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Esistono canzoni che non esistono

L’altro giorno mi è passato sotto gli occhi un thread su X (il circo a tre piste che ha sostituito quello strumento non perfetto ma utile che era Twitter) dedicato alle migliori canzoni che “esistono” solo in film o serie tv. Per intenderci, non tanto quelle scritte appositamente per la colonna sonora, ma quelle che vengono scritte o eseguite dai personaggi e hanno un qualche ruolo nella storia.
Siccome l’idea è carina, la parassito per fare un post (senza un ordine particolare)

The Wonders – That thing you do!
Sta in un film del 1996 diretto da Tom Hank, Music Graffiti. Lo beccai una volta già iniziato in tv e rimasi a guardare perché c’era Liv Tyler. È la storia di ascesa e crisi di un gruppo fittizio degli anni sessanta, uno dei tanti complessi nati in America sulla scia dei Beatles, che azzecca questo singolo pazzesco. Scritta da Adam Schlesinger (Fountain of Youth), That thing you do! è un perfetto pastiche beatlesiano, al punto che è difficile non pensare che fosse un vero singolo dell’epoca. I riferimenti beatlesiani si estendono anche alla vicenda della canzone: nata come uno slow, esplode quando viene velocizzata – come Please Please Me.
Trad. – Good Ol’ Shoe
Wag the Dog, in italiano criminalmente intitolato Sesso e Potere (si parla molto di potere e nulla di sesso) è una satira molto pungente su un presidente americano che, aiutato da un cinico esperto di comunicazione (Robert De Niro in cosplay da Umberto Eco), inventa una guerra (inesistente) per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo