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Ritagli

Una delle cose più pratiche che permette di fare un e-reader è sottolineare i testi e avere poi a portata di mano tutti i passaggi che si vogliono conservare.
Di seguito, una piccola raccolta di sottolineature, senza un particolare filo conduttore, tra saggi e narrativa, dagli ultimi tre anni circa di letture.

Alberto Grandi, Denominazione di origine inventata
Questo è il paese nel quale due tra le regioni più ricche del mondo, il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia, si fanno la guerra per stabilire la paternità del tiramisù, dove politici di levatura nazionale scendono in campo come cavalieri medievali per difendere l’onore di una salsiccia o di un formaggio. C’è qualcosa di medievale, in effetti, nell’impegno profuso da ogni singolo comune per ottenere una qualche forma di riconoscimento al suo prodotto locale. Quasi che i prodotti tipici siano “le sacre reliquie del Ventunesimo secolo, il pane di grano arso venerato come il braccio di Sant’Antonio, la colatura di alici come il sangue di San Gennaro, le strade del vino come il cammino dei pellegrini, la lotta per la Dop come l’ultima crociata”

Anatolij Kuznecov, Babij Jar (trad. Emanuela Guercetti)
Era in corso una fantastica guerra con la Polonia. Hitler da occidente, noi da oriente – e fine della Polonia. Naturalmente, per salvare le apparenze la chiamammo «liberazione dell’Ucraina Occidentale e della Bielorussia», e appendemmo manifesti dove una specie di servo della gleba tutto lacero abbracciava un valoroso liberatore dell’Armata Rossa. Ma così si usa. Chi invade è sempre il liberatore da qualcosa.

I sistemi della menzogna e della violenza hanno scoperto e sfruttato brillantemente un punto debole dell’uomo: la credulità. Il mondo va male. Si presenta un benefattore con un progetto di radicali cambiamenti. Secondo questo progetto oggi sono necessari sacrifici, ma in compenso sulla linea del traguardo sarà garantito a tutti il paradiso. Qualche parola incendiaria, una pallottola alla nuca per gli increduli – ed ecco già folle di milioni in preda all’entusiasmo. Una cosa incredibilmente primitiva – ma funziona!

Lawrence Wright, Dio salvi il Texas (trad. Paola Peduzzi)
La Humane Society degli Stati Uniti ritiene che ci siano più tigri che vivono in cattività in Texas che le tremila che vivono allo stato brado.

C’è un antico detto che dice che la ragione per i cui i battisti non avvitano nulla stando in piedi è perché qualcuno potrebbe pensare che stiano ballando.

Sfinita dal trattamento spietato riservato alle donne, Jessica Farrar, deputata liberal di Houston, introdusse la legge 4260, il Man’s Right to Know Act, usando lo stesso linguaggio paternalistico “lo faccio per il tuo bene” che caratterizza le molte norme riguardo all’aborto e alla salute delle donne – richiedendo per esempio un’ecografia e un esame rettale prima di prescrivere il Viagra.

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Legittima difesa – marzo 2012

As usual, i libri letti nel mese di marzo; in cui si scopre che il 1912 è stato un anno interessante per la narrativa fantastica.

More about John CarterJohn Carter, il film della Disney, è stato un naufragio clamoroso ai botteghini. Tanto che non ho fatto neanche in tempo a vederlo. In compenso, la sua uscita ha riportato nelle librerie e in edicola i romanzi di Edgar Rice Burroughs del “ciclo marziano”, che sono a tutti gli effetti i progenitori della commistione avventurosa tra “fantasy” e “fantascienza” da cui discendono cose come il ciclo di Tschai di Jack Vance, Star Wars e, perché no, He-Man.
John Carter, pubblicato da Urania Collezione, è non solo il primo romanzo della serie ma il primo romanzo di Burroughs (la cui creazione più famosa è sicuramente Tarzan, che rispetto a John Carter ebbe la fortuna di venire trasposto in pellicola già agli albori del cinema), la cui prima puntata apparve su una rivista pulp giusto un secolo fa. La storia è quella di un soldato dell’esercito confederato che si ritrova trasportato sul pianeta Marte (Barsoom per i nativi) e lì, dopo un inizio come schiavo, si fa notare per la sua abilità di guerriero (aiutata dal fatto che la gravità marziana e meno forte di quella terrestre, il che gli conferisce grande forza e la possibilità di fare balzi prodigiosi) prende parte allo scontro tra due delle razze di alieni (i verdi e i rossi), si innamora di una principessa locale, probabilmente salva i suoi alleati dalla distruzione (il romanzo si interrompe qui). Tanto per non farsi mancare niente, i primi capitoli, ambientati sulla Terra, sono western puro e semplice.
Purtroppo, al di là dell’indubbio valore storico di questo romanzo nel campo del fantastico, ho trovato che il tutto sia invecchiato non benissimo e che le ingenuità e le scorciatoie (Burroughs sembra ricordarsi dei super-poteri di Carter solo quando gli fa comodo) oggi appaiono poco digeribili; o forse la situazione di lettura ideale di questo libro è quella in cui a suo tempo lessi Tarzan, vale a dire sotto l’ombrellone, tra un bagno e un morso di focaccia.
Sospetto però che si sia anche un problema editoriale dietro.
La collana “Urania Collezione” era nata per fornire edizioni dignitose e complete di titoli storici usciti nella collana in epoche in cui i romanzi di Urania potevano venire tagliati a discrezione dei curatori per farli rientrare nella foliazione (succede ancora oggi, per la cronaca) (ma se lo andate a dire sul blog di Urania siete dei provocatori  e vi bannano), in traduzioni se non completamente rifatte quantomeno “rinfrescate”, come si dice in gergo. Poi deve essere successo qualcosa (un taglio di budget, visto che nel frattempo sono scomparse le alette, la battuta in rilievo e il cartiglio lucido in copertina) perché questo è già il secondo libro che mi trovo tra le mani in poco tempo presentato al pubblico nella “storica traduzione”, come riportato nell’introduzione. Dovrei confrontarlo con l’inglese, ma ho l’impressione che la traduzione italiana abbia manomesso uno stile che dovrebbe essere molto più spiccio e senza fronzoli.

