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Ritagli

Una delle cose più pratiche che permette di fare un e-reader è sottolineare i testi e avere poi a portata di mano tutti i passaggi che si vogliono conservare.
Di seguito, una piccola raccolta di sottolineature, senza un particolare filo conduttore, tra saggi e narrativa, dagli ultimi tre anni circa di letture.

Alberto Grandi, Denominazione di origine inventata
Questo è il paese nel quale due tra le regioni più ricche del mondo, il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia, si fanno la guerra per stabilire la paternità del tiramisù, dove politici di levatura nazionale scendono in campo come cavalieri medievali per difendere l’onore di una salsiccia o di un formaggio. C’è qualcosa di medievale, in effetti, nell’impegno profuso da ogni singolo comune per ottenere una qualche forma di riconoscimento al suo prodotto locale. Quasi che i prodotti tipici siano “le sacre reliquie del Ventunesimo secolo, il pane di grano arso venerato come il braccio di Sant’Antonio, la colatura di alici come il sangue di San Gennaro, le strade del vino come il cammino dei pellegrini, la lotta per la Dop come l’ultima crociata”

Anatolij Kuznecov, Babij Jar (trad. Emanuela Guercetti)
Era in corso una fantastica guerra con la Polonia. Hitler da occidente, noi da oriente – e fine della Polonia. Naturalmente, per salvare le apparenze la chiamammo «liberazione dell’Ucraina Occidentale e della Bielorussia», e appendemmo manifesti dove una specie di servo della gleba tutto lacero abbracciava un valoroso liberatore dell’Armata Rossa. Ma così si usa. Chi invade è sempre il liberatore da qualcosa.

I sistemi della menzogna e della violenza hanno scoperto e sfruttato brillantemente un punto debole dell’uomo: la credulità. Il mondo va male. Si presenta un benefattore con un progetto di radicali cambiamenti. Secondo questo progetto oggi sono necessari sacrifici, ma in compenso sulla linea del traguardo sarà garantito a tutti il paradiso. Qualche parola incendiaria, una pallottola alla nuca per gli increduli – ed ecco già folle di milioni in preda all’entusiasmo. Una cosa incredibilmente primitiva – ma funziona!

Lawrence Wright, Dio salvi il Texas (trad. Paola Peduzzi)
La Humane Society degli Stati Uniti ritiene che ci siano più tigri che vivono in cattività in Texas che le tremila che vivono allo stato brado.

C’è un antico detto che dice che la ragione per i cui i battisti non avvitano nulla stando in piedi è perché qualcuno potrebbe pensare che stiano ballando.

Sfinita dal trattamento spietato riservato alle donne, Jessica Farrar, deputata liberal di Houston, introdusse la legge 4260, il Man’s Right to Know Act, usando lo stesso linguaggio paternalistico “lo faccio per il tuo bene” che caratterizza le molte norme riguardo all’aborto e alla salute delle donne – richiedendo per esempio un’ecografia e un esame rettale prima di prescrivere il Viagra.

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“Mio cugggino ha fatto questo e quello”: Il conte Attilio, di Claudio Paglieri

I Promessi Sposi è ambientato negli stessi anni dei Tre Moschettieri, in un periodo di intrighi internazionali, guerre, avventurieri, soldati di ventura e spadaccini, ma non ce ne si accorge perché Manzoni – per tutte quelle questioni di poetica che certamente ricordiamo tutti dai tempi delle superiori (…) – scelse di tenere quel mondo ai margini della sua storia.
Però ci sono dei personaggi che hanno vissuto, o ancora vivono, in quel mondo: Fra Cristoforo ne ha fatto parte, l’Innominato e Don Rodrigo ne fanno parte. E poi c’è il conte Attilio.

Attilio, secondo da sinistra, discute con Fra Cristoforo

Attilio è il cugino di Don Rodrigo, vive a Milano ed è pienamente immerso nel mondo dei nobili. È lui, per certi versi, il motore delle sventure di Renzo e Lucia, perché scommette con il cugino che non riuscirà a sedurre la ragazza, poi muove le sue pedine (il famoso “conte zio”) per far trasferire Fra Cristoforo, che ha intralciato il rapimento con cui Don Rodrigo sperava di vincere la scommessa.

