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Inaudito

È andata così, che a un certo punto quelli di Casa Pound e Forza Nuova si sono resi conto che si candidano alle elezioni possono accedere a tutte le condizioni di visibilità che lo Stato garantisce alle varie liste elettorali.
Siccome da anni un sacco di gente teoricamente non fascista ha, in buona o cattiva fede non importa, contribuito a legittimare queste formazioni come interlocutori (per esempio, Mentana, Formigli e Parenzo, ma anche un’estenuante serie di rappresentanti del Pd, tra gli altri), nell’opinione pubblicata è percolata la convinzione che le manifestazioni di chi si incazza all’idea di avere raduni di fascisti nelle proprie città siano sfoghi di intolleranza oppure espressione di “opposti estremismi”.

Nella stessa settimana, a Bologna è andata in scena la replica di Roberto Fiore che parla protetto dalla polizia nel centro di Bologna – era già successo a febbraio del 2018 e allora la polizia di Minniti usò gli idranti – e a Genova Casa Pound ha fatto il suo debutto in pubblico in una surreale situazione di ordine pubblico che ha portato a chiudere un’intera piazza per il raduno di una trentina di “fascisti del terzo millennio” – praticamente una festa privata offerta dal Comune, con servizio d’ordine a cura della Questura.
L’ovvia manifestazione di protesta, che si è svolta a ridosso di uno degli accessi alla piazza, protetti da reti, è finita con le cariche della polizia, che hanno allontanato i manifestanti nella piazza sottostante e poi li hanno caricati di nuovo – una dinamica che ricorda le brillanti strategie del G8 del 2001.
Qui è successo il fatto inaudito: in una di queste cariche è rimasto coinvolto un cronista di Repubblica – Stefano Origone – che, caduto, è stato circondato da alcuni agenti e picchiato a manganellate e calci, fino a che un vicequestore non lo ha riconosciuto e ha fermato il pestaggio (si è dovuto fisicamente mettere in mezzo ai picchiatori, tra l’altro, non è bastato richiamarli). Il referto parla di due dita rotte, una costola andata e lividi su tutto il corpo, tra cui l’impronta della suola di un anfibio sulla schiena.
Giustamente, Repubblica ha denunciato con forza l’accaduto, dedicando alla vicenda il titolo di prima pagina di venerdì 24 maggio, ci sono stati comunicati della direzione e del cdr.
Il questore si è prodigato in scuse (nella stessa dichiarazione in cui parla di un manifestante “ostaggio” delle forze dell’ordine da difendere da un tentativo di liberarlo, una terminologia che lascia intuire che abbiamo qualche problema), è partita un’indagine della Procura (che non rispetta direttive europee secondo le quali non puoi chiedere all’oste se il vino è buono, ma va beh), il signor Ministro dell’Interno ha detto che sostanzialmente non gliene frega un cazzo ed è colpa dei centri sociali (ormai entità astratte buone per ogni cosa).

Ovviamente, in tutto questo c’è un aspetto paradossale.
Non è certo la prima volta dal G8 genovese (per usare uno spartiacque simbolico ma non poi così significativo, considerato per esempio quello che successe al Global Forum di Napoli solo quattro mesi prima, con un governo “di sinistra”) che un corteo viene caricato dalle forze dell’ordine e persone inermi vengono picchiate anche (e soprattutto) se non pongono alcuna minaccia. Tra l’altro, ormai da anni non si vedono più cortei che abbiano una prima linea preparata a reggere l’urto di una carica, con protezioni, scudi o altro, quindi ogni volta che i media parlano di “scontri” le immagini che girano sono sempre quello di agenti in antisommossa che menano gente disarmata e indifesa – salvo qualche eccezione.
Se non fosse stato coinvolto un giornalista dipendente di una testata (e non quindi un freelance, che come dice questo articolo erano la maggioranza in piazza – e probabilmente nella professione) semplicemente staremmo parlando di “scontri”. Del resto, nello stesso video in cui si vede fermare il pestaggio di Origone è visibilissimo all’inizio un analogo pestaggio (di almeno tre agenti) ai danni di una donna, bloccata contro il muro, che probabilmente si interrompe solo perché era stato interrotto anche l’altro – ma fa a tempo a prendere due manganellate pure mentre se ne va.

Quindi, sì, abbiamo un problema, ma ce l’abbiamo da tempo. Spiace che per accorgersene una parte del giornalismo abbia dovuto aspettare che ne facesse le spese un collega, indebolendo così una denuncia che rischia di passare ora come una difesa corporativa.
Anche di fronte a scivoloni come questo:

Nell’articolo di Massimo Calandri dedicato a Origone su Repubblica del 25 maggio viene riportata una dichiarazione di Giovanni Toti, governatore della Liguria, piena di falsità. Non sono state incendiate auto (!) né tantomeno devastata la città (l’unico danno alla città l’hanno fatto i lacrimogeni della polizia rompendo la vetrina di un bar – ma in generale la retorica del “ferro e fuoco” per qualsiasi manifestazione è vomitevole) e, da come è detto, sembra che Origone l’abbiano menato i manifestanti.
Non so se sia sciatteria nel riportare le parole di Toti o se non ci sia fatto neanche caso, però è paradossale che mentre si denuncia un attacco all’attività giornalistica si faccia del pessimo giornalismo, al livello della propaganda leghista di un Rixi qualsiasi.

