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Portogallo (6 di 6)

A questo punto, dopo la parentesi sfortunata di Viseu, il programma prevede di tornare a Lisbona per gli ultimi scampoli di vacanza.
A Lisbona si alloggia nella stessa pensione della prima parte della vacanza. Allora, la stanza che ci avevano dato aveva una piccola stanzetta attaccata, con un letto (subito ribattezzata “la stanza della morta”), che avevamo deciso di usare come cabina armadio dove tenere gli zaini. Ma dopo che, rientrati la prima sera, avevamo trovato tutto quanto tolto dalla stanzetta, la cui porta era stata chiusa a chiave avevamo capito che forse non era previsto che la usassimo. Invece ora siamo in quella che sembra essere una specie di singola appena appena un po’ più grande e per terra c’è a malapena spazio per appoggiare gli zaini.
Ma poco male, ci dobbiamo stare solo due notti. E poi siamo davvero in centro (e in piano, cosa da non sottovalutare)

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Portogallo (5 di 6)

Coimbra, di cui ho iniziato a parlare nel post scorso, è attraversata da un fiume; su una sponda c’è la città con l’Università e il centro storico. Sull’altra sorgono tre monasteri, tra cui quello, abbandonato, di Santa Clara-a-Velha (cioè Santa Chiara Vecchia, per distinguerlo da quello più recente, costruito, come vedremo, più in alto).

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Portogallo (4 di 6)

Credo che ci sia qualcosa di significativo, nel fatto che siamo a ottobre e io sono ancora qui a mettere insieme i pezzi del racconto delle vacanze, sfogliando le foto di agosto mentre agli angoli delle strade compaiono i primi venditori di caldarroste.
Ma del resto, come cantava il poeta, “it’s always better on holiday, so much better on holiday, that’s why we’re working, we need the money”.

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Portogallo (3 di 6)

(le altre parti 1 2)

Viana do Castelo è un’amena località alla foce del fiume Lima (e non Minho come avevo scritto). Un momento Giacobbo: secondo la Lonely Planet “Viana” sarebbe una corruzione di “Diana” ma la notizia non è confermata da nessuna parte. Quindi mettiamo il tutto nella grande cartella “Se ogni tanto Omero sonnecchia, fai te gli autori della Lonely Planet, ebbri di vinho verde e stremati dalle salite” (che apriremo più avanti) e andiamo avanti.
Per lo più è nota perché dal 1772 vi si svolge la “romaria” (festa patronale, letteralmente processione) di Nostra. Signora. Dell’Agonia. Purtroppo, nonostante l’amore degli amici lusitani per lo splatter devozionale, non c’è niente di particolarmente truce nei vari festeggiamenti. Però è la festa religiosa più grande del Paese, grossomodo, e la guida promette spettacoli come donne con costumi tradizionali e “uomini che bevono fino alla sfinimento”. Come mancare?
Così, la mattina del 20 agosto io e Lucilla ci incontriamo con Pablo e Marzia alla stazione di São Bento (il santo protettore dei giapponesi che si portano la schiscetta al lavoro) a un’ora allucinante per della gente in vacanza, tipo le 8.

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Portogallo (2 di 6)

(La puntata precedente)

Questa puntata è dedicata alle
seconde serate estive
del martedì di Italia Uno
nei primi anni Novanta

Porto sembra un po’ una città da cui è scappata un sacco di gente. O, almeno, la parte di centro storico che abbiamo visto noi. Ma pensare che in Avenida Aliados, che è il tipico vialone “volevamo essere Parigi” che dovrebbe essere la zona di rappresentanza della città c’è un intero palazzo abbandonato fa abbastanza impressione. La decadenza di Porto è molto più evidente e meno romanticamente turistica di quella di Lisbona. La Santa Guida (il rapporto che si sviluppa in viaggio tra una coppia e la propria Lonely Planet è parecchio viscerale; poi il fatto che chiaramente pronunciassimo entrambi “Guida”, con la maiuscola, mi faceva venire Douglas Adams) avverte che a Porto la notte, ma anche il giorno, si aggirano parecchi “loschi figuri”. E in effetti la fauna umana di senzatetto e tossici non è molto rassicurante. Ma, in fondo, siamo abituati a Genova. Se gli autori della Lonely Planet del Portogallo vanno nei vicoli di Genova che fanno? Consigliano di viaggiare armati, poi?

