Questa cosa dei libri del mese mi sta decisamente sfuggendo di mano.
Della piacevolezza delle edizioni illustrate Del Rey dell’opera di Robert E. Howard ho parlato nella scorsa puntata. Questo El Borak and other desert adventures non fa eccezione; anzi, se possibile alza ancora di più il livello mettendo in campo i disegni di Tim Bradstreet, illustratore e copertinista che nello scorso decennio ha ricreato dalle fondamenta l’iconografia del Punitore, tra le altre cose. El Borak (“lo svelto”), il personaggio che dà il titolo a questa raccolta di storie, è un avventuriero texano che ha piantato le tende nell’Afghanistan degli anni Dieci, dove passa il suo tempo a sventare complotti, recuperare fanciulle in pericolo da città nascoste tra le montagne, cacciarsi fuori dai guai in cui si è cacciato. Come ogni avventuriero degno di tal nome. Anche se alcune di queste storie sono state nel corso degli anni trasformate in avventure a fumetti di Conan, cambiando quello che serviva, la magia e il sovrannaturale sono praticamente assenti (a parte lo yeti): si tratta di avventura pura e semplice, la stessa che si ritrova anche nelle storie di un paio di personaggi minori con cui si completa il volume. Una chicca è la prima versione di The Fire of Asshurbanipal, che manca del finale sovrannaturale, ritrovata nel 1972 e pubblicata solo un paio di volte.
È un volume che, nonostante una certa ripetitività di situazioni (il gruppo del protagonista assediato in una grotta sul fianco di una montagna da cui fugge perché trova un’uscita ignorata, per esempio), mostra la potenza della scrittura di Howard e la sua capacità di costruttore di storie. Non ci sono fronzoli, non c’è niente che non sia funzionale alla storia, neanche nelle psicologie dei personaggi. C’è molta ferocia e Son of the White Wolf, la storia di un disperato e rabbioso tentativo di far nascere un nuovo impero turco, ne è forse il punto più alto, pur nella sua brevità:
“We have reached the end of the Islamic Age. We abjure Allah as a superstition fostered by an epileptic Meccan camel driver. Our people have copied Arab ways too long. But we hundred men are Turks! We have burned the Koran. We bow not toward Mecca, nor swear by their false Prophet. And now follow me as we planned – to establish ourselves in a strong position in the hills and to seize Arab women for our wives.”
“Our sons will be half Arab,” someone protested.
“A man is the son of his father,” retorted Osman. “We Turks have always looted the harims of the world for our women, but our sons are always Turks.”
Finisce anche peggio di come si può immaginare, per la cronaca.
Narrativa di intratteimento da leggere magari non un racconto dietro l’altro perché alla lunga la ripetitività c’è, però comunque roba di buon livello, scritta nell’impareggiabile prosa vigorosa di Howard.
Sotto l’etichetta Young adults si sono consumati incredbili crimini contro l’umanità. L’idea è che gli adolescenti si bevano qualsiasi polpettone di amore e morte e che a volte, quando ti va bene, riesci a venderlo anche a chi adolescente non è. Hunger games di Suzanne Collins è finito sul mio kindle perché era in offerta a un prezzo ridicolo e perché ne sentivo parlare con toni positivi che non erano quelli del guilty pleasure da qualche tempo, altrimenti mai e poi mai mi sarei avvicinato al nuovo campione del genere. Doverosa premessa, che poi arriva nei commenti quell/o con il ditino alzato: non ho visto/letto Battle Royale in nessuna delle sue incarnazioni. Ma si dovrebbe parlare anche di due romanzi di Stephen King (pubblicati con lo pseudonimo Richard Bachman), La lunga marcia e L’uomo in fuga (da cui L’implacabile con il buon vecchio Arnie) da cui provengono sia l’idea della competizione mortale tra i giovani in un’America futuribile andata a scatafascio sia quella dello show televisivo a eliminazione diretta dei concorrenti.
Se dovessi definire Hunger Games con due soli aggettivi direi che è onesto e furbo, ovviamente secondo due aspetti diversi.