Insomma, nel mondo di Manzoni, Attilio è una carogna fatta e finita – uno di quelli di cui la peste fa pulizia, senza neanche la dignità di una morte in scena.

A Claudio Paglieri, scrittore genovese autore della serie di romanzi gialli che ha per protagonista il commissario Marco Luciani, invece Attilio è sempre stato simpatico, tanto da farne il protagonista di un funambolico prequel cappa e spada del romanzo manzoniano, appunto Il conte Attilio. Ovviamente, non c’è alcuna pretesa di mimetismo manzoniano: il romanzo di Paglieri è un romanzo d’avventura, picaresco, in cui si avvicendano viaggi, avventure, conquiste amorose, truffe fatte e subite, agguati e tradimenti. Allo stesso tempo, però, rispetta l’attenzione manzoniana alla Storia, intrecciando le vicende dei personaggi con quelle dell’impero spagnolo (alle prese con guerre di religione e crisi finanziarie) e della sua alleata, Genova.
Non solo: Paglieri si rifà a un’interpretazione che vede nella famiglia di Don Rodrigo la trasposizione letteraria di una casata con cui quella di Manzoni ebbe rapporti molto tesi durante il XVII secolo, quindi è forse il primo caso di prequel di un romanzo in cui tra gli antagonisti ci sono gli antenati dell’autore del romanzo originale.
In mezzo, si trova un divertito uso di citazioni dirette di espressioni famose dei Promessi Sposi (oltre a vedere in diretta la bastonatura di un messaggero di cui si parla nel capitolo in cui Cristoforo si ritrova a tavola con Don Rodrigo e Attilio), in mezzo ad altre cose più contemporanee (c’è una sequenza che sta a metà tra Lady Hawke e Il laureato, ma ci sono anche echi della trilogia di Magdeburg di Altieri e un richiamo diretto al Tulipano nero* di Dumas).

Forse ogni tanto al buon Attilio, che scopriamo spregiudicato ma in fondo dotato di buon cuore e ben più onorevole di altri suoi contemporanei, tocca in sorte più fortuna di quella che sarebbe accettabile (nella texwilleriana sequenza del furto ai danni dei Balbi, per esempio) ma il romanzo è divertente, fila come un treno e fa venire voglia di leggerne il seguito. Non nel senso dei Promessi Sposi (che è comunque un libro molto migliore del ricordo che ce ne ha lasciato la scuola, come ho scoperto ascoltando qualche tempo l’audiolibro interpretato da Paolo Poli) ma nel senso di quello che l’autore lascia intravedere nel finale aperto e nelle note conclusive; un romanzo che dovrebbe a questo punto scorrere parallelo alle vicende manzoniane e che si prospetta interessante.

A questo punto ci vorrebbe, complice il 150° della morte di Manzoni, la nascita di un vero e proprio Manzoniverse: il passo successivo dovrebbero essere le vicende di Fra Cristoforo prima di diventare frate, e poi ovviamente la grande epopea dell’Innominato.

* Nonostante l’omonimia con un famoso sceneggiato televisivo e con un cartone giapponese la cui vera protagonista era invece la Stella della Senna (<3), il romanzo di Dumas non è una vicenda di cappa e spada ma una bizzarra storia di avventura “botanico-finanziaria” ambientata durante il boom del mercato dei tulipani in Olanda.

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I libri letti nel 2018 – il meglio

Stando a Goodreads (che va bene il ritorno al blog, ma Anobii non è più cosa) (comunque c’è gente che usa ancora last.fm, ho visto) nel 2018 ho letto 93 libri. La lista dettagliata con i voti si trova là, qui faccio solo un riassunto dei titoli che si sono meritati secondo me il massimo dei voti.