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Portogallo (1 di 6)

Quattro anni dopo la prima volta, sono tornato in Portogallo. Dieci giorni, tre città, qualche paesino, 1050 fotografie, una quindicina di pasteis de nata, neanche un arroz de pato (dannazione). Ecco una specie di proiezione di diapositive dopo le ferie.

Il Gorilla in azione a Lisbona

Viaggiare tech: sono partito per il Portogallo con una compatta digitale (una Casio Exilim da 6 MP) e 3 giga di schede di memoria, un Kindle 2 e il fido iPhone. La prima ha dato grandi soddisfazioni insieme al Gorillapod, il meraviglioso treppiedi prensile che si attacca alle cose, nella sua versione leggera per macchine compatte e telefonini. Il Kindle non l’ho usato quanto avrei potuto perché sono partito con un Urania da finire; però ha fatto il suo, permettendomi di leggere un librone (come dimensioni e come qualità) come Makers di Cory Doctorow non solo gratis ma anche senza pesare praticamente nulla. Ha anche passato la prova-spiaggia, in faccia all’Oceano Atlantico (proprio come nello spot!). E poi quanto è comodo poter cercare le parole sul vocabolario con due colpetti di dito? Per non dire di tutte le citazioni che mi sono segnato e che sono lì pronte a essere trasferite sul computer. L’iPhone si è rivelato comodo non solo per leggere la posta e scrivere due scemate su internet da dove ho trovato connessioni wi-fi libere (a Porto e nell’albergo di Coimbra, per la precisione) ma anche e soprattutto per fare foto al volo, specie grazie a Quadcamera, con cui mi sono divertito a fotografare le portate dei pranzi e delle cene. Credo che l’iPhone sia un po’ la nuova Polaroid, in questo senso.

Una cena per due (quelli che spuntano dal riso sono cucchiai, non cucchiaini come può sembrare)

Lisbona è sempre una città meravigliosa. C’è qualcosa, nella sua luce, di unico. E nella garbata decadenza dei suoi palazzi, nei vicoli dell’Alfama che sembrano un po’ quelli di Genova e nei vicoli del Bairro Alto che sembrano un po’ quelli di Genova il venerdì sera. Adoro lo spiazzo immenso, assurdo, di Placa do Comerçio, che si apre come un palcoscenico sul fiume. Su una delle due colonne che stanno in riva al fiume, attraversata la strada e scesi i gradini, c’è un’iscrizione che ricorda qualcosa fatto da Salazar. È molto nascosta, ma nei giorni che ho passato in Portogallo è stata l’unica volta che mi sono trovato davanti a qualcosa che ricordava che fino a trentacinque anni fa in Portogallo c’era una dittatura (una dittatura particolarmente stupida e banale, tra l’altro, e per questo ancora più terribile).

Lì in fondo, appena prima della mota, si legge "SALAZAR"

Lo sferragliante percorso del tram 28 è un’esperienza che merita. Godersi la salita fino allo spiazzo della porta del Sole affacciati al finestrino, facendo le boccacce a quelli che fotografano il passaggio di uno dei simboli di Lisbona, immortalato in milioni di fotografie, è divertente. E poi guardare giù da lì, mentre il tram si arrampica ancora più in alto, facendo il pelo ai muri, alle macchine, alle persone. A volte incroci quello che va dall’altra parte e gli obiettivi che escono dai finestrini aperti sembrano cannoni, i tram due navi nemiche pronte a ridursi a pezzi l’una con l’altra.
E se hai fortuna e prendi il momento giusto, ti può anche capitare di fotografare il personaggio di una canzone di Guccini.

La bambina portoghese

Ci sono anche quelli che lo prendono al volo e a scrocco, attaccandosi al predellino dietro. Fanno i portoghesi. Anche se in realtà i poveri portoghesi non c’entrano nulla, in questa espressione che, non a caso, usiamo solo noi italiani.

Eccolo lì, il tram! La signora con la maglia verde non fa la portoghese e paga il dovuto all'autista.

