non hanno deciso di distruggerla. La statua è stata poi restaurata e ricollocata, anche con il contributo del governo centrale, che ha colto l’occasione per soffiare sul fuoco delle divisione interne ai buddisti tibetani (su Wikipedia c’è una trattazione abbastanza dettagliata della questione, che è – tanto per cambiare – complicata). Ma, comunque, non l’abbiamo vista. 

Una variante: invece dei due cervi che si trovano di solito in questo tipo di immagini, due vitelli

Abbiamo comunque visitato una cappella dedicata a Maitreya (fiuciurbudda, se avete letto la tappa precedente) e fatto un giro per alcuni edifici. Sangpo ha cercato di farci accedere a un tetto, ma l’atmosfera non era delle più serene. Ganden, come dimostra la vicenda della statua contesa, è un centro di dissidio politico e una cerimonia religiosa è un momento critico; di conseguenza, la polizia – con agenti cinesi e tibetani – quella mattina è parecchio attenta. Ci sono anche molti pompieri, la cui presenza è da un lato ovvia, visto che i monasteri sono pieni di legno e stoffe vicini a decine di lampade piene di grasso rovente, ma che sono in realtà ulteriori poliziotti, il cui scopo è anche evitare che i monaci si diano fuoco per protesta.

Terminato il nostro giretto, ci andiamo a posizionare davanti al muro in attesa dell’evento. Nessuno sa quanto ci vorrà. Sangpo ci spiega che un gruppo accompagnato da un suo amico è lì dalle sei di mattina (più o meno quando io sono finalmente riuscito a prendere un po’ sonno).
Per fortuna l’attesa viene premiata in tempi brevi.
La cerimonia è inaugurata da alcuni monaci che si dispongono sotto al muro e “aprono” dei lunghi corni, che hanno un meccanismo simile ai cannocchiali. Quale mistico suono uscirà da questi strumenti dall’aspetto austero?

BROOOOOOO! BROOOOOOOOOOOPPP!

Con grande delusione dell’orientalismo che sempre alberga in noi occidentali, il suono che producono è una serie di barriti strozzati da clacson (li sentite qui), che terminano su una nota comicamente bassa; tanto che quando questi primi monaci ripiegano tutto e se ne vanno sembra quasi che lo stiano facendo perché i corni non funzionavano.
A questo punto, però, la cerimonia entra nel vivo e, baciata dal sole che finalmente fa capolino tra le nuvole, entra da sinistra una processione di monaci, con i cappelli gialli e altri strumenti a fiato e tamburi. Due elementi turbano un po’ il fascino di questo momento: il primo sono gli onnipresenti poliziotti in giubbotto nero che li seguono e a volte affiancano, mentre il secondo sono i monaci più giovani che filmano e scattano foto dalla scalinata. La musica di questa nuova fanfara, ora accompagnata da percussioni e piatti, segue comunque criteri di armonia, melodia e ritmo che non sono esattamente quelli a cui siamo abituati.

Altri monaci portano, arrotolato, il grande tankgha, avvolto in un telo dorato, e lo sistemano ai piedi del muro. Qui, viene agganciato alle corde di due grandi argani in cima alla parete, che iniziano a issarlo.
Anche qui, se vi aspettate un momento di solennità assoluta, perché le millenarie tradizioni e l’austera impassibilità dei monaci… no, sono esseri umani e quando il telo inizia a salire ma è fissato male per cui una parte sta cadendo c’è una grande agitazione e un grande sbracciarsi tra chi sta sopra e chi sta sotto, fino a che il problema non è risolto e il tangkha può essere finalmente issato. Intanto, la musica ha un crescendo, il ritmo aumenta coerentemente come per accompagnare lo sforzo dei motori degli argani (un tempo si faceva tutto a mano, come si vede nel video linkato più sopra), fino a che la parete non è ricoperta dal telo dorato. Che però è solo un sipario, che viene aperto e sollevato per rivelare l’immagine sottostante del Buddha storico, circondato da altre figure.

