E con questi chiudiamo i libri letti nel 2009. Evidenziato il più consigliato.
Q – Luther Blissett (Einaudi)
Altai – Wu Ming (Einaudi)
(nota: dopo aver letto Altai, ho caricato Q sul kindle e l’ho riletto. Unifico i due discorsi, ma Altai è, ovviamente, leggibile anche senza sapere nulla di Q)
Per tornare nel mondo narrativo di Q, i Wu Ming scelgono di passare dall’Europa al Mediterraneo. Da un mondo di identità rigide e segmentate a uno in cui le identità sono una cosa molto più confusa e complicata. Se per il narratore di Q (e per il suo antagonista) essere figure multiformi, mai uguali a se stesse era un tratto distintivo rispetto agli altri personaggi, in Altai c’è grande confusione sotto il cielo, la confusione appunto nel mediterraneo del XVI secolo e di Costantinopoli. La stessa confusione di cui parlano altri due romanzi italiani degli ultimi anni: “Cristiani di Allah” di Carlotto e “La luce di Orione” di Valerio Evangelisti, che cercando di mostrare come sia esistito un passato in cui i confini tra le civiltà che si affacciano sul mediterraneo erano molto più sfumati di quanto non crediamo di solito. Altai è la storia della fuga dell’agente di un immaginario “servizio segreto” di Venezia, accusato – perché ebreo – di essere coinvolto nell’esplosione dell’Arsenale, verso Costantinopoli, dove si troverà a prendere parte a un tentativo di creare una nazione ebraica a Cipro. Questo in grossa sintesi.
Rispetto a Q, è evidente la maturazione della scrittura avvenuta in questi dieci anni (oltre al fatto che uno degli autori del primo romanzo ha lasciato la compagnia e che nel frattempo se ne è aggiunto un altro, WM5, che portava in dote un’identità di autore già abbastanza formata), che si riflette anche nell’impianto del libro: Q è un romanzo in cui si avverte quasi tangibile il desiderio irruente di scrivere una storia d’avventura attorno ai concetti di cui si interessava il Luther Blissett Project. E come tale contiene diverse sequenze che si rifanno esplicitamente alla tradizione della narrativa d’avventura, con tanto di contrabbandieri del delta del Po che non hanno nulla da invidiare a thug salgariani. Altai, invece, è un romanzo che scorre più pacato, tra molti dialoghi e riflessioni; in questo senso è decisamente figlio dell’esperienza di “Stella del mattino” (e infatti a una presentazione è stato detto che WM4 è stato parecchio attivo nella revisione dei capitoli). Non che non ci siano momenti di azione (l’assedio di Famagosta, la battaglia di Lepanto per dire), ma non sono così al centro della narrazione. Come Q, anche Altai è una storia di fallimenti, di corruzione di ideali; ma se in Q c’era una vena quasi consolatoria (la degenerazione di Münster era eterodiretta), Altai non offre appigli di questo genere e mostra come un ideale possa corrompersi da sé.
Altai è un bel romanzo, una storia in cui si respira l’aria di molte avventure di Dago, il personaggio a fumetti creato da Robin Wood: sogni, tradimenti, violenze, oasi di salvezza solo temporanee da un destino ineluttabile. Non ha (e forse non cerca neanche di avere) la stessa forza d’urto di Q, ma ne affronta i temi sotto un’altra prospettiva, con una sensibilità differente, più matura e consapevole.
L’arte di uccidere un uomo – Giaime Alonge (Baldini & Castoli Dalai)
Seconda metà degli anni novanta: una squadra di mercenari, a diverso titolo reduci dallo smembramento dell’URSS viene assoldata per una vendetta tra clan rivali nel nord dell’Iraq. Da questo spunto, Alonge tira fuori una storia crepuscolare sulla fine di un mondo e dei suoi protagonisti, pronti a essere rimpiazzati d qualcosa di nuovo e meno comprensibile. Prendendosi tutto il tempo necessario per tratteggiare i suoi personaggi, l’autore dà vita a una storia drammatica e credibile, che ondeggia tra crudo realismo e momenti quasi elegiaci e sospesi nel tempo (la tappa al villaggio fortificato, la morte di uno dei personaggi tra antiche rovine). Se piace un certo tipo di storie di guerra, con soldati invecchiati e disincantati che continuano a praticare il “mestiere delle armi” perché è l’unica cosa che sanno fare, è una lettura perfetta per ritrovare quel tipo di atmosfera, unita a scene d’azione ben orchestrate e descritte. Il personaggio dell’inglese è forse la cosa migliore del romanzo e, in più occasioni, ruba la scena a quello che dovrebbe essere il vero protagonista.