Quindi, sì, abbiamo un grosso problema con la gestione dell’ordine pubblico (anche perché se è vero come dice il signor Ministro dell’Interno che in antisommossa ci mandano gente che di solito fa tutt’altro, anche in situazione delicate come queste c’è di che avere molta paura), però ce l’avevamo da prima che massacrassero di botte un giornalista e, probabilmente, ce l’avremo anche dopo che saranno state punite cinque “mele marce”.

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Ponte

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Ponte è uno strepitoso racconto di Alan D. Altieri, incluso nella raccolta Armageddon. È un curioso caso di thriller ingegneristico, perché racconta della costruzione di, appunto, un ponte, che diventa un simbolo della lotta tra l’ingegno dell’uomo e le leggi della Natura (con complicazioni). Il titolo della raccolta in cui è inserito potrebbe darvi un’idea di come vada a finire.

Un ponte è, ridotto all’osso, una struttura molto semplice. Diciamolo con la Treccani:

pónte s. m. [lat. pōns pŏntis]. – 1. a. Manufatto di legno, di ferro, di muratura o di cemento armato che serve per assicurare la continuità del corpo stradale o ferroviario nell’attraversamento di un corso d’acqua, di un braccio di mare, o di un profondo avvallamento del terreno.

I ponti sono quel genere di cose che nella nostra vita diamo un po’ per scontate e della cui esistenza ci rendiamo conto quando ci mancano. Per esempio, io mi sono sempre domandato quanto ci mettano i veneziani di laguna a imparare la disposizione dei ponti a loro disposizione per muoversi da una parte all’altra della città.
Oppure, a Genova.
A Genova, forse lo avrete sentito, c’era un gigantesco ponte autostradale che scavalcava il fiume (torrente) Polcevera, appoggiandosi a un paio di condomini, e che permetteva agli automobilisti di attraversare la città senza doverci entrare. Il che, per una città lunga e stretta, ne converrete con me, era un bonus non indifferente.
Il 14 agosto, una parte di questo ponte, che quel giorno ho scoperto chiamarsi ponte Morandi, è crollata. Ha ucciso 43 persone, ne ha ferite non so quante e ha scaraventato Genova, suo malgrado, sul palcoscenico nazionale.
Dal 14 settembre, il riassunto è questo:

Come vedete, non passa quasi giorno che non si senta qualche proclama su questo belin di ponte da rifare. L’arrivo del concentratissimo Toninelli ha portato il tutto su un piano astrale folle, quello del ponte autostradale come luogo di incontro. Come il ponte di Galata (un quartiere, per inciso, costruito dai genovesi) sul Bosforo a Istanbul. Uguale.
Ora, non è che il principio non sia brutto. Sarebbe bello se la tragedia diventasse occasione per fare qualcosa di più bello di quello che c’era prima. Sarebbe anche bello se Genova potesse trasformare il caos del traffico che dal 14 agosto attanaglia il Ponente in un’opportunità per pensare un nuovo modello di viabilità cittadina, di utilizzo dei mezzi pubblici.
Sarebbe tutto bellissimo, ma intanto la cosa che va fatta più in fretta è costruire un altro ponte che svolga le stesse funzioni di quello che ora non si può più usare.
Mentre scrivo, sembra che lo scoglio delle coperture finanziare sia stato superato e che non manchi molto a un decreto che permetta di inandiare la ricostruzione.
Inandiare, non cominciare. Inandiare è un verbo del genovese italianizzato che significa, più o meno, “iniziare a preparare”. È un concetto molto genovese, con la sua piccola prudenza e seraficità.
Vedremo come andrà a finire, ma intanto vorrei ricordare una cosa che, mi pare, nessun commentatore ha finora ricordato.
Nell’archeologico V Day dell’8 settembre 2007, in piazza Maggiore a Bologna, si parlò di edilizia pubblica. C’ero (come spettatore più che come partecipante) e ci scrissi un post*, in cui ricordavo così la faccenda:

Tra gli interventi che mi sono piaciuti di più, quello di un architetto (Massimo Majowiecki) che denunciava come l’edilizia pubblica (ponti, edifici per istituzioni, ecc) si orienti su soluzioni di design arditissimo che, se da un lato possono dare lustro e fare tanto avanguardia, dall’alto costano uno sproposito perché è ovvio che se fai un ponte con i sostegni fuori asse farlo stare in piedi non è semplicissimo. Non ho nulla contro soluzioni di design avveniristico, però in effetti pagare un viadotto sei volte di più di quello che potrebbe costare perché un architetto fighetto ha deciso che la linea più breve per andare da A a B è una curva e non una retta, fa un po’ girare i coglioni.

(L’architetto era Massimo Majowiecki, che è presente tra gli intervistati dal New York Times nell’inchiesta sul crollo del ponte Morandi)
All’epoca, insomma, Grillo sembrava sostenere l’idea che un ponte serva per andare da A a B e non che sia una specie di polo multifunzionale (in mezzo al nulla).