A proposito di italiani, Lisbona ne è PIENA. Ovunque, non si sente che parlare in italiano. A volte con effetti esilaranti. Tipo che a un certo punto siamo in coda alla pasticceria di Belem, quella che ha la ricetta originale dei pasteis de nata. Dietro di noi, siamo ancora fuori, un signore guida la sua famiglia. Si mettono in coda e la moglie gli fa: “ma che cosa c’è qui?”. Lui guarda la vetrina, dove ci sono i pasteis de nata. Che sono dei piccoli canestrini di pasta sfoglia ripieni di crema. Detta così sembra niente, ma sono la cosa più buona del mondo. Comunque. Lui guarda e dice: “ah! Ho capito. Qui fanno quei dolci che abbiamo mangiato ieri. Quelli con la pasta di mandorle. Certo, qui li faranno in tante varietà, ma noi prendiamo quelli classici, che sono i più buoni”.

La perfezione (featuring una mia pelosa gamba)

Belem è un quartiere di Lisbona in cui si trovano due dei monumenti più importanti dell’Epoca delle Scoperte: il Monastero e la Torre. Per il Monastero c’era tantissima coda quindi abbiamo ripiegato sul museo di arte contemporanea, gratuito e per niente affollato. Tra le altre cose c’era un’installazione che metteva a disposizione del pubblico una chitarra, una batteria e una tastiera, da suonare liberamente. Purtroppo non ho trovato nessuno che si unisse (e mi vergognavo come un ladro), così ho suonato tipo venti secondi cercando di capire se il suono faceva qualcosa alle robe appese e poi ho messo giù la chitarra.

"alzami un po' la terza spia a destra dall'alto..."

La torre di Belem, che proteggeva l’ingresso al porto, mi fa sempre venire in mente il secondo disco degli Angra, Holy Land. Gli Angra sono/erano (ne ho un po’ perso le tracce) un gruppo di power/speed/prog metal brasiliano e Holy Land è un disco incentrato intorno alla scoperta del Brasile nel XVI secolo, con parecchi inserti di musica brasiliana e molti momenti non strettamente metal. E ha qualcosa della leggerezza, dell’armonia e della luminosità dello stile architettonico manuelino di cui la torre (insieme con il monastero di Belem) è uno degli esempi più compiuti. E inoltre la torre e il monastero sono stati costruiti per celebrare la scoperta di nuove rotte e nuove terre, grazie alle ricchezze che questi eventi hanno generato. Quindi in un certo senso, tutto torna. Almeno per me.

(Carolina IV è la canzone che riassume in sé buona parte dei suoni e delle atmosfere del disco, a partire da quella specie di samba iniziale. C’è però anche un sacco di doppia cassa gratuita)

La torre. Dettagli.

Saliti e scesi dalla torre (cosa non semplice, c’è un’unica strettissima scala a chiocciola da cui salire e scendere, si passa un sacco di tempo in coda per salire e si deve scendere usando la parte interna dei gradini, strettini) si tenta un altro assalto al monastero. Ma la coda è sempre imponente. Allora decidiamo che va bene anche solo vedere la chiesa con la tomba di Vasco di Gama prima di dedicarsi ai pasteis de nata. Di cui si è detto più sopra.
Il tempo di fermarsi sulla via del ritorno sotto al finto Golden Gate, poi è ora di una ginjinha sotto alla pensione. La ginjinha è un liquore alla ciliegia, dolcissimo, di cui un piccolo bar dietro al Rossio detiene la ricetta originale e lo serve da una bottiglia che viene riempita attingendo da un enorme vascone di marmo. Il posto è caratteristico, anche se l’odore c’è dentro è un po’ quello di uno che ha vomitato dopo aver bevuto troppa sangria. Resta aperto dalle 9 alle 22 e c’è sempre un sacco di coda.

A Ginjinha.

(Continua: 2, 3)

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Il segreto dei camerieri portoghesi