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Fantascienza non è una parolaccia

Ragazze elettriche di Naomi Alderman è un bel romanzo di fantascienza, che traccia una bella parabola (beffarda) sul potere, sul rapporto tra i generi e persino su come la storiografia sia un riflesso del mondo che la produce.

Solo, stona un po’ che nelle prime tre righe dell’aletta dell’edizione italiana si sia sentito il bisogno di dire che non è proprio un romanzo di fantascienza, eh. E comunque ha anche vinto un premio!

Ma, no: Ragazze elettriche è un romanzo di fantascienza (proprio da definizione, perché c’è una spiegazione scientifica del fenomeno che racconta), che sarebbe potuto tranquillamente uscire in Urania o per Zona 42 (per la quale è di recente uscito un romanzo di Alessandro Vietti che presenta un simile intreccio tra potere fisico, politico e costruzione della verità, appunto Il potere).

Ripetiamolo tutti insieme: “fantascienza non è una parolaccia”

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La Stanza Profonda

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Parlare di un libro come “La stanza profonda” (d’ora in poi LSP) di Vanni Santoni mi mette un po’ in imbarazzo, per una lunga serie di motivi.
Il primo è che LSP è un libro sui giochi di ruolo e una delle cose che scopri dopo un po’ che giochi di ruolo (voce del verbo “giocare di ruolo”) è che di giochi di ruolo (sostantivo) non si parla con chi non gioca. Ti risparmia un sacco di noiose spiegazione al termine delle quali l’interlocutore comunque decide che sei un cretino.

INCISO
Una volta metto su un gruppo musicale con un amico (al quale effettivamente mai avevo parlato di GdR). Un giorno siamo lì che chiacchieriamo con il chitarrista solista, che conosciamo da un paio di settimane, e lui in una frase dice una cosa tipo “in quei casi devi avere un senso del dovere da Cavaliere di Solamnia”. Al che io abbocco e faccio: “Uh, Dragonlance! Grande!”.
Lui annuisce e dice “Bene, quindi giochi. Se non avessi colto il riferimento non avrei mai più tirato in ballo i giochi di ruolo”.
(Diventò poi il nostro master in una campagna che rendemmo molto più interessante andando a confidarci con quello che credevamo il nostro amico più fidato e che invece avrebbe dovuto essere chiaro che si trattava del vero cattivo di tutta la faccenda).

Invece ora non solo esce un romanzo che ha in copertina un d20 (un solido regolare a venti facce triangolari, per la gente normale) e che parla di gdr, ma che per giunta finisce candidato al Premio Strega (non che abbia particolare interesse per i premi letterari, ma va da sé che danno un +3 alla visibilità del libro) e viene letto e recensito anche da gente che, probabilmente, nella sua “stanza profonda” non ci è mai entrata.
Ora, non si tratta di affermare spavaldi che “i nerd hanno vinto”, cosa che da qualche anno si sente ripetere sia tra chi ha da sempre frequentato dadi e mondi fantastici sia, soprattutto, tra chi non lo ha mai fatto. La situazione è ben più complessa, come riconosce anche Vanni Santoni nel libro (ne avevo parlato in un post di qualche tempo fa), e i toni trionfali sono un po’ fuori luogo.
No, dovete piuttosto considerare che fino a non moltissimo tempo fa, se sentivi parlare di giochi di ruolo fuori dall’ambiente era per cose del genere:

Quarant’anni fa, i giochi di ruolo in Italia non avrebbero trovato alcun seguace: perché i giovani un ruolo lo avevano davvero, fatto di responsabilità e progetti, nella società. Quindici anni fa, in America, il gioco della Torre e del Dragone venne tolto dal commercio; noi lo abbiamo trasformato in gioco di ruolo, e portato in Italia con grande successo, come tanta altra immondizia d’importazione.
Può un gioco portare al suicidio? E può un suicidio giovanile essere assistito? La risposta è sì, ad entrambi i quesiti.

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Surviving #SalTo13

Breve guida alla sopravvivenza al Salone del Libro di Torino, sulla scorta delle esperienze passate.