Ma, di nuovo, quello che serve ora a Genova, e in fretta, è un ponte. Che risolva – con le conoscenze di quasi sessant’anni dopo – i problemi che avevano spinto l’ingegner Morandi a progettarlo in quel modo, con quei materiali e in quel punto.
Tutto il resto, le grandi opere che possano riqualificare pezzi di città, sono idee bellissime ma che non c’entrano nulla con un ponte autostradale che – per una sciagurata idea dell’epoca – passava sopra ad alcuni condomini civili.
Se ne siete capaci, fatelo nelle città che già amministrate.
Fatevi venire delle grandi idee per Roma, invece di gestirla come fosse Pavullo e annunciare trionfanti se avete riasfaltato una strada.
A Genova serve concretezza. E serve ora.
Volete dimostrare di sapere fare qualcosa o preferite prendervela con i poveracci (che tanto è a costo zero)?

 

* Nello stesso post scrivevo anche:

Più realisticamente, però, trovo inevitabile che da questo movimento nasca prima o poi una qualche forma di forza politica organizzato. Un partito, anche se a dirlo sabato in piazza si rischiava il linciaggio. A meno che qualcuno non decida seriamente di imbarcarsi in imprese disperate, l’unico modo per avere influsso sul sistema è entrare a farne parte, ci sono pochi cazzi. Prendete la Lega. Quando Bossi anni fa raccontava di avere fermato migliaia di valligiani bergamaschi pronti a scendere in armi contro Roma sicuramente raccontava una balla. Ma forniva anche un efficace racconto mitico (in senso classico) sul senso della Lega: un movimento nato sotto il segno dell’antipolitica che per far valere le proprie ragioni (chiamiamole così) si è costituito in partito e non si può dire che non si sia tolto le sue soddisfazioni.
Con buona pace degli idealismi, del radicalismo e delle grandi aspirazioni, secondo me lo sbocco naturale sarà questo (e del resto, come dice Serra, se raccogli firme per una legge…), con tutte le incognite e conseguenze del caso. Staremo a vedere che cosa ne verrà fuori, se qualcosa ne verrà mai fuori o se tutto si frantumerà al primo avvistamento della politica ufficiale.

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Alla mia generazione hanno sparato in faccia

Come ogni anno dal 2002, il 20 luglio veniamo presi per i capelli, trascinati in piazza Alimonda e ci strofinano il muso nel sangue di Carlo Giuliani, come si fa con i cuccioli di cane quando hanno fatto la pipì in casa.
Di anno in anno, sempre più resta in piedi una sola lettura della morte di Carlo Giuliani, quella che stacca completamente piazza Alimonda dal contesto di quella giornata, fa scomparire la carica del Tuscania contro un corteo autorizzato, fa scomparire i mezzi pesanti lanciati all’inseguimento delle persone, i pestaggi indiscriminati.
Come nella foto-simbolo, quella che il 21 luglio 2001 campeggiava in prima pagina su tutti i giornali, sono rimasti solo Carlo Giuliani, Mario Placanica, la pistola, l’estintore. Tutti schiacciati dal teleobiettivo in un unico piano che esclude la profondità e l’ampiezza della visione.

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Cominciamo bene

A Genova, l’avrete saputo, il candidato della destra ha vinto le elezioni comunali, la Lega è il primo partito e ora probabilmente manca solo che gli squali dell’acquario fuggano dalle vasche e inizino a sbranare gente per strada.
Del resto, una volta che diventa governatore della regione Liguria un viareggino che si occupava di Lucignolo e ha un’insana passione per i red carpet pagati con i fondi della società che dovrebbe occuparsi della digitalizzazione della pubblica amministrazione tutto è possibile.
Persino che ritorni il basilisco. Non so se sapete la storia: alla fine del IV secolo a Genova si insedia un basilisco, che è una bestiaccia un po’ gallo e un po’ serpente che ammorba l’aria con il suo fiato velenoso. Allora Siro, allora vescovo e non ancora santo, lo convince dopo tre giorni di preghiera e digiuno ad andarsene dal buco in cui viveva e tuffarsi in mare. Ecco, è un po’ di tempo che ogni tanto si sente una forza puzza, anche in centro. Una volta hanno anche evacuato il palazzo della Regione.
Io non ho detto niente.

Comunque.
Succede anche che qualcuno vada a sbirciare sul profilo Facebook del neo-eletto presidente di uno dei Municipi cittadini, Francesco Carleo, carabiniere in congedo, e ci trovi roba di questo di tipo (scusate il Mascellone):

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Ovviamente c’è una tale quantità di asinerie che verrebbe quasi da pensare che sia una trollata, ma è in compagnia di una sacco di altre fascistate da mani nei capelli.

Allora ci fa un articolo che esce su un sito locale.
Succede poi che Ferruccio Sansa, giornalista e figlio di un ex sindaco di Genova, rilanci sulla propria pagina Facebook la notizia.
Domenica sera, Sansa va al comitato elettorale di Bucci (il candidato sindaco della destra) a fare il suo lavoro e si verifica un simpatico siparietto che lui racconta così:

Fai un altro passo ed ecco un gruppo di persone che appena ti vede dice: “Sento puzza di merda. Fa schifo lui come suo padre. Non provare ad avvicinarti!”.

Scusi, dite a me?, provi a chiedere. Ma loro con la vigliaccheria che contraddistingue da sempre la mentalità fascista piegano lo sguardo verso terra. “Dicevamo solo che c’è puzza di merda”.

Poi altri insulti, da voci che subito si nascondono: “Merda, infame, venduto”.