È onesto nelle intenzioni, nella scrittura assolutamente piana, nell’andamento della storia e nella costruzione dei personaggi. La Collins non cerca di fare lezioncine sull’animo umano, sulla violenza, la morte, i giovani bla bla bla. Racconta la storia di questo gioco televisivo in cui i sorteggiati dei dodici distretti in cui è divisa l’America del futuro si massacrano fino a che non ne rimane uno solo. È una storia di avventura, in cui a un certo punto arriva il twist. Che è la parte astuta.
Perché da qualche parte la storia d’amore ce la devi mettere, ma non è detto che tu ce la debba mettere in modo banale. Così, la Collins gioca con gli incassamenti della storia nella storia, con il fatto che il reality/talent è sempre una finzione e… non mi va di anticipare cosa succede perché per me è stata la parte più interessante del libro come idea e come sviluppo. Semmani ne parliamo nei commenti.
È con questo guizzo che il libro diventa non un capolavoro ma un oggettino interessante che se fossi ancora all’università e avessi una tesina di sociosemiotica da proporre ci farei un pensiero.
Non credo che farò un pensiero, invece, sugli altri due volumi della trilogia perché mi piace immaginare conclusa lì la storia di Katniss, almeno la parte che poteva interessare a me.
Però è stato davvero una piacevole sorpresa, un po’ perché partivo da aspettative molto basse e un po’ perché è un piacevole prodotto di intrattenimento che si merita il successo che sta avendo.
A proposito di onestà, una cosa per cui nutro sempre sentimenti contrastanti è quando un editore riesce a vendermi dei libri facendoli passare per quello che non sono, per esempio dando a un saggio accademico l’aria di un divertente libretto divulgativo pieno di storie e aneddoti. È quello che hanno fatto le Edizioni Codice con Esploratori perduti di Stefano Mazzotti, che si propone di raccontare le storie, sconosciute ai più, delle spedizioni scientifiche italiane tra XIX e XX secolo. La copertina salgariana, in tutto lo splendore della cromolitografia ingrandita fino a diventare pop-art, e i paratesti fanno pensare a un volume scoppiettante dedicato alle vite avventurose e stravaganti di eccentrici individui alle prese con la sopravvivenza in ambienti ostili, magari raccontate con un filo di ironia (alla Bill Bryson, insomma). E invece no. Per lo più il libro di Mazzotti si concentra sulle conseguenze delle esplorazioni, sul loro apporto scientifico, sulle collezioni che hanno permesso di creare e che ancora oggi costituiscono l’ossatura di musei come quello di Storia Naturale a Genova (dove prima o poi devo fare una gita, quasi vent’anni dopo l’ultima) (mi accucciai per allacciarmi una scarpa nella sala del rinoceronte impagliato e… diciamo che il corno sul muso ha un gemello). Gli elementi avventurosi ci sono, ma sono sempre in sordina e non sembra che Mazzotti sia molto a suo agio con questo tipo di materiale. Certo, ci sono spunti eccezionali, come il viaggio che dovevano fare i campioni di animali dal cuore dell’Africa alle coste italiane, magari in vasi di vetro colmi di alcol, però purtroppo Esploratori perduti resta una specie di fonte per l’eventuale libro appassionante sulle vite di questa gente. Che spero qualcuno faccia in futuro.