  1. Stai a casa. Sul serio. La Fiera (o Salone) di Torino è una gigantesca libreria. Dove, per entrare, paghi. Dice: “ok, ma poi una volta dentro scontofiera come se piovesse?”. Mah, non ci contare troppo, a meno che non siano le ultime ore dell’ultimo giorno. Se stai andando a Torino per buttarti dentro allo stand di Einaudi o Mondadori o Rizzoli o Feltrinelli, stai  a casa. Investi i soldi del biglietto del treno in libri. Oppure vieni pure a Torino, goditi la città e usa i soldi del biglietto per mangiare qualcosa di buono.
    “Ma c’è l’incontro con quell’autore che amo tanto!!!”. Ok, legittimo, però se vivi in una città con delle librerie controlla che magari non faccia una presentazione anche nella tua città. Per esempio, quando una casa editrice invita un autore straniero cerca di massimizzare la sua presenza e non lo porta solo a Torino.
  2. Ok, sei voluto venire lo stesso. Almeno evita di intrupparti negli stand delle giga-case editrici e date un’occhiate a quelle i cui libri non trovate in libreria. Vale anche lì la legge di Sturgeon, ma la possibilità di trovare qualcosa di interessante c’è sempre.
  3. Se proprio devi, evita il fine settimana. Il fine settimana è l’inferno in terra. Certo, durante la settimana ci sono le scolaresche deportate a pascolare tra gli stand, però di solito ci sono solo la mattina e il pomeriggio si gira più tranquilli.
  4. Portati del cibo. In Fiera il cibo è caro e/o fa schifo e/o devi fare delle code lunghissime. In teoria, appena lì fuori c’è un centro commerciale con un sacco di posti dove mangiare, però di solito il biglietto dei visitatori non ti permette di uscire e rientrare. Se proprio resti bloccato, la cosa più onesta che puoi trovare è la non-pizza di Spizzico. Quest’anno gli organizzatori promettono maggiore varietà, ma io non mi fiderei comunque.
  5. La tua sopravvivenza può essere garantita dal chiosco dei gelati fuori dal padiglione 3, se c’è anche quest’anno.
  6. Verso le 18, 18.30 alcuni stand organizzano rinfreschi. Punta gli stand delle Regioni (sì, ci sono gli stand delle regioni, don’t ask), di solito ci si trova bene.
  7. Portati degli spiccioli. I cassieri amano gli spiccioli. Un cassiere che conosco dà gadget a chi gli dà gli spiccioli, se ha gadget da dare.
  8. Le case editrici stampano i cataloghi apposta perché la gente li prenda. Se vedi dei cataloghi su un bancone, prendine pure uno. Non chiedere al cassiere “posso prenderne uno?”, al massimo di’ qualcosa tipo “ti rubo un catalogo”.
  9. Sui libri che un editore vende direttamente in fiera ha già pagato le tasse. Quindi non emette scontrino fiscale. Chi si dota di un registratore di cassa lo fa per questioni di contabilità interna, chi non lo fa perché non può permetterselo o non ne ha voglia. Quindi non guardate come evasori fiscali quelli con la cassettina, non sono degli evasori fiscali.
  10. Lo sconto: domandare è lecito, farlo è cortesia. Il momento migliore per chiedere sconti è a fine fiera (vedi punto 1); per dire l’anno scorso Codice faceva lo sconto del 50%. Sventolare il pass espositori chiedendo “sconto espositori?” non funziona automaticamente. La tecnica migliore, se passi più giorni in fiera, è quella di fare amicizia con chi lavora in stand con libri che ti interessano e organizzare degli scambi di favori.
  11. Attento agli stand di venditori di corsi di autostima, marketing motivazionale, editori a pagamento, fuffologi assortiti. Tendono a essere appiccicosi.
  12. Evita di prendere ogni singolo catalogo, depliant, campioncino con le prime sedici pagine di un libro, adesivo, segnalibro, che trovi in giro. Sommati ai libri che inevitabilmente compri fanno un peso considerevole e quando arrivi a casa e svuoti i sacchetti dici “ma che cazzo ho preso?”. I veri professionisti vanno in giro con il trolley.
  13. Non è colpa loro, ma se stai a uno stand e hai libri per bambini, una specie di piaga biblica sono le maestre, alla perenne ricerca di materiale omaggio. Sarà che la fiera coincide con il periodo in cui faccio la dichiarazione dei redditi, ma mi domando sempre (retoricamente) dove diavolo vadano a finire i soldi delle mie tasse, se non alle scuole.
  14. È vero che chiude alle 22 (sabato alle 23), ma se eviti di iniziare a guardare tutti i libri dello stand alle 21.56 il tuo karma ne guadagnerà.
  15. Gli spiccioli. Mi raccomando.