Nel 1568, l’appena 14enne re del Portogallo Sebastiano I ebbe un’idea stupida di quelle che si possono avere solo a 14 anni. Anche io a 14 anni avevo idee stupide, che a volte cercavo anche di mettere in pratica. Solo che io al massimo mettevo i raudi nelle lattine, a lui venne in mente di invadere il Marocco per convertirlo al cristianesimo.
Dieci anni dopo il Sebastiano era ancora lì a pensare alla sua grande idea. Alle spalle aveva un regno che si era arricchito a dismisura grazie alle scoperte dei navigatori che si erano spinti là dove nessun uomo era mai giunto prima (e che in cambio hanno ottenuto un brutto e inutilmente grosso monumento a Belem), un impero transoceanico che andava d’amore e d’accordo con tutti gli altri pezzi grossi dell’epoca. Insomma. Poteva starsene lì a mangiare pasteis de nata tutto il giorno e pure tutta la notte e invece no, stava lì a grattarsi l’asburgico mento, immagino con i gesuiti dietro che lo spingevano a prendere il mare e dare il fatto loro ai mori sodomiti, con quelle carni eburnee arse dal sole sotto cui guizzano muscoli come pesci vivi che saltano fuori dal Tago e… A quel punto Sebastiano si voltava con un asburgico sopracciglio inarcato e il gesuita, in visibile imbarazzo, bofonchiava qualcosa su certe preghiere che era ora di andare a recitare e si chiudeva nella sua cella.
Comunque alla fine il dado è tratto. Il Marocco sta sulla rotta per l’India ed è ostile, in più c’è una guerra dinastica in corso, basta aiutare il pretendente più debole e poi è un attimo imparonirsi del regno, prenotando per tempo il traghetto non fa pagare i cannoni, via che si va.
Io mi immagino questa sfilza di nobili iberici, numerosi e presuntuosi e imbevuti di epica cavalleresca e cortese come solo un nobile iberico di fine Cinquecento poteva essere, tutti lì all’imbarco a sfoggiare sontuose armature, broccati, velluti e ori, sfilze di attendenti, che scherzano sui mori che decapiteranno, sugli harem nei quali imporranno la loro virilità a interminabili sequenze di donne velate, sui palazzi dove andranno a risiedere una volta ripuliti dal puzzo di moro. E dietro di loro una soldataglia che bestemmia tra i denti stretti, avendo già un vago sentore di come andrà a finire.
E infatti.
Sebastiano si porta dietro più o meno tutta la nobiltà del regno. Arriva a Cadiz, ma gli spagnoli gli dicono che, hola!, hanno la paella sul fuoco e che quei soldati che avevano promesso sono tutti necessari per controllare che non si bruci. Divertitevi e mandate una cartolina, eh. (e poi chiusa la porta ridono tantissimo).
I portoghesi arrivano in Marocco, si uniscono con i seimila uomini del tizio che sono andati ad aiutare, poi arrivano nell’entroterra e scoprono che l’altro contendente ha raccolto un esercito enorme di musulmani incazzatissimi con gli infedeli invasori. Tipo 25.000 volontari marocchini. Più 15.000 giannizzeri, che fanno più paura che il diavolo. E cannoni grossi come navi, che al primo colpo della battaglia si portano via il comandante del centro dello schieramento portoghese (un personaggio interessantissimo, un inglese che era arrivato in Portogallo con 2.000 mercenari italiani con cui in realtà avrebbe voluto andare a invadere l’Irlanda).
Avete presente che fa un esercito di mercenari e figli di papà quando le cose vanno male? Esatto.

Il corpo di Sebastiano I, puf, scompare. Non si trova più. Riuscite a immaginare la ferocia di una battaglia in cui il re avversario, preziosissima e utilissima pedina per qualsiasi scambio, viene fatto a pezzi come un fantaccino qualsiasi? Alla fine dei resti identificati come i suoi vengono riportati in patria. Ma chissà chi c’è davvero in quella tomba del monastero di Belem. Ovviamente, come sempre succede, la leggenda del re che in realtà è sopravvissuto e prima o poi tornerà nel momento del bisogno non tarda ad attecchire. E sopravvive fino alle rivolte nel Sertao alla fine del XIX secolo.
L’intera nobiltà portoghese è spazzata via, tra i morti e i prigionieri. A Sebastiano succede lo zio, un cardinale, che in pratica è costretto a spendere gli ultimi dobloni dei forzieri reali per pagare il ritorno in patria dei nobili sopravvissuti. Segue guerra dinastica, con tanto di impostori che sostengono di essere Sebastiano, il più convincente dei quali pare essere stato un italiano. Tanto per cambiare.
Poi gli spagnoli, quando due anni dopo hanno finito di ridere, invadono il Portogallo e tanti saluti.

Tutto questo per dire che quando sembra che un cameriere portoghese non vi stia cagando di proposito, in realtà è solo che gli è venuto un attimo di tristezza pensando a questa triste storia e preferirebbero restare lì da soli, invece che portarvi un’altra bottiglia di vinho verde.

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