A proposito di pagine poco note della storia patria, c’è il fatto che l’Italia ha vissuto, negli anni successivi all’unità, la curiosa situazione di fare quelle che oggi ci sembrano a tutti gli effetti delle guerre coloniali ma sul suo stesso territorio. Le più famose sono ovviamente le operazioni contro i “briganti” nell’ex regno Borbonico, ma fino ai primi anni del Novecento l’esercito italiano ha dovuto riportare la sovranità su parti del territorio che stavano sfuggendo di mano. È successo in Toscana ed è successo anche in Sardegna, dove nel 1899 venne mandato tra gli altri un giovane ufficiale fiorentino, Giulio Bechi, che raccontò poi quegli eventi in un libro dal titolo Caccia grossa, che già dovrebbe fare capire quale fosse l’atteggiamento verso gli “indigeni”. Il libro, nonostante la lingua inevitabilmente datata, è interessante soprattutto per la curiosità antropologica che Bechi mostra verso la società sarda, le sue usanze e la sua arcaicità, come mostra questo passaggio dedicato al pranzo matrimoniale:
Parte indispensabile del menu è poi il cosidetto prattu de brulla (piatto di burla) e consiste in vivande poco lusinghiere per il palato come ossa spolpate, sassi, pezzi di legno, di sughero, erbe spinose, ecc. Ad Orosei il piatto di burla che si presenta allo sposo deve contenere un bel paio di corna… credo bene contro la iettatura! A Sarule se l’invitato non si accorge subito dello scherzo e non è lesto a scaraventare il piatto nella schiena del servo che glielo presenta, deve dargli una mancia di mezza lira. All’arrivo quindi del prattu de brulla, è un volar di piatti da ogni parte addosso ai poveri servitori, i quali, svelti come scoiattoli, cercano di presentare a quanti più possono il loro piatto per buscarsi altrettante mezze lire.
Comunque, con tanti saluti all’inno di Mameli, gli italiani dell’epoca si sentivano tutt’altro che fratelli e le differenze economiche e sociali tra le regioni più ricche e quelle meno fortunate come l’entroterra sardo erano tutt’altro che trascurabili.
La prima edizione elettronica del libro (che è quella che ho letto io) era letteralmente impestata di errori: creata con l’OCR, non era stata evidentemente riletta. Informata della cosa, la casa editrice (e/o) ha provveduto a distribuire una versione corretta. Per fortuna gli ebook permettono questo genere di correzioni al volo (l’utente deve solo riscaricare il libro dal sito dove l’ha acquistato), ma comunque lo stato del testo messo in vendita era davvero pietoso e un pessimo segnale della faciloneria con cui certe operazioni vengono svolte. Speriamo che con il tempo cresca la cura dedicata dagli editori agli ebook.
…ed è la Sardegna la bellissima regione scelta come dimora dallo scrittore Massimo Carlotto, direbbe Mentana per riuscire a collegare il passaggio al prossimo titolo, che è La verità dell’Alligatore del suddetto Carlotto (avevo degli sconti sugli ebook e/o, non si vede?). Primo romanzo di Carlotto dopo l’autobiografico memoriale sulla latitanza, La verità dell’Alligatore ha dentro i temi dei libri successivi (sia con l’Alligatore sia senza), ma senza la lucidità e la padronanza della narrazione delle prove migliori (Arrivederci amore ciao su tutte). Il protagonista è una compiaciuta proiezione dell’autore, l’inserimento delle citazioni di brani blues è meccanico, il ritratto della provincia ricca annoiata e criminale è molto manicheo e sui personaggi femminili aleggia un’aria di misoginia parecchio sgradevole. Poi sì, la storia fila abbastanza e, salvo gli intoppi di cui sopra, si legge. Ma Carlotto ha fatto di meglio e qui l’inesperienza la paga tutta. Per completisti, come si dice in questi casi.
I sing of power, magick and faith…
Il fatto che il nuovo romanzo di Simone Sarasso si chiami Invictus mi permette di tirare fuori dall’armadio i Virgin Steele, anche perché nella vita dell’imperatore Costantino di potere, magia e fede ce n’è stata abbastanza. Vabbeh, forse non la magia. E forse la fede è stata più che altro uno strumento, ma il potere quello sì.
Pubblicato nella nuova collana low cost con cui Rizzoli cerca di andare dietro alla fortunata serie di libri a 9,99 € della Newton Compton, Invictus è strutturalmente un romanzo classicissimo, in cui seguiamo la vita del protagonista dall’infanzia alla morte, che dalla copertina sembra indistinguibile da quel fortunato filone (a giudicare da quanti titoli vedo in libreria) dedicato all’impero romano e ai suoi protagonisti. Il classico feuiletton da ombrellone?
Non credo; credo anzi che Sarasso abbia fatto andare almeno un paio di volte la granita di traverso agli estimatori-tipo del genere.