A un certo punto si becca anche un “giornalaio”, che è il tipo insulto che la gente analfabeta rivolge ai giornalisti (perché essendo analfabeta non sa che le edicole sono il pilastro della civiltà e i giornalai andrebbero portati in palmo di mano).
Nel frattempo, ovviamente, il profilo Facebook di Carleo è stato bonificato e ora si vede solo una sua foto datata 25 aprile in compagnia della Meloni, a suo modo significativa.

E niente, Genova è in questa mani qua.
Il Coisp (belle merde) già si dichiara pronto ad andare a sradicare il cippo di Piazza Alimonda che ricorda che una volta lì è morto uno e, insomma, va tutto benissimo.

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Gatto e Libertà. Una storia dello Spadaccino

GattoLiberta

Alla fine Gatto e Libertà, la terza avventura dello Spadaccino (di cui forse avete sentito parlare) è uscita.
Si svolge tra il 1546 e il 1547, con una parentesi nel 1540; nella cronologia delle storie pubblicate finora sarebbe la seconda avventura, tra Colei che Canta e L’Isola del Teschio.
È una storia più lunga delle altre, circa il doppio, e contiene alcuni elementi del romanzo storico: ci sono personaggi realmente esistiti tra i suoi personaggi e parte della vicenda è collegata a un fatto piuttosto importante nella storia genovese, la Congiura dei Fieschi. Oltre a questo, c’è ovviamente una componente sovrannaturale e si racconta anche qualcosa sul passato dello Spadaccino.
Se avete letto i miei post di un paio di estati fa sulla Liguria, Terra leggiadra, potreste ritrovare alcune cose familiari.
Ecco intanto un assaggio: l’azione si svolge in Corsica, nel 1540.

I due genovesi furono gli ultimi a uscire dalla taverna.
Il vino aveva sciolto la lingua dello spadaccino e aveva barattato i racconti delle sue avventure nel mondo con i resoconti di quello che era successo a Genova negli ultimi anni. L’uomo con il cappello sembra sapere molte cose della politica cittadina.
La notte estiva era tiepida e profumata, il cielo sgombro di nuvole un tappeto di stelle.
La taverna di Ghjuvan era poco più in alto dell’abitato, sperata da un viottolo che correva tra i campi.
“Anche tu hai una bella spada, ragazzo mio,” disse lo spadaccino. “Deve esserti costata un sacco.”
Quello scrollò le spalle. “Il giusto.”
“Spero che tu la sappia anche usare bene, perché credo che ne avremo bisogno.”
I pisani. Sette di loro erano schierati sulla strada, in un semicerchio. Li aspettavano, armati di coltellacci.
“Avete la lingua lunga, genovesi,” disse uno di loro.
“O forse siete voi che avete le orecchie lunghe,” ribatté l’uomo con il cappello, così svelto che un paio di pisani risero senza pensarci.
“Zitti, idioti!” disse uno di loro, un po’ più sveglio dei compari.
I genovesi sguainarono le spade. L’uomo con il cappello proseguì: “È questo l’amor proprio dei figli della seconda Roma? Vi si dà dei conigli e ridete?”
Lo spadaccino girò lentamente su se stesso: i pisani li stavano accerchiando. Si trovò schiena contro schiena con il compagno. Sfoderò anche il pugnale, che sarebbe stato utile per parare. Il suo compagno fece lo stesso. Pensò che fosse un peccato non avere a disposizione una pistola, poi non ci fu più tempo per pensare.
Gli assalitori avevano il vantaggio del numero, i due genovesi armi più lunghe con cui potevano tenerli a distanza, o almeno provarci. Al primo assalto lo spadaccino rimediò un lungo graffio sul petto, il suo compagno un colpo di striscio alla gamba destra. Ma a due pisani era andata peggio: uno aveva ricevuto un colpo alla mano che gli aveva quasi segato il polso fino all’osso, l’altro, infilzato al basso ventre dallo spadaccino, si contorceva a terra in un lago di sangue. Gridava come un maiale scannato.
“Bastardi,” urlò uno dei pisani prima di guidare un nuovo assalto. L’acciaio danzò di nuovo, levando scintille, strappando vesti e carni, spillando sangue. Lo spadaccino uccise un altro avversario, lo stesso fece il suo compagno. I tre pisani rimasti in piedi, più quello con il polso devastato, si guardarono. I due genovesi sorridevano, sporchi ed ebbri di sangue, mentre loro erano feriti, ubriachi e spaventati.
Al diavolo, si dissero. L’onore di Pisa non valeva le loro vite.
Senza dire una parola, scapparono a gambe levate. Lasciarono lì il loro compagno ferito.
I due genovesi si guardarono. “È spacciato,” disse l’uomo con il cappello. “Può solo morire dissanguato.”
“No!” urlò l’uomo a terra. “Non è vero, aiutatemi, aiutatemi! Posso…”
“Shhh,” disse l’uomo con il cappello. “Come ti chiami, pisano?”
“Rainaldo, signore, Rainaldo di Guastaldo, vi prego, portatemi da un cerusico, vi prego.”
“Chiudi gli occhi Rainaldo. Abbandona la tua anima e muori in pace.”
“No, signore, no, vi prego, vi pre…”
Lo spadaccino distolse lo sguardo quando la lama affondò nella gola di Rainaldo. “Pace all’anima tua, Rainaldo di Guastaldo,” disse il suo compagno.
L’uomo con il cappello pulì la lama con un pezzo di stoffa. “Sai che cosa temo di più? L’agonia. Spero che se mai capiterà a me ci sarà qualcuno a porre fine ai miei tormenti.”
Lo spadaccino annuì. “Combatti bene per essere uno con dei batuffoli di cotone al posto della barba.”
“Attento.” Puntò la lama alla gola dello spadaccino. “Sono molto suscettibile sulla mia barba.”
Lo spadaccino mise via la sua spada e alzò le mani. “Come non detto. Però combatti bene lo stesso.”
“Ho avuto un buon maes… Attento!”
Lo spadaccino si voltò di scatto. Non vide niente. Poi qualcosa di duro cozzò contro la sua nuca. “Ma cosa…?” fece appena in tempo a dire. Poi fu tutto nero.