More about The Lost WorldAnche se oggi è ricordato per il suo personaggio più famoso, Sherlock Holmes, Arthur Conan Doyle fu uno scrittore poliedrico che sperimentò, oltre al “giallo”, con il romanzo storico (a un certo punto “uccise” Holmes perché a suo dire toglieva attenzione ai suoi romanzi storici)  e con il fantastico (per poi prendere una sbandata per lo spiritualismo dopo la morte del figlio e avvallare alcune panzane particolarmente clamorose come le foto delle fate di Cottingley, ma questo è un altro discorso).
The lost world, uscito pure lui nel 1912, come John Carter, riprende un’idea già usata da Jules Verne, quella della sopravvivenza fino ai giorni nostri dei dinosauri, ma la sposta dal sottosuolo alla giungla amazzonica. Doyle, nel 1912, è uno scrittore con il controllo completo delle tecniche narrative, della costruzione dei personaggi e della suspence, e mette in piedi uno spettacolo senza precedenti, in cui non manca niente: dinosauri, tribù selvagge e feroci uomini scimmia, infidi traditori e fedelissimi portatori negri (bisognerebbe riscrivere la storia dal punto di vista di Zambo, che resta giorni e giorni appostato sul ciglio di un burrone aspettando che quelli dall’altra parte gli facciano un fischio), un pizzico di sana misoginia molto british. Ma soprattutto azzecca due personaggi fenomenali: il professor George Challanger, un irascibile e imponente scienziato tuttofare che è il vero motore della spedizione nel mondo perduto, e Lord John Roxton, il perfetto prototipo dell’avventuriero inglese di buone maniere, spavaldo e capace di centrare uno schiavista in fuga a cento passi senza quasi nemmeno mirare. Gli altri due, il narratore-giornalista e l’inizialmente scettico professor Summerlee servono più che altro a fare risaltare i due dalla personalità più forte. Come detto, in questo caso i cent’anni di distanza tra me e il romanzo quasi non li ho sentiti e anche se nella storia c’è più o meno qualsiasi cliché possa venire in mente in una vicenda del genere, il ritmo sempre alto non lascia quasi tempo per farci caso.
Volendo, la prima versione cinematografica è scaricabile liberamente da Archive.org.

Many devout people simply couldn’t accept that the Earth was as ancient and randomly enlivened as all the new ideas indicated. One leading naturalist, Philip Henry Gosse, produced a somewhat desperate alternative theory called ‘prochronism’ in which he suggested that God had merely made the Earth look old, to give people of inquisitive minds more interesting things to wonder over. Even fossils, Gosse insisted, had been planted in the rocks by God during his busy week of Creation.

More about At HomeLo scrive Bill Bryson in At home. A short history of private life e mi sembrava il passaggio giusto per chiudere la fase pulp di questa rubrica. At home è una specie di sequel di A short history of nearly everything, che si occupa però non più delle scienze naturali ma del concetto di “casa” e di “vita domestica” e del suo sviluppo, prevalentemente in ambito anglosassone. Attraversando i diversi locali della sua dimora, una casa di campagna inglese del XVIII secolo, Bryson ricrea una sorta di versione bignami di quella che in sociologia si chiama “processo di civilizzazione” in rapporto alla casa. Allo stesso tempo, però, esamina anche le basi materiali dietro a certi sviluppi, come per esempio le migliorie nella lavorazione del vetro che hanno reso possibile avere le finestre come le conosciamo oggi a un prezzo a poco a poco sempre più accessibile a tutti.
Lo fa, ovviamente, con il suo solito stile e con la solita messe di aneddoti più o meno strani.
Per esempio (occhio, fa schifissimo):

The new sewage outfalls did, however, have an unfortunate role in the greatest tragedy ever experienced on the Thames. In September 1878, a pleasure boat named the Princess Alice, packed to overflowing with day-trippers, was returning to London after a day at the seaside, when it collided with another ship at Barking at the very place and moment when the two giant outfall pipes surged into action. The Princess Alice sank in less than five minutes. Nearly eight hundred people drowned in a choking sludge of raw sewage. Even those who could swim found it nearly impossible to make headway through the glutinous filth. For days afterwards bodies bobbed to the surface. Many, The Times reported, were so bloated with gaseous bacteria that they wouldn’t fit into normal coffins.