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In Dublin fair city (2 di 3)

Eravamo rimasti, sconsolati, a metà dell’Ha’Penny Bridge a guardare i lucchetti mocciani.
Attraversato il ponte, siamo di nuovo a Temple Bar, che essendo giusto le dieci e venti ha l’aria di una casa di studenti fuorisede il mattino dopo una festa. Sonnecchiosamente le bancarelle di roba per turisti mettono fuori la loro mercanzia, mentre gli spazzini si danno da fare per ridare una parvenza di ordine alle strade (Dublino è mediamente sporca, cosa in cui ricorda un po’ Genova). Iniziamo, già che ci siamo, la ricerca di magneti da frigo, sia per uso personale sia come regalo a chi ama riceverne, e abbiamo un primo assaggio di un problema che ci perseguiterà per tutto il giorno: i magneti da frigo in vendita a Dublino fanno mediamente schifo. Anche per la media dei magneti da frigo. Sono giganteschi, obbligatoriamente in rilievo e brutti (il meno peggio sarà un Temple Bar Pub in rilievo, con la sua facciata rossa e una bicicletta appoggiata che non credo sia una citazione di De Andrè; e uno piatto con una pubblicità della Guinness d’annata). Io per conto mio mi compro un paio di spilline, un “pog ma thoin” e un “I’ll be Irish in a few beers” (e finalmente mi daranno una bicicletta), da mettere rigorosamente in Italia perché va bene essere turisti ma fare la figura di quelli che girano a New York con la maglietta I ♥ NY no. Vediamo anche le prime bancarelle di un mercato di cibo che si svolge il sabato in zona, ma siamo ancora provati dalla colazione e rifuggiamo la vista del cibo, puntando invece decisi verso il Dublin Castle. Al Dublin Castle non entriamo per la visita. Ci limitiamo a gironzolare nei cortili, guardiamo da fuori la torre medievale e ci godiamo la giornata fredda ma soleggiatissima. Dedichiamo qualche minuto anche a ispezionare il gift shop, che trabocca ovviamente di magneti improponibili.

Le tende proseguivano sul lato sinistro

Sulla strada per il Trinity College, su Dame Street, c’è l’accampamento di Occupy Dame Street, la branca dublinese del movimento Occupy (gli “indignados”) che si è collocata davanti alla Central Bank. Dopo un boom nel corso degli anni Novanta, l’Irlanda si è trovata parecchio inguaiata dal punto di vista economico: quando l’acronimo era ancora PIGS era lei la I (le altre ovviamente erano Portogallo, Grecia e Spagna) (cheap holidays in other people’s misery). Ora le I sono due e noi siamo l’altra. Rispetto alla sua controparte bolognese della primavera del 2011, questo accampamento si presenta molto strutturato: ci sono una quindicina di tende, attorno alla quale è stato eretto un recinto per impedire l’accesso agli estranei. Le tende sono montate non sul marciapiede ma su bancali di legno, per garantire un minimo di isolamento termico. Una tenda più grande ospita la dispensa degli occupanti, mentre fuori dal recinto c’è un banchetto con volantini e un foglio dove lasciare il proprio indirizzo email. I pali della luce lì attorno sono coperti di manifesti e infografiche.