(volevo dire che comunque ho molti amici pisani)

Con Gatto e Libertà porto finalmente a termine il progetto originario, che era quello di avere tre titoli da pubblicare a breve. Colei che Canta era quasi finito quando pubblicai L’Isola del Teschio, pensavo di riuscire a scrivere un terzo episodio in fretta e invece c’è voluto più tempo del previsto. Ci sono state due false partenze, una poi confluita in questa storia, un’altra da riprendere da capo.

Gatto e Libertà è disponibile sul kindle store al prezzo di 1,50 € (gratis per chi ha sottoscritto il programma Kindle Unlimited)
È necessario avere un Kindle per leggerlo?
No.
L’applicazione Kindle è disponibile per tablet e telefonini Apple, Android, Windows e Blackberry oltre che per computer (ma non per Linux).
Inoltre, il file è privo di DRM e può essere convertito in ePub usando Calibre per poterlo leggere su e-reader che non siano Kindle.

Non posso prevedere quale sarà il prossimo racconto dello Spadaccino. Sto leggendo cose sull’epoca dei Conquistadores e sui monasteri cristiani nel Medio Oriente, tanto per capire che cosa può ispirarmi. L’idea è di tornare all’avventura pura dell’Isola del Teschio, ma non si può mai dire.

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Nuove notizie dallo Spadaccino

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La terza storia dello Spadaccino, che si chiamerà “Gatto e Libertà“, è quasi pronta.
La stesura del testo è finita e ora si tratta di dargli gli ultimi ritocchi, scrivere un po’ di note di chiusura e preparare la copertina. Resta sempre un bel po’ di lavoro, ma meno faticoso che quello che c’è stato finora.
Intanto, alcuni aggiornamenti:

– per chi usa Facebook, c’è una pagina, Storie dello Spadaccino, che raccoglie notizie e curiosità.

-Credo di avere trovato un volto definitivo per lo Spadaccino: non più Joey DeMaio ma Enzo Cilenti, attore inglese di origini italiane. Cilenti interpreta il ruolo di Childermass nella serie BBC Jonathan Strange & Mister Norrell (tratta dall’omonimo romanzo di Susanna Clarke) e in quei panni è praticamente perfetto per interpretare lo Spadaccino.

enzo_cilenti– La storia nuova è lunga circa il doppio dell’Isola del Teschio ed è ambientata per lo più all’inizio del 1547 tra Genova e il suo entroterra (con un flashback al largo della Corsica nel 1540). E’ la prima volta che mi cimento con qualcosa che confina parecchio con il romanzo storico, mettendo in campo come personaggi alcune persone realmente esistite. La parte più complicata è stata decidere come fare interagire lo Spadaccino con un evento storico. Davanti c’erano diverse possibilità, alla fine ho scelto l’opzione che se da un lato mi legava di più le mani dall’altro mi impediva di svaccare. In un’altra parte della storia, invece, ho barato e ho inventato un posto in cui fare accadere con una cinquantina d’anni di anticipo cose accadute per davvero da un’altra parte. La differenza in questo duplice modo di trattare degli eventi storici sta nel fatto che il primo è un fatto con alcune grosse ripercussioni sulla storia cittadina ed europea, il secondo in realtà poco più – oggi – che una macabra nota a piè pagina dei libri di storia. Se tutto va bene, questa storia potrebbe dare vita a una specie di seguito ambientato ai giorni nostri, se mai riuscirò a finire di scriverlo.

– Per chi usa Goodreads, sia L’Isola del Teschio sia Colei che Canta sono stati inseriti sul sito e possono essere recensiti e commentati pure lì (oltre che su Amazon, se già non l’avete fatto)

Per ora è tutto.

Gatto! Gatto e Libertà!

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Bonelliana, febbraio 2015 (Adam Wild, Dampyr, Dylan Dog, Tex, Julia, Ringo, Le Storie)

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Provo a ridare vita a una rubrica regolare: nasce oggi Bonelliana, che si occuperà degli albi Bonelli letti nel mese passato.
Perché solo i Bonelli? Perché ne leggo diversi, da quasi quindici anni, e trovo interessante la fase nuova che si è aperta nella casa editrice dopo la morte di Sergio Bonelli (a proposito, qui si può scaricare l’ebook collettivo che assemblai su di lui).
Quindi è una roba un po’ da fanboy. Astenersi “i fumetti Bonelli sono tutti copiati”, “Dylan Dog è finito con il numero 100”, “Kit Carson mica era quello lì” e via dicendo.