È il momento clou della cerimonia e ora il cielo si riempie di sciarpe bianche, che vengono lanciate verso il tangkha dalla platea. Alcuni lanci sono incredibilmente potenti e riescono ad arrivare direttamente al tangkha, più spesso si assiste a una staffetta di lanci, con i monaci sulla scala che si occupano dell’ultimo miglio.

Lancio!
I soliti turisti :-P

Quando ci allontaniamo, lo spettacolo del tangkha issato sulla parete, al centro del monastero, sormontato dai tetti d’oro, è da levare il fiato.
Ma non sono meno certi oggetti impensabili per noi occidentali, come il portafazzoletti da macchina che alterna cuoricini e svastiche (oddio, non così impensabili per un numero comunque troppo alto di occidentali, purtroppo). La natura di simbolo religioso e positivo della svastica da queste parti rende l’acquisto di souvenir un’attività a cui prestare un minimo di attenzione, per non trovarti con qualcosa che susciterebbe imbarazzo a casa.
Nel cammino verso l’auto costringiamo Sangpo a fermarsi a mangiare un boccone da un banchetto lungo la strada, che fa noodles di grano o fettuccine di riso, conditi con qualcosa che sembrava mollica di pane e salsine. Le fettuccine di riso, in realtà, sono qualcosa di più simile a quello che qui chiamiamo gnocchi di riso e si ricavano da un grosso disco di pasta, che viene cotto a vapore, poi ripiegato e tagliato. Alla fine, Sangpo si lamenta perché il venditore era cinese e non tibetano, ma soprattutto perché ci ha fatto pagare troppo. Però, a dirla tutta, la vista valeva il prezzo (che per noi era ridicolo, comunque, tipo un euro).

E che gli vuoi dire?

Torniamo in auto per la seconda tappa della giornata: le grotte di Drak Yerpa.
Su questa cosa delle grotte, c’è da sapere che i grandi maestri del buddismo tibetano (e non solo) avevano questa fascinazione per le grotte e, in pratica, non c’è un anfratto roccioso in cui non si siano ritirati a meditare. È un po’ come con le case dove ha dormito Garibaldi, ce n’è una ovunque.
(intermezzo: una delle leggende sulla meditazione buddista nelle grotte migliori è quella di Bodhidarma, il monaco che introdusse il buddismo in Cina. Ritiratosi in una caverna per meditare, dopo sette anni si infuriò perché continuava a rischiare di addormentarsi. Così, si strappò via le palpebre e le gettò a terra; da queste nacque una pianta, le cui foglie bollite, scoprì, lo aiutavano a combattere il sonno. Si trattava della pianta del te)

Le caverne di Drak Yerpa sono considerate particolarmente importanti perché sono state frequentate soprattutto da Guru Rimpoche (colui che introdusse il buddismo in Tibet) e dal re Songsten Gampo, il primo a unificare il Tibet. Di conseguenza, davanti a queste grotte sono state costruite cappelle, collegate tra loro da una pratica serie di sentieri tutti rigorosamente in salita e ripidissimi. A 4000 metri di quota.

Stupa!

Prima di affrontare la visita, ci fermiamo a mangiare nella guesthouse ai piedi delle grotte, dove troviamo alcuni uomini con un’elegante abito lungo fino al ginocchio, tipo kimono. Sono pellegrini Bhutanesi, ci informa Sangpo. “Loro mangiano molto piccante” aggiunge. Considerato che i tibetani mangiano già molto piccante, non oso immaginare cosa mangino in Bhutan.
Intanto, faccio la prima conoscenza con una forma di toilette molto spartana, una prefigurazione di quello che verrà sull’Himalaya, costituita da una sorta di canaletto (al momento a secco) che gira attorno alla stanza, divisa in piccoli scomparti, ma senza porta. L’odore è, come dire, intenso, e decido di non indagare come funzioni l’eventuali smaltimento di quella grossa.