O anche:

Also, you need to remember that often these colours were seen by candlelight, so they needed to be more forceful to have any kind of impact in muted light.’ The effect is now repeated at Monticello, where several of the rooms are of the most vivid yellows and greens. Suddenly George Washington and Thomas Jefferson come across as having the decorative instincts of hippies. In fact, however, compared with what followed they were exceedingly restrained.

Le meraviglie della servitù:

Casual humiliation was a regular feature of life in service. Servants were sometimes required, for instance, to adopt a new name, so that the second footman in a household would always be called ‘Johnson’, say, thus sparing the family the tedium of having to learn a new name each time a footman retired or fell under the wheels of a carriage.

O l’importanza delle tradizioni:

Clergymen sometimes preached against the potato on the grounds that it nowhere appears in the Bible.

Un capitolo inizia con il ritrovamento di Oetzi, l’uomo dell’età del bronzo riemerso mummificato dai ghiacci del Similaun, che è una delle fonti più importanti sugli oggetti usati quotidianamente dai suoi contemporanei. Cosa che non sapevo è che il tizio aveva addosso il sangue di quattro altre persone; e comunque pare che le scarpe che indossava siano parecchio comode e adatte all’alta montagna, almeno stando a quello che dice un tizio che se ne è costruito delle repliche.
Insomma, è un libro pieno di informazioni utili, divertenti e che vi possono far fare bella figura in una conversazione. In Italia si chiama Breve storia della vita privata e faccio tanti auguri a chi ha dovuto tradurre una cosa così intimamente inglese.

More about VerderameDi una casa e della sua storia parla anche Verderame di Michele Mari, ma la casa è nella campagna piacentina e la storia è piena di morti, di sangue e di misteri. Michele Mari è uno che sembra essere stato creato apposta per smentire il luogo comune che vuole gli scrittori italiani con aspirazioni di letterarietà impegnati a combattere una battaglia feroce contro il fantastico, perché in questo romanzo è al tempo stesso terribilmente letterario nelle sue scelte lessicali ed espressive e intimamente legato al fantastico, al gotico, all’onirico. La storia è quella di Michelino, un ragazzino di tredici anni che passa l’estate in campagna presso i nonni, che cerca di aiutare Felice, l’anziano fattore della tenuta, a recuperare la memoria che sembra stare perdendo. Iniziando dall’ossessione di Felice per le lumache rosse che infestano i campi, Michele scopre a poco a poco che il passato della casa e dell’uomo è un susseguirsi di misteri incastrati uno dentro l’altro.
Mari, l’ho già detto, scrive bene. Forse esagera addirittura nel dare alla voce di Michelino una proprietà espressiva superiore a quella che si aspetterebbe da un ragazzino della sua età (per quanto di ottime letture), ma è bravo abbastanza da non rendere mai ingombrante neanche le parole più inconsuete, che anzi vai a cercare sul vocabolario (san Kindle aiuta tantissimo, in questi casi) incuriosito e non infastidito. All’altro estremo c’è Felice, che si esprime solo in un dialetto padano a volte abbastanza stretto;  ma Mari riesce a rendere comunque comprensibili i dialoghi dalle risposte di Michele. Mi sono anche domandato anche se i miei quattordici anni di permanenza in Emilia non mi abbiano permesso di fare un po’ l’orecchio ai dialetti nordici e se in realtà il libro è incomprensibile al di sotto della linea gotica. Però come io (che non so parlare nessun dialetto, pur essendo cresciuto a Genova) riesco a leggere Camilleri, credo che non ci siano grossi problemi a capire cosa dice Felice.
La scrittura esemplare di Mari non è fine a se stessa e Verderame è un omaggio tutt’altro che ironico, distaccato o alla lontana ai temi della narrativa di mistero e dell’orrore. Anzi, più si va avanti e più l’omaggio sfuma e il romanzo si rivela per la storia gotica di fantasmi e misteri che è. In altre parole: fa paura come dovrebbe fare paura una storia del genere. E il finale sospeso e misterioso (niente spiegoni, quando si chiude si chiude e tanti saluti) aggiunge un tocco in più all’atmosfera sospesa tra la materia e lo spirito.
Quando si parla di fantastico italiano si dovrebbero tenere in considerazioni anche romanzi come questo, anche se in copertina non ci sono spadoni, catene, morti secche e via discorrendo.

More about The End SpecialistÈ invece un romanzo fantastico con tutti i crismi già dalla copertina (ingannevolmente alla Terry Pratchett) The end specialist di Drew Magary, che parte dal sempre fruttuoso spunto dell’immortalità. Cosa accadrebbe se, tra non molti anni, la scienza scoprisse prima una cura per l’invecchiamento e poi riuscisse a renderci immune da qualsiasi malattia, così che l’unico modo di morire diventerebbe la morte violenta (volontaria o meno)? Magary, giornalista al suo primo romanzo, racconta questo mondo futuro attraverso i resoconti in tempo reale di un uomo che attraversa cent’anni di questo mondo futuro, da quando la cura è illegale fino alla sua piena diffusione. Purtroppo la parte migliore è la prima, quella che descrive l’impatto del cambiamento sul nostro mondo; infatti, più si allontana dal qui e ora, più deve immaginare un mondo completamente nuovo, più Magary perde il controllo della materia, tende a tirare via e l’ambientazione diventa sempre più evanescente e impalpabile. Anche il protagonista non sembra mai avere uno sviluppo reale, come se il blocco dell’invecchiamento gli avesse anche bloccato la capacità di crescere (ma credo sia più un limite dell’autore che non un tratto voluto).
Così, la portata ambiziosa del romanzo si risolve in una distopia un po’ di maniera, di quelle che non lasciano il segno.