Copertina di Darko Petrovic

Copertina di Darko Petrovic

Adam Wild 5, “La terza luna”
(Gianfranco Manfredi – Antonio Lucchi)

In appena due numeri, AW è diventato una delle mie serie irrinunciabili. Dopo la pesantezza di Shangai Devil, Manfredi ha azzeccato un personaggio sopra le righe, che riesce a essere il classico eroe tutto d’un pezzo senza sembrare anticaglia da museo. Merito probabilmente della cura con cui è ricostruita l’Africa ottocentesca e del cast di comprimari, su cui spicca il nobile italiano Narciso Molfetta, figura che come già Poe in Magico Vento esula dai tipici doveri della spalla bonelliana senza però distaccarsi completamente da quel ruolo. Per farla breve, questo quinto numero conferma quanto di buono visto finora: una storia lineare ma trascinante, cattivi facilmente identificabili, azione, violenza e nozioni storiche. Ai disegni, Lucchi si produce in un esordio poderoso e dinamico, forse fin troppo: il suo stile si distacca da quello più realistico visto finora nella serie e avrebbe fatto faville su una serie più “guascona” come Long Wei.
Però niente da dire: we want more.

adam 3 Continua a leggere

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Gatto e libertà – Notizie dallo Spadaccino

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Una delle cose più fighe che ho fatto nel 2014 è stata pubblicare due ebook su Amazon.
L’isola del Teschio a fine agosto e, un mesetto dopo, Colei che canta.
Era la prima volta che mi esponevo così come scrittore e devo dire che l’esordio è stato elettrizzante. L’isola del Teschio è piaciuto, ha delle buone recensioni su Amazon (e anche fuori) e ci sono possibilità di sviluppi interessanti. Il seguito (che in realtà è un prequel) ha avuto un impatto minore, ma anche lui si è guadagnato una recensione di tutto rispetto.

Mi sono incagliato sul terzo episodio.
Dopo due false partenze (una storia ambientata in Germania e una in Egitto) ho deciso di dare il via libera a una storia che pensavo di affrontare più avanti perché, sulla carta, molto più complicata di una semplice storia con il “mostro della settimana”. Invece, mi sono reso conto che questa storia che mi faceva paura era invece più facile da approcciare delle altre due e, per giunta, più facile da fare rientrare in quello che voglio sia il mood delle storie dello Spadaccino: non un fantasy storico ma storie di orrore sovrannaturale in cui l’irruzione del fantastico sia per certi versi vista, per quanto inevitabile, come una rottura dell’ordine naturale delle cose. Uno dei motivi per cui non so bene come riprendere un filone aperto nella storia viennese, tra l’altro.
Comunque.
Anche questa storia più facile è in realtà piena di insidie. Al momento il file “Spada 3 – scarti” è abbastanza lungo e contiene scene scritte ma che non andavano da nessuna parte, tenute da parte nella speranza di potere riciclare qualcosa. Dice: “Ma non potevi farti una scaletta prima di iniziare?” Certo, l’ho fatto, Ma quello che funzionava sulla scaletta non funziona messo in pagina, anche perché avere per scelta un protagonista cinico e disilluso non aiuta molto a fargli, per esempio, prendere parte delle parti in una questione politica.
Alla fine, però, credo di avere trovato la strada giusta e con un po’ di fortuna dovrebbe portarmi a destinazione.

Cosa ci sarà in questa nuova storia (che per ora si chiama “Gatto e libertà”)?
Ve lo dico per immagini.

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Caro Sergio

copertina di Tex 347, Ombre Cinesi. Disegno di Claudio Villa

Caro Sergio,
non ci conosciamo. Abbiamo brevemente chiacchierato di Tex all’inaugurazione di una mostra di fumetti che faceva parte della tua campagna elettorale nelle comunali bolognesi. Qualche tempo dopo, quando facevi il sindaco di Bologna e io lo stagista in un giornale, l’unica volta che mi mandarono a Palazzo D’Accursio, ti ho visto scambiare due battute con i cronisti e ho notato sorridendo che nella mazzetta dei giornali avevi l’ultimo Tex.
Insomma, non ci conosciamo ma ti do del tu perché tra gente che legge Tex ci si dà del tu.