tipo questa. Avrei voluto fermarmi a fare due chiacchiere, poi ho visto che gli dobbiamo un sacco di soldi e ho soprasseduto, che magari poi me li chiedevano a me

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Fiera, nel senso di “bestia feroce”

Il mio secondo Salone del Libro in veste di standista è stato più lungo e faticoso del primo (da venerdì a lunedì, con l’appendice del disallestimento martedì mattina). E dopo avere trascorso ormai una settimana della mia vita sulla moquette blu del padiglione tre, dopo aver venduto non so più quanti volumi, aver battuto non so quanti scontrini ed essermi scordato di restituire almeno un paio di carte di credito, sono giunto che alla conclusione che io, se non dovessi andarci a lavorare, al Salone di Torino da visitatore non ci metterei mai piede.
Passo indietro, per chi non ci è mai stato.
Che cosa è il Salone del libro?
Una libreria. Gigantesca. A pagamento.
Anzi. Un centro commerciale, perché quest’anno, per esempio, gran parte del padiglione uno era occupato da negozi di strumenti musicali. E perché ci sono sempre un po’ di stand buffi che non c’entrano niente, come i produttori di vino o i ragazzi di un’agenzia che fa roba motivazionale (nel duemilaFOTTUTOundici, dopo anni e anni di demotivators questi avevano i poster motivazionali con leoni, albe e tramonti affissi dentro allo stand).
Un grosso centro commerciale in cui la maggior parte dei prodotti ha prezzi più alti di quelli che si possono trovare al di fuori delle sue mura, nei centri commerciali veri o nelle librerie o, pensa un po’, su Amazon o Ibs.
A giudicare dai sacchetti che vedevo in giro, il percorso tipo è questo: tu arrivi, fai una lunga coda, paghi dieci euro, entri e ti fiondi nello stand di MondadoriRizzoliGeMS (tutti uguali, tutti costruiti come fortini con mura e torri; qualcosa vorrà dire) e gli lasci venti carte per un libro che hai visto da Fazio (Fabiofazio is the new Mauriziocostanzosciou). Poi vai a sentire la conferenza di Travaglio. Poi non lo so, gironzoli un po’, porti i bimbi al gigantesco stand della Nintendo che almeno giocano un po’ o ci vai tu a giocare. Ti intruppi in coda a comprare un panino fetido all’autogrill o la pizza irreale di Spizzico (là fuori c’è Eataly, ci sono bar e ristoranti, c’è una metropolitana che in dieci minuti ti porta in centro: ma con il biglietto da visitatore una volta uscito non puoi rientrare). Fai un passo allo stand della Rai che magari stanno registrando qualche trasmissione e a casa ti vedono. Robe così.
Pessimismo o snobismo che sia, a me sembra che sempre di più il Salone del Libro sia, per il grosso dei visitatori, un estensione del mondo televisivo, un posto dove puoi andare a vedere da vicino le persone che vedi dentro allo schermo, magari recuperare un autografo.
Una rapida elencazione dei personaggi più o meno pubblici che ho avvistato in fiera (o in albergo, quindi lì per la fiera): Marina Ripa di Meana, Piero Fassino, Dario Franceschini, Anselma Dell’Olio, Enrico Ruggeri, Francesco Bianconi dei Baustelle (con i capelli puliti, potenza dell’ufficio stampa Mondadori che è riuscito a fargli fare uno shampoo), Franco Di Mare, Alessandro Bergonzoni, Vittorino Andreoli, Pavel Nedved, Massimo Carlotto, Maurizio Milani, Piero Dorfles, Giorgio Bocca, Luca Telese, Gianluca Morozzi, Vittorio Sgarbi, Tito Faraci, Andrea G. Pinketts.
Poi me ne sfugge qualcuno sicuramente: ma l’unica volta che sono finito in mezzo a una ressa per una persona che pubblica regolarmente romanzi è stato quando Licia Troisi firmava libri allo stand Mondadori (ma un tre-quattro anni fa ricordo Carlo Lucarelli seduto allo stesso tavolino lì fuori completamente ignorato).
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