In linea con i suoi romanzi precedenti dedicati alla storia dell’Italia del dopoguerra (Confine di Stato e Settanta), Sarasso tiene l’obiettivo ben puntato sul lato sporco del potere, sulle cose che vanno fatte, sulla soldataglia, sul sangue. Il linguaggio mantiene il vezzo sarassiano del fare parlare i personaggi come in un action movie doppiato alla meno peggio, adattando però il vocabolario al periodo storico (per esempio, non compare mai la parola “puttana”, di origine medievale, per quanto il concetto sia reso con termini più consoni all’epoca) e farà sicuramente storcere il naso a quelli convinti che nei romanzi storici chiunque debba esprimersi con aforismi ben formati ed eloquenti. Qua persino i filosofi vanno a tabularie.
Nella prima parte del romanzo giganteggia la figura di Diocleziano: soldato, padre dell’impero, carismatico. Puoi quasi sentire il dispiacere dell’autore quando è costretto a lasciarlo da parte nel suo buen ritiro sulla costa dalmata.
Il periodo storico è generalmente poco noto e gli eventi piuttosto caotici, con quell’altalenare tra frammentazione e ricomposizione dell’impero, ma la ricostruzione è sufficientemente chiara senza voler essere didattica o didascalica.
Poi, certo, il tono sempre “d’acciaio”, sempre alla ricerca della frase d’effetto, un po’ sulla lunga tende a dare fastidio e in alcuni momenti avrei preferito forse che la voce dell’autore facesse un passo indietro. Ma nel complesso è un’epopea ben raccontata, potente, che nelle parti migliori ti investe con la forza di un maglio e ha qualcosa delle storie di Re Conan o di Kull scritte da R. E. Howard. Mi aspetto un prequel su Diocleziano, prima o poi…
Tutte le volte che mi tocca di parlare di un romanzo di Christopher Moore mi sento in dovere di dire la stessa cosa: “non sarà mai bello come Il vangelo secondo Biff“. Secondo me Biff è uno dei più bei romanzi comici degli ultimi vent’anni e forse di sempre, quindi se non l’avete letto…
Però poi non è che uno può sempre stare lì a rivangare il passato. Moore ha scritto anche degli altri libri che non sono Biff e che a volte sono anche parecchio belli. E’ il caso ad esempio di Sacré Bleu, ambientato tra i pittori impressionisti francesi, alla prese con un misterioso colorista e una donna bellissima che, di fatto, il colore blu. Un po’ fantasy (in senso lato, non nel senso di “ruba l’artefatto fine-di-mondo all’oscuro negromante re del male”), un po’ romanzo storico, parecchio romanzo umoristico, questo nuovo nato in casa Moore garantisce qualche ora di spasso, qualche insegnamento sulla storia dell’arte e dei colori, una divertente caratterizzazione di Toulouse Lautrec (praticamente protagonista del libro) che ogni tanto sconfina nel Tyrion Lannister più scanzonato. L’umorismo di Moore è sempre efficace e la storia ben congegnata e di ampio respiro.
Certo, non è un capolavoro come Biff ma… Ma ricorda comunque alcune cose di Tom Robbins, il che è un pregio non da poco.
Per qualche strano motivo, continuo a incocciare in romanzi più o meno storici. Two for Texas di James Lee Burke, infatti, ha il suo culmine nella battaglia di Fort Alamo, lo storico assedio dei texani da parte dei messicani finito con la vittoria di questi ultimi e la morte di due personaggi del vecchio west come Davy Crockett e Jim Bowie (inventore dell’omonimo coltello). Sarà che la storia inizia in una colonia penale nelle paludi da cui i due protagonisti riescono a fuggire fortunosamente, sarà il tono anti-eroico e la generale crudezza della narrazione e delle vicende, ma il romanzo mi ha ricordato le atmosfere della serie a fumetti Ken Parker. Ho fatto un po’ di fatica a finirlo perché in realtà non è così avvincente come ci si potrebbe aspettare dal soggetto e perché comunque ho una visione della Frontiera più spensieratamente avventurosa (alla Tex, per intenderci) ma è comunque un lavoro solido.