Ti vorrei raccontare una storia, se hai due minuti. Secondo me li hai.
Qualche anno fa, era il 2009, tu non facevi più il sindaco di Bologna e io facevo lo scrutatore a Genova, per le elezioni europee. Ero in un piccolo seggio in una porzione particolarmente anziana e “rossa” di Genova, una città che, ormai lo saprai, è di suo parecchio anziana e parecchio “rossa”. Eravamo, come sempre capita ai seggi, una buffa squadra: c’ero io, c’era una ragazza che (CARRAMBA) era in classe al liceo con mio fratello minore, c’era un ragazzo che (CARRAMBA) era al liceo con me in un’altra sezione. E poi c’era un bizzarro über-italiano ultraquarantenne che viveva con la madre, non capivamo bene che lavoro facesse, stava con una ballerina dell’est ma odiava gli immigrati. Questo si era pure portato il computer e una chiavetta della 3 e di tanto in tanto si metteva a navigare. A un certo punto era andato a vedere il programma di Forza Nuova, poi è entrato qualcuno e lui è corso al tavolo a registrare i dati lasciando in bella vista il computer con su la schermata di Forza Nuova. Una delle sere mi ha chiesto se volevo un passaggio in auto per tornare a casa e sono tutt’ora convinto che se avessi accettato sarebbe finita tipo Il sorpasso di Dino Risi. Ma questa è un’altra storia.
Presidente di seggio era una signora, madre del ragazzo mio compagno di scuola, sulle prime molto cordiale. Si era portata da casa la macchina della Nespresso, per dire.
Poi questa signora ha iniziato a diventare un po’ inquietante.
Quel seggio era il “suo” seggio. Faceva la presidente lì da eoni. Senza problemi, ci raccontava di essere un’attivista del PD, aveva tutta una serie di reti di conoscenze a livello di quartiere per delle robe di orti per pensionati. Conosceva tutti quelli che venivano a votare.
Anziani, per lo più.
Come sempre, a passare tutto quel tempo insieme, finisce sempre che la gente si apra più di quanto sarebbe necessario. Quindi, oltre a sapere tutte le sue vicende famigliari (che francamente ne avrei anche fatto a meno), a un certo punto ho saputo che tutti i “suoi” vecchietti venivano a votare con il “santino” che lei aveva distribuito.
Immagino, Sergio, che tu sappia cosa sia il “santino”: è quel foglietto, tipo un biglietto da visita, che ricorda all’elettore come deve votare, quali preferenze indicare. È una roba un po’ antipatica, perché se c’è la lista e ci sono le preferenze l’elettore dovrebbe votare secondo coscienza e non secondo il partito.
Comunque, mi ha fatto vedere uno di questi santini.
Quando abbiamo iniziato a fare lo spoglio delle schede, oh, tu non hai un’idea di quante fossero le schede che votavano la lista del PD indicando esattamente quelle preferenze lì. E, lo avrai capito, il nome in cima alla lista era il tuo.
Non penso di starti rivelando chissà cosa. Lo sapevi tu per primo che il PD genovese era ben felice di mandarti al Parlamento Europeo per togliere di mezzo un ingombrante personaggio. Più o meno come altri erano ben felici di mandarti a fare il sindaco a Bologna per evitare che interferissi troppo con le sorti del PD nazionale.
A Strasburgo, una promozione che sa di rimozione (oltre che, lo dicevi anche tu, ottimo impiego part-time per potere seguire da vicino il tuo ultimo figlio), ci sei andato anche grazie a chissà quanti vecchini intruppati con il santino con il tuo nome in tasca. Vecchini che a me non sembrano così diversi dagli immigrati che, nella tua visione del mondo che già ci ha regalato l’indimenticabile racket dei lavavetri bolognesi, sarebbero andati a votare la tua avversaria in cambio di soldi. Oh, poi magari hai ragione tu, vallo a sapere. Però, ecco, io di quel giorno ai seggi mi ricorderò sempre perché mi ha insegnato una cosina o due sulle magagne del meccanismo elettorale.

Ma poi, forse, Sergio, non è nemmeno colpa tua. Sono le primarie che proprio non vanno. Guarda che teatro che è scoppiato a Modena quando hanno fatto quelle per il sindaco (sono modenesi, sono matti, se hai abitato a Bologna dovresti saperlo, ma tant’è…). Io una volta ho pure votato, a delle primarie. Per Scalfarotto, fai te. Però, più ci penso, più mi sembra assurdo che un partito o una coalizione possa pensare di demandare le sue scelte non ai suoi tesserati (come sarebbe logico, no?) ma, letteralmente, al primo che passa per strada e ha due euro che gli ballano in tasca. Secondo me dovreste pensarci un po’ bene, a questa cosa qua. Poi fate voi.

Comunque, chiudendo, lascia perdere. È andata così.
Bisogna saper perdere.
Non sempre si può vincere.
Non siamo mica tutti Tex.

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Terra leggiadra. Due giorni in Liguria 1: My name is Prince

La domanda è: dopo i 15 post per 15 giorni in Polonia, quanti post scriverò per due giorni in giro per borghi e paesi in Liguria?

Si chiama, in inglese “staycation”, da stay+vacation, cioè grossomodo “casanza” o “caseggiatura” o “vacasa”: fare le ferie a casa o poco lontana da essa, con viaggi di uno o due notti fuori. È la formula che abbiamo scelto quest’anno, in attesa del Grande Viaggio di novembre (e lì altro che 15 post, temo).

Tipico residente di Spotorno in spiaggia.

La cosa era nata con “andiamo un giorno a vedere Triora” e si è trasformata in un viaggio da sei paesini, più grotte, in meno di 36 ore, tutti nel Ponente ligure.
Per me, genovese, il Ponente è una terra misteriosa che inizia da dopo Albisola, probabilmente popolata da gente con la faccia sullo stomaco, altri con un solo grande piede che probabilmente usano per farsi ombra quando si sdraiano sulla schiena, credo governata dal Prete Gianni o da Pippo Baudo assiso sul suo trono di ossa umane nei sotterranei del teatro Ariston. Dove poi a un certo punto ti trovi, di tutti i posti al mondo, in Francia. Per dire, per anni ho creduto che “Spotorno” fosse un nome buffo inventato, un po’ come Poggibonsi. Poi ho scoperto che esistevano davvero entrambi.