Il mio vizio è una camera chiusa – AA.VV. (Gialli Mondadori)
Antologia di autori italiani, curata da Stefano Di Marino, dedicata al “thrilling”, cioè ai thriller italiani degli anni settanta, la cui storia è ricostruita in un saggio contenuto all’interno del volume, opera dello stesso curatore. E proprio quel saggio è la cosa migliore del libro, che per il resto si snoda in una serie di racconti più o meno anonimi che cercano di ricreare piuttosto stancamente l’immaginario tipico del genere.
Sarà vero – Errico Buonanno (Einaudi)
Cosa è, esattamente, la “realtà”? E cosa è “falso”, se nella storia una miriade di invenzioni mendaci, concepite con intenti più o meno truffaldini, hanno finito per portare radicali cambiamenti nel corso degli eventi, nelle vite delle persone, degli stati, delle organizzazioni? Con uno stile ironico e scorrevole, Bonanno dipinge una lunga panoramica sul tema, ricostruendo la storia e le fortune di alcuni dei “falsi” più importanti della nostra storia. Divertente, ben documentato e con alcune parti, come il debunking di Rennes-le-Chateau, da applausi a scena aperta.
The girl next door – Jack Ketchum (Leisure Books)
“Tratto da una storia vera” solitamente è un segnale che indica la boiata, declinata in una qualsiasi delle forme che questa può assumere. Se si tratta della storia di una ragazzina americana che, negli anni cinquanta, viene segregata dalla zia con cui vive in uno scantinato, dove è sottoposta dalla donna, dai figli di lei e dai loro amici a sevizie, umiliazioni e violenze di ogni tipo, beh, il rischio del torture porn è giusto lì dietro l’angolo. Con queste premesse, il lavoro fatto da Ketchum è di altissimo livello, paragonabile come impatto e come abilità nel riutilizzo della “storia vera” per indagare nella psicologia e nella società alla “Dalia Nera” di Ellroy. L’intuizione vincente dell’autore è quella di raccontare la vicenda attraverso le parole e gli occhi di un ragazzino che rimane invischiato a poco a poco nella catena di umiliazioni e violenze sulla ragazza, senza mai riuscire veramente a ribellarsi a queste, come se in fondo, nonostante la sua precedente amicizia con la ragazza, sia affascinato da quello che sta succedendo e incapace di vederlo come l’orrore che è. E la bravura è anche quella di mettere il lettore in una posizione simile. Molte scene del libro sono autentici pugni nello stomaco. E la fine è inevitabile, lo si intuisce dal fulminante capitolo iniziale. E ci sono dei momenti in cui vorresti mettere giù il libro e dire “ok, ho capito cosa deve succedere, preferirei non pensarci e non pensarci che è successo davvero a una persona in carne e ossa e sangue”. E invece vai avanti. Fino a che Ketchum non ti gela: un capitolo si interrompe con la preparazione di una scena terribile, ma il capitolo dopo è una frase sola, in cui il narratore si rifiuta di descrive ciò che vide. Un trucco vecchio come la narrativa horror stessa, ma che qui deflagra con la potenza di un quintale di tritolo, perché in un colpo solo ti lascia da solo a immaginare una scena che qualsiasi descrizione avrebbe solo reso più banale e normalizzata e ti accusa anche di essere una specie di guardone che non aspettava altro che di vedere descritta quella cosa orribile.
Era molto tempo che non leggevo qualcosa che riuscisse a giocare così con le sensazioni del lettore, così vivido nel trasmettere orrore, non solo fisico ma anche morale, così potente e lucido come riflessione sul “male”. In Italia l’ha tradotto la Gargoyle Books (che ha degli ottimi titoli, ma che fa dei libri che mi piacciono davvero poco) come “La ragazza della porta accanto”. Online si trova in inglese a meno di 5 euro.
(Un grazie a Elvezio Sciallis per la segnalazione)
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