More about L'uomo che riuscì a fottere un'intera nazioneIl complotto per uccidere Berlusconi è stato, qualche anno fa, un sottogenere relativamente frequentato dall’industria culturale italiana (il prodotto più famoso è probabilmente il romanzo 2005 dopo Cristo del collettivo di scrittori che univa Nicola Lagioia, Christian Raimo, Francesco Pacifico e Francesco Longo, uscito per Einaudi, ma mi pare di ricordare dagli strali dei media berlusconiani dell’epoca che tra film e libri ci fossero altri esempi). Oggi lo resuscita Gabriele Ferraresi in L’uomo che riuscì a fottere un’intera nazione, in cui la CIA decide che è giunta l’ora di levare di mezzo l’inaffidabile Berlusconi, perso tra le cosce delle varie sgallettate che frequentano le sue feste e troppo vicino alla Russia di Putin, e manda in Italia un agente sotto copertura che ha il compito di frequentarlo e trovare il momento giusto per avvelenarlo. Ovviamente, il momento giusto è difficile da trovare e nel frattempo il nostro frustratissimo agente deve sorbirsi un giro turistico per tutti gli articoli scritti su Berlusconi da Repubblica dalla scoperta di Noemi Letizia a oggi. E poi? E poi basta. Il romanzo è praticamente tutto qui (la struttura è praticamente identica a quella dell’unico romanzo di De Carlo che non sembra un romanzo di De Carlo, Macno, in cui una giornalista cerca di intervistare il dittatore populista di un’Italia del futuro prossimo senza mai riuscirci e venendo di volta in volta  a osservarlo in diversi aspetti del suo rapporto con il potere) e lo stile ellroyano non fa molto per rendere davvero interessante questo ripasso degli ultimi due anni di cronaca (anche perché nel 2012 lo stile ellroyano ha un po’ fatto il suo tempo).
È un libro che è probabilmente invecchiato in modo terribile già durante la sua stesura, perché in fondo alla fine non è che ci volesse la CIA per toglier di mezzo la corte berlusconiana (almeno per un po’), e che non riesce mai a staccarsi dal resoconto dei fatti, neanche quando prova ad alzare il tiro parlando del progetto criogenico che si nasconderebbe nel mausoleo di Berlusconi. Manca quella che è la dote migliore dell’editor del romanzo, Giuseppe Genna, vale a dire la capacità di trascendere il reale, di proiettare altrove le conseguenze di ciò di cui sta parlando.
Quindi resta un romanzo che se non avete letto un giornale negli ultimi tre anni potrebbe anche essere interessante; idem se vi interessa un ripasso. Ma altrimenti io l’ho trovato molto deludente e l’unica cosa buona che mi viene da dire al proposito è che se non altro lo stile è molto scorrevole e si legge abbastanza in fretta.

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Legittima difesa – Febbraio 2012

Ormai la cadenza di aggiornamento di questo blog è degna di Trenitalia.
Ma l’appuntamento con i libri del mese va rispettato.

Ciò che chiamiamo “musica rock” non è un fenomeno che ha a che fare solo con la musica in senso stretto, le note, gli accordi, le melodie, le capacità tecniche, le estensioni vocali, tutte quelle cose di cui si occupa la musicologia propriamente detta.
Il mondo della musica rock è in realtà un affare molto più ampio, di cui i fenomeni acustici sono solo un aspetto, uno tra i molti. In oltre mezzo secolo di vita, i musicisti, le loro vite e le loro morti hanno finito per creare un universo immaginifico che ha la portata e l’estensione di un pantheon sterminato. La storia del rock è un racconto mitico, religioso, popolato da dei, eroi, mostri (ciao Yoko), oggetti magici, imprese eccezionali, tradimenti. E follia.
More about Rosso FloydRosso Floyd, di Michele Mari, è un libro che può essere definito in molti modi, ma credo che la descrizione più appropriata sia quella del racconto mitico della permanenza dell’eredità di Syd Barrett nella musica dei Pink Floyd, affidata a un rincorrersi di voci sul modello della storia orale (come ad esempio Please Kill Me, sul punk newyorchese) ma con la differenza che Mari non ha mai intervistato nessuna (o quasi, credo) delle persone a cui dà voce nel libro. Non ho idea di preciso come abbia lavorato e quali delle coincidenze di cui dà conto siano reali e quali no, ma siccome il suo scopo non è quello di raccontare la verità su Syd Barrett (tipo quei libri che periodicamente annunciano nuove sconvolgenti rivelazioni sulla morte di Brian Jones o Stu Sutcliffe) non è che dobbiamo stare qui a fare il debunking di ogni riga; il suo approccio è infatti quello del narratore che parte da degli elementi dati per costruire una storia che in qualche modo li tenga insieme. E per farlo si serve del più antico strumento di amplificazione dei meccanismi del reale che esista: il fantastico. Così, la vita e la follia di Barrett rientrano in un quadro di orrore cosmico lovecraftiano gestito come raramente ho visto fare, con piccoli squarci dell’Altrove che irrompono come note discordanti in una melodia.
Mari è uno di quello che scrivono bene. E per bene intendo che sa variare toni e registri, che sa quando usare parole desuete e ricercate senza farti venire voglia di urlare ma, al contrario, facendoti venire voglia di andare a cercare che cosa vogliano dire (grazie, dizionario incorporato del Kindle). Le diverse testimonianze, lamentazioni, comunicazioni di cui si compone il libro sono un campionario stilistico di tutto rispetto e nella loro forma breve danno al racconto un passo spedito che spinge a divorare i capitoli uno dopo l’altro. A me, che onestamente dei Pink Floyd conosco sia musicalmente sia biograficamente meno del minimo sindacale (ma per quello che conosco mi schiero tra quelli che pensano che dopo Barrett siano diventati dei produttori di dischi sempre più buoni giusto per collaudare gli impianti hi-fi; ah, e The Wall nel suo insieme è una palla colossale e Roger Waters non pagherà mai abbastanza per questo), è piaciuto tanto perché è servito anche come bignami sulla storia del gruppo, ma non so onestamente quanto la versione di Mari dica cose nuove e/o interessanti per chi conosce a menadito vita morte e miracoli di Barrett e soci.
Però è scritto così bene che chiunque dovrebbe leggerlo.
More about Guida del cercatore d'oro della California