claude-monet-dolceacqua

Quella che vedete ritratta qui sopra da un vedutista di belle speranze, un tale Monet di cui forse avrete sentito parlare, è Dolceacqua, prima tappa del nostro viaggio dal nome tolkieniano (in una provincia con un nome mussoliniano).
Ai piedi del castello medievale si arrampica lungo il colle il centro storico, un borgo fatto di strade strette, spesso coperte dai collegamenti tra un palazzo e l’altro, su cui si aprono le porte di botteghe e bottegucce. Oggi un’architettura del genere è un piccolo paradiso per gli amanti dei bei tempi andati (e dell’ombra), all’epoca della sua realizzazione era un incubo per qualsiasi esercito assalitore, che si trovava costretto ad avanzare per stretti budelli prima di riuscire di arrivare ai portoni del castello. In pratica, un bel live action tower defense.
Il castello in cima sarebbe anche visitabile, ma la ragazza ci dice che metà delle sale sono chiuse per restauri e che, insomma, il gioco non vale la candela.
Ci consoliamo con la michetta, un dolce tipico del paese (un maritozzo, più o meno), dalla storia bizzarra. Vuole infatti la leggenda che sia stato creato per la prima volta nel 1300 dopo che al malvagio marchese Doria che dominava la città era stata estorta con un pugnale alla gola l’abolizione dello jus primae noctis. C’era di mezzo una bella popolana, Lucrezia, che di farsi vidimare dal nobile proprio non ne voleva sapere e alla fine prima tentò il suicidio lanciandosi da una finestra poi, rinchiusa si lasciò morire di fame e sete (di solito si muore di sete, per la cronaca). Il fidanzato allora si intrufolò nel castello e come detto riuscì a ottenere l’abolizione dell’odioso privilegio; per festeggiare, le donne del paese crearono un dolce che, dicono, dovrebbe avere la forma del sesso femminile.

Impastando la farina con uova, zucchero ed olio crearono varie forme , sicchè una di loro, la più smaliziata individuò in una delle sagome di pasta un’evidente allusione al sesso femminile ed esclamò: «Sachì le che che ghe va (questa è quella che ci vuole), la chiameremo “michetta”»
Preparato l’impasto e cotte si precipitarono in piazza gridando: «Omi, au, a michetta a damu a chi vuremu nui (uomini, adesso la michetta la diamo a chi vogliamo noi)»

Forse l'anatomia delle donne del ponente ligure nel XIV secolo era un po' diversa da quella delle donne attuali

Forse l’anatomia delle donne del ponente ligure nel XIV secolo era un po’ diversa da quella delle donne attuali.

Abbandonata Dolceacqua ancora dubbiosi sulla forma delle michette che abbiamo portato con noi ci dirigiamo all’estero, verso un piccolo principato ricco di legami con l’Italia.
Montecarlo, diranno i miei piccoli lettori.
No.
Seborga.

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L’esistenza di Seborga, o meglio la sua pretesa di indipendenza dall’Italia, è sempre stata per chi scrive una grande fonte di meraviglia.
Seborga, sostengono gli indipendentisti, non avrebbe mai fatto parte del regno di Sardegna e quindi la sua annessione al regno d’Italia sarebbe stata priva di valore. Dal 1963 Seborga ha anche un principe (eletto), batte moneta, emette francobolli, passaporti, targhe automobilistiche e patenti di guida, che hanno all’incirca lo stesso valore legale dei Disney Dollars con cui puoi cambiare i dollari nei parchi Disney.

Nei negozi trovi cartelli così.

Nei negozi trovi cartelli così.

Una delle poche affermazioni di indipendenza dall’Italia citate dai seborghesi è attribuita a Mussolini, che nel 1939 scriveva:

il Principato di Seborga non appartiene all’Italia.

Considerato che all’epoca diceva lo stesso degli italiani di origini ebraica non mi sembra un argomento molto spendibile.
Comunque la questione dell’indipendenza di Seborga è un po’ più articolata, anche se abbastanza improbabile; una lista delle argomentazioni si trova qui. Ovviamente c’entrano i templari e ovviamente si citano “eminenti storici inglesi” (quali?).

Fatto sta che oggi, come la strada provinciale entra nel territorio del comune di Seborga trovate una garitta con dentro un signore in uniforme (basco, camicia azzurra, pantaloni bianchi e anfibi) che vi fa un cenno di saluto. In segno di disprezzo per le leggi dell’oppressore italiano io gli sono involontariamente passato davanti senza cintura di sicurezza (ma tanto ha meno poteri del sorvegliante di un grande magazzino). La strada, tra l’altro, finisce a Seborga e proprio davanti a un busto di Umberto I, evidente provocazione sabauda contro gli abitanti del luogo.
Folklore a parte, Seborga è un borgo piccolissimo arroccato in cima a un colle da cui si gode una vista straordinaria sul mare e sulla vallata sottostante. Si gira a piedi in credo cinque minuti, poi si possono visitare la chiesa, il negozio dei souvenir; c’è anche un palazzo del governo, che più o meno condivide le funzioni dell’ufficio informazioni turistiche.
Ci sono un paio di ristoranti, uno in una corte molto bella, tira un bel venticello e c’è almeno un gatto molto socievole.
E poco altro.
Gli indipendentisti seborghini sono stati molto bravi a creare curiosità su di un posto che senza questo bizzarro passaparola sarebbe forse rimasto al di fuori dei giri turistici; curiosamente la questione dell’indipendenza nasce (o rinasce) infatti negli anni ’50, in concomitanza con l’apertura della strada rotabile che unisce Bordighera a Seborga…

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