But if you carry pictures of Chairman Mao… I presidenti cinesi (uno dei quali sembra molto Andreotti) compaiono un po’ ovunque in questo onirico collage

La salita alle grotte è qualcosa. Puoi essere ben acclimatato, ma a quest’altezza fare sforzi per salire è un colpo al cuore. Quasi letteralmente. Lucilla accusa la botta più di me, ma neppure io sto come un fiore. Dobbiamo fermarci ogni pochi metri con il cuore che martella e la testa che fa male, mentre bambini ci passano accanto ridendo, a rendere il tutto ancora più umiliante. Per fortuna, arrivati alla prima cappella abbiamo più o meno ritrovato il fiato e siamo pronti a goderci il posto.
A sorpresa, trovo un anziano monaco con una barba lunghissima e i capelli trasformati in una serie di dread altrettanto lunghi, appollaiato nella prima cappella. È raro trovare persone con la barba, qui. Mi complimento per la barba a gesti, ci sorridiamo, gli indico la macchina fotografica, indico lui, lui ride, scuote la testa e probabilmente pensa “ma che cazzo vuole questo, oh?”.

Le grotte sono per lo più rientranze nella parete, non particolarmente profonde. La roccia è annerita dal fumo delle lampade e ci sono banconote ovunque: non solo sugli altari o dentro le teche, ma persino infilate negli anfratti. In una grotta ci sono le impronte di Guru Rimpoche impresse nella roccia; si dice che ci abbia trascorso sette anni in meditazione.
Ora, non so molto di meditazione, ma con la giornata che è uscita fuori il panorama sulla valle è spettacolare e ci resterei anche io per degli anni, qui.
È il Tibet, proprio come uno se la immagina.

Questo, un po’ meno

Sulla strada verso la macchina una famiglia mi offre un bicchiere di chang, la birra tibetana fatta di orzo fermentato. In realtà, assomiglia di più a un vino novello o a un sidro, essendo abbastanza acidula. Confesso di non essere riuscito a finirla (anche perché era fatta in casa e non si può mai essere troppo sicuri della provenienza dell’acqua e della resistenza del proprio organismo rispetto a quello dei locali; con quattro giorni on the road davanti non era il caso di fare troppo gli avventurosi).

Prima di tornare a Lhasa ci fermiamo su un passo completamente ricoperto di bandiere di preghiera, che vengono lasciate ogni capodanno in segno di buon augurio. Anche le scale disegnate sulla roccia sono simboli benaugurali, sia di ascensione, sia per permettere al Buddha di discendere dal cielo (ci sono comunque varie interpretazioni).

Per l’ultimo giorno a Lhasa prima di partire verso l’Himalaya, ci dedichiamo all’acquisto di alcuni souvenir, ripercorrendo tutta la kora del Jokhang alla ricerca di venditori tibetani e non cinesi; ci ricordavamo un negozio che era quasi al termine del percorso e, non volendo percorrerlo in senso antiorario, ci facciamo un altro giro, che comunque porta bene. Nel frattempo, comunque buttiamo un occhio in tutti i negozi, che non si sa mai che ne troviamo uno prima. Ma a giudicare dalla nostra sommaria ricognizione di antropologia fisica, la maggior parte delle botteghe attorno al tempio sono gestite da persone di etnia Han e non da tibetani. Alla fine troviamo un venditore tibetano. però.
Io nel frattempo comunque sono felice perché ho trovato un simil-starbucks sotto all’albergo e ho potuto almeno in parte curare la mia astinenza da caffeina.

(continua…)

Prossimamente: yak fantastici e dove trovarli

1 Commento

Archiviato in tibet, viaggio

Una risposta a “Verso Oriente – Lhasa (2.3)

  1. Pingback: I migranti di Ganden | buoni presagi

Lascia un commento