Uno dei compiti (o forse più correttamente dei piaceri) di un editore dovrebbe essere quello di recuperare e riproporre testi dimenticati che hanno ancora qualcosa da raccontare sul tempo a cui appartengono e su quello in cui vengono riproposti. Prendete come un omaggio all’editore Enzo Sellerio, scomparso pochi giorni fa, questa note su un libretto trovato tra i remainders, intitolato Guida del cercatore d’oro della California, traduzione di un instant book pubblicato a New York al tempo della corsa all’oro in California del 1848. Il libretto, scritto sotto forma di lettere scritte da un cercatore che in California ha trovato la sua fortuna per convincere un amico a partire anche lui, è uno splendido esempio di pura e semplice propaganda volta a spingere la colonizzazione della costa ovest, ai tempi ancora scarsamente popolata. San Francisco, per dire, aveva 200 abitanti nel 1846, arrivò a 36.000 nel 1852. La descrizione della California è idilliaca, non solo dal punto di vista naturale e paesaggistico, ma anche da quello umano: i cercatori formano una grande famiglia e sono pronti ad aiutarsi l’uno con l’altro in caso di necessità, c’è spazio per tutti e l’unico limite alla possibilità di arricchirsi è solo la propria intraprendenza e voglia di faticare. C’è anche un archetipico incontro con un nativo, pronto a scambiare una grossa pepita per una fascia decorata. Ovviamente l’autore dichiarato, tale Henry J. Simpson, se è esistito non si è mai spostato da New York e ha composto il libro rifacendosi a resoconti di cercatori e articoli di giornale, il che spiega perché comunque le tecniche di estrazione siano descritte con una certa precisione, così come precise sono le informazioni sui modi di arrivare in California. Se l’epopea western ci ha abituati a immaginare epiche traversate coast to coast, in realtà la via più praticabile era quella via mare fino a Panama, per poi attraversare via terra l’istmo e imbarcarsi per la California sul Pacifico (un viaggetto da niente in tutti i casi). Attraversare il continente via terra era abbastanza una follia, specie perché le Montagne Rocciose non sono esattamente uno scherzo da attraversare.

La copertina del volumetto originale, nel sobrio stile minimalista tipico dell'epoca

La copertina del volumetto originale, nel sobrio stile minimalista tipico dell'epoca (ci sono forse due font in meno che in un numero del Fatto Quotidiano)

Il valore letterario del libretto è quello che è, ovviamente, ma è un documento interessante su una pagina di storia americana, quelle curiosità che fa bello avere in libreria.
More about Desolate città del cuoreSempre Sellerio, a suo tempo, pubblicò anche una collana di fantascienza di breve durata. Adesso qui ci starebbe un pippone sulle case editrici con un’identità visiva molto marcata e sul fatto che questa identità faccia sì che un libro tradotto una volta inserito in una sua collana non è più “quel libro lì” bensì “un libro [CASA EDITRICE]” e quindi rischia di venire non preso in considerazione dal suo pubblico naturale. Per dire del caso di un libro a cui se non altro è andata bene, confrontate la copertina di Barney’s Version con quella di La versione di Barney.
Con la collana di fantasciena di Sellerio, credo sia successo un po’ questo: i libri di fantascienza vestiti da libri Sellerio devono essere passati più o meno inosservati ai lettori di fantascienza (se trovo un Sellerio sullo scaffale fantascienza di una libreria d’istinto penso che qualcuno l’ha lasciato fuori posto) e allo stesso tempo non devono avere incontrato il favore del lettore-tipo della casa editrice.
Certo però che un romanzo come Desolate città del cuore di Lewis Shiner non è che fosse così imperdibile. Shiner, a quanto leggo, ha iniziato con il cyberpunk, ma poi ha preso altre strade, come in questo romanzo ambientato nel Messico degli anni ottanta, tra guerriglieri, commandos della CIA, viaggi (mentali?) nel tempo e… i famigerati Maya. È un romanzo parecchio politico, forse più debitore del realismo magico che del fantastico in senso stretto, scritto in modo molto pulito e ordinato, ma che in fin dei conti non riesce a essere niente di più che una lettura scorrevole. C’è solo un punto in cui mi stavo davvero appassionando ed è stato durante il flashback alla fine degli anni sessanta, con special guest Jimi Hendrix; e infatti credo che leggero Glimpses, che è tutto ambientato tra i musicisti dell’epoca (disponibile in download come pdf o su Amazon. C’era un’edizione italiana, chiamata Visioni Rock ma è fuori commercio).

Poi se c’è una cosa che non mi piace fare è parlare di libri che non mi sono piaciuti. Di solito se un libro non mi piace lo abbandono senza troppi problemi e senza neanche chiedere il permesso a Pennac. Ma ci sono delle volte in cui invece mi chiedo (o meglio chiederei all’autore) “no, sul serio?” e allora arrivo fino in fondo per capire esattamente quanto non mi sia piaciuto.
More about L'apprendista libraioEcco, con L’apprendista libraio di Stefano Amato è successo esattamente questo.
Facciamo un passo indietro: Stefano Amato è un ragazzo di Messina che lavora in una libreria e ha un blog chiamato “l’apprendista libraio” in cui trascrive le conversazioni più surreali che gli capita di avere con la clientela. È un blog che mi piace, così quando ha annunciato di avere autopubblicato un romanzo di ebook l’ho comprato senza preoccupazioni perché mi immaginavo di ritrovarci dentro l’orecchio per i dialoghi, il senso dell’assurdo che emergeva dal blog.
Purtroppo non è andata così e l’Apprendista libraio (romanzo) è una storia di (non)formazione che racconta cinque anni di vita di una persona come se fossero cinque mesi, in cui la libreria è un pretesto per riempire di contenuto la casellina “il protagonista è incastrato in un lavoro che non gli piace”, popolato da figure femminile che periodicamente entrano nella vita del protagonista per concedergli le loro grazie, rivelarsi delle persone instabili/insicuri/stronze/folli e lasciare il posto alla successiva. Ma quello che è peggio è, come ho accennato, sembra quasi più il bozzettone per un romanzo che un vero e proprio romanzo; non sono un talebano dello “show don’t tell”, però qua si corre con l’acceleratore a tavoletta e gli eventi si susseguono così, via uno avanti l’altro. Certo, l’immobilismo del protagonista è voluto dall’autore, ma alla fine mi sa che gli sia scappata la mano e ne è venuto fuori un personaggio piatto e insopportabile, insofferente a tutto e tutti un po’ per partito preso, come un bambino capriccioso.
E quindi niente, alla fine mi sono letto questo libro che non mi piaceva per capire se poi migliorava e perché se non altro, proprio per il difetto detto prima, scorre via senza problemi. Ho iniziato pensando “vabbeh, ma adesso migliora” e senza accorgermene ho varcato il punto di non ritorno in cui non poteva più migliorare. Ma ormai era troppo tardi per smettere.
Che dire? Ho sbagliato a fidarmi e non scaricare l’anteprima da Amazon.
Mi fa piacere pensare di avere dato un obolo a Stefano per quello che leggo sul suo blog e per la capacità che ha avuto di “capitalizzarlo”.
Avrei preferito scaricare un file senza spazi bianchi tra un’andata a capo e l’altra, ma mi è successo anche con ebook non autoprodotti.
More about Fare i libriE già che parliamo di autopubblicazione, bisogna sempre tenere presente che comunque fare libri, di carta o digitali che siano, è un’attività che non è semplice. Ho detto “fare” perché qui sto parlando non dell’atto creativo in senso stretto, ma del cosiddetto “lavoro editoriale”, tutta quella serie di operazioni e scelte che trasforma il testo prodotto da un autore in un prodotto, fisico o intangibile, attraverso il quale il pubblico frusice di quel testo. Fare i libri (minimum fax) è curato da Riccardo Falcinelli, che della casa editrice romana è art director da anni, e spiega in che cosa consista il lavoro di una casa editrice, soprattutto dal punto di vista della veste grafica e tipografica dei volumi. Falcinelli ha avuto la fortuna di lavorare per una casa che ha da sempre puntato molto sulla riconoscibilità dei propri prodotti e ha avuto un gusto a mio parere eccezionale nell’interpretare le richieste del suo editore. Questo volume, con la sua impaginazione efficace e vivace, con i suoi giochi meta-grafici, con la passione che traspare dagli interventi delle varie anime della casa editrice, è molto convincente nel sostenere che l’impegno per fare dei libri ben fatti è tutt’altro che una fissazione per nerd tipografici. Un libro ben fatto, cioè uno che ha una grafica di copertina coerente con il progetto della casa editrice, con il contenuto, con il lettore a cui si rivolge, che usa un font leggibile, ben spaziato e distribuito nella pagina è un libro bello, più piacevole da leggere e forse con più possibilità di essere preso in mano in libreria (e magari addirittura comprato!) di altri.
Non è semplice perché spesso la scure del conto economico si abbatte su immagini che vorresti tanto usare per la copertina, ti costringe a impaginare in corpo microscopico perché altrimenti devi aggiungere un sedicesimo e tante altre cose; però è sempre bello ricordarsi che ci si dovrebbe provare. E che una cura simile un autore autopubblicato digitale dovrebbe cercare di rivolgerla anche ai propri ebook, o in prima persona o affidandosi a professionisti che lo facciano per lui. Perché puoi fare a meno della casa editrice ma non del lavoro editoriale.

Un genere transmediale per cui ho sempre avuto massima stima e ammirazione è quello della divulgazione. Da bambino ero così fan di Piero Angela che una volta non so bene come mia madre riuscì a convincere le suore dell’asilo a lasciare vedere a me e agli altri nani delle puntate pomeridiane di Quark (visione che ebbe luogo nell’altrimenti inaccessibile piano superiore dell’asilo, dove vivevano le suore, e che ricordo che mi colpì perché era parecchio più lussuoso e ben tenuto del resto dell’asilo) (mi piace immaginare fosse una puntata su Darwin). Più in generale, mi piace l’idea che ci sia della gente che funga da interfaccia tra il mondo “alto” della scienza e chi non ha tempo, mezzi, voglia, di imparare “the real thing” ma voglia lo stesso quantomeno capire “a che punto siamo”.
More about A Short History Of Nearly EverythingA short history of nearly everything di Bill Bryson è una specie di gigantesco bignami di storia della scienza, che racconta la lunga storia di come siamo arrivati allo stato di conoscenze attuali sulla Terra, l’universo, la comparsa della vita e i suoi meccanismi, la comparsa dell’uomo. E soprattutto è la storia dei pittoreschi personaggi che hanno popolato (e che hanno fatto) la storia della scienza, con le loro bizzarre teorie che qualche volta si rivelavano azzeccate o che portavano a risultati imprevisti:

Brand became convinced that gold could somehow be distilled from human urine. (The similarity of colour seems to have been a factor in his conclusion.) He assembled fifty buckets of human urine, which he kept for months in his cellar. By various recondite processes, he converted the urine first into a noxious paste and then into a translucent waxy substance. None of it yielded gold, of course, but a strange and interesting thing did happen. After a time, the substance began to glow. Moreover, when exposed to air, it often spontaneously burst into flame.

(e viene in mente Meridiano di sangue di McCarthy).
Bryson è un narratore eccezionale, uno che si prepara come si deve e poi sa scegliere le parole migliori per riportare alla tua esperienza quotidiana cose apparentemente fuori scala, spesso con quel tocco di “umanesimo scientifico” (non saprei come definirlo altrimenti) che ricorda tanto Douglas Adams:

Incidentally, disturbance from cosmic background radiation is something we have all experienced. Tune your television to any channel it doesn’t receive and about 1 per cent of the dancing static you see is accounted for by this ancient remnant of the Big Bang. The next time you complain that there is nothing on, remember that you can always watch the birth of the universe.

Sembra quasi il Doctor Who.
Ci sono anche fatti divertenti (si fa per dire) come questo:

For a long time it was assumed that anything so miraculously energetic as radioactivity must be beneficial. For years, manufacturers of toothpaste and laxatives put radioactive thorium in their products, and at least until the late 1920s the Glen Springs Hotel in the Finger Lakes region of New York (and doubtless others as well) featured with pride the therapeutic effects of its ‘Radio-active mineral springs’. It wasn’t banned in consumer products until 1938. By this time it was much too late for Mme Curie, who died of leukaemia in 1934. Radiation, in fact, is so pernicious and long-lasting that even now her papers from the 1890s – even her cookbooks – are too dangerous to handle. Her lab books are kept in lead-lined boxes and those who wish to see them must don protective clothing.

È parecchio lungo e forse qualche volta un po’ ripetitivo, però c’è dentro una mole di informazioni invidiabile e suscita (o risveglia) una fascinazione per l’universo e tutto ciò che contiene che ti fa venire voglia di tornare indietro e ricominciare un percorso di studi differente per sapere TUTTO sull’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Inoltre, cosa che non guasta mai, Bryson ha un eccellente senso dell’umorismo, anche se qui è meno accentuato che in altri libri:

The indigestible parts of giant squid, in particular their beaks, accumulate in sperm whales’ stomachs into the substance known as ambergris, which is used as a fixative in perfumes. The next time you spray on Chanel Number 5 (assuming you do), you may wish to reflect that you are dousing yourself in distillate of unseen sea monster.

More about Squadrone biancoParlando di eventi di cui sappiamo molto poco, la storia delle colonie italiane in Africa è uno di questi. Curioso, no? Nella nostra storia nazionale, in quei 150 anni da poco celebrati, c’è un curioso buco relativo al fatto che per sessantacinque anni abbiamo giocato a fare la potenza coloniale, che per sessantacinque anni italiani hanno vissuto, sono nati e morti, hanno combattuto in Eritrea, e poi in Somalia, Libia (che di fatto venne creata da noi dando un nome romano a un paio di province dell’impero ottomano che avevamo conquistato), Abissinia. Ci restano canzoni e quel curioso rapporto con Gheddafi, che qui ancora ricordiamo con sentimenti indecifrabili quando si presentò in visita ufficiale con la foto di uno dei leader della resistenza libica appuntata sulla giacca.
In generale, però, l’avventura coloniale italiana è materia da specialisti e  storici e poco nota a livello di grande pubblico. Squadrone bianco di Domenico Quirico (Mondadori) è un saggio di taglio divulgativo che cerca di fare luce sulle truppe indigene che combatterono con gli italiani nelle guerre coloniali, dall’Eritrea fino alle campagne fasciste. Non è una storia del colonialismo italiano nel suo complesso, perché la sua prospettiva è quella della storia militare: l’Africa è un territorio da conquistare e il modo migliore per farlo è quello di farsi aiutare da chi lo conosce, gli abitanti del posto arruolati in appositi reparti. Da questo punto di vista, la parte migliore del libro è il racconto di come si sia arrivati a capire quale fosse il modo giusto per addestrare, gestire, fare combattere, questi uomini provenienti da una cultura diversa, con una cultura guerriera che era più o meno agli antipodi della logica militare di un esercito ottocentesco. Ugualmente, è molto bello scoprire dell’esistenza di personaggi dalle vite quasi romanzesche, tra i generali e ufficiali inviati in Africa e tra i loro avversari locali. Alla lunga, però, il libro sembra essere parecchio limitato al suo racconto di battaglie e tutto sommato indulgente (quando non reticente) nei confronti della condotta degli italiani in Africa. In parte come ho detto è dovuto alla prospettiva del testo, ben diversa da quella di un Del Boca, per dire; in parte però credo che sia per una scelta precisa dell’autore (che devo capire perché ama così tanto l’aggettivo “sardanapalesco”).
Non è un cattivo libro ed è un ottimo punto di partenza per la storia delle truppe indigene dell’Africa italiana, però non mantiene quello che promette con l’eccellente primo capitolo.

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I libri di Aprile

Primo appuntamento sul “nuovo” Buoni Presagi con la rubrica dei libri del mese precedente. Evidenziato, quello che mi è piaciuto di più.

In un paese bruciato dal sole: l’Australia – Bill Bryson (TEA)
Bryson sta a Severgnini come Joe Cocker sta a Zucchero. Vale a dire che è la buona idea da cui noi abbiamo tratto una copia ridicola (trash, per chi ha letto Tommaso Labranca). Questo è un reportage di viaggio dall’Australia, che ha il merito di raccontare un sacco di cose interessanti sul continente che ha dato al mondo i Men at work e di farlo facendo fare anche un sacco di risate. A parte quando parla di tutta la roba velenosa che c’è in Australia, facendoti passare qualunque voglia di mettere piede nell’ex colonia penale britannica.

Grande Madre Rossa – Giuseppe Genna (Mondadori)
Nato per essere una sorta di non-thriller, che costruisce una tensione, una trama cospirativa secondo tutti i crismi del genere e non la risolve, GMR in questa sua ristampa nella collana Segretissimo (storica serie da edicola di spionaggio) vede esplodere ancora di più questa sua contraddizione. Mi domando che ne pensino i lettori “classici” della serie, di questa vera e propria imboscata ai loro danni. La ricostruzione delle conseguenze di un devastante attentato terroristico al Palazzo di Giustizia di Milano è credibile e tesa al punto giusto. Ho letto il libro nei giorni immediatamente dopo il terremoto in Abruzzo, mescolando tra loro la polvere degli edifici veri e di quelli di carta, i lutti reali e quelli virtuali. Potente, dannatamente potente.

Un disco dei Platters – Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli (Mondadori)
Seconda prova per la coppia Guccini-Macchiavelli, ambientata nei primi anni Sessanta. Rispetto al primo episodio si perde un po’. Ma il fascino dei luoghi e il piacere della narrazione restano a livelli più che accettabili.

Tennis, tv, trigonometria, tornado – David Foster Wallace (Minimum Fax)
Per me, questo libro (raccolta di vari saggi e articoli) andrebbe comprato anche solo per il fondamentale saggio sul rapporto tra tv e scrittori americani, in cui DFW espone la sua teoria sull’abuso dell’ironia. Un testo che mi azzardo a dire fondamentale e ancora oggi centrato e attuale (voglio dire, abbiamo un partito di centro che ha come slogan un calembour, “l’estremo centro”; voi vi fidate di gente che, al di là di tutto, vi chiede il voto con una battuta?). Ma non è l’unica perla: il saggio su Lynch, i due sul tennis, che fanno venire voglia di (ri)prendere in mano la racchetta anche a un pigrone come me. Il resoconto della fiera agricola. Bellissimo (e in originale dentro c’era pure “Una cosa divertente che non farò mai più”, immagina che libro)

Il corpo e il sangue d’Italia – AA. VV. (Minimum Fax)
Una raccolta di otto reportage sull’Italia di oggi: l’islam, l’Ilva di Taranto, il doping nelle palestre, la condizione delle donne sul lavoro, l’etica della rappresentazione del dolore nel giornalismo,per citare i più interessanti. Lo stile varia da autore a autore, tendendo ora più ora meno a uno stile letterario, ma l’attenzione alla scrittura è in tutti casi molto alta, così come la presenza nel testo del narratore stesso, che più che cercare di raffigurare verità assolute dà la propria testimonianza di fatti e opinioni, conscio che il suo essere osservatore contribuisca comunque a modificarle. Un buon libro che in qualche modo cerca di proseguire quanto iniziato da Saviano in Gomorra, non riproponendo sterilmente una formula ma cercando di riprodurne le logiche e le urgenze più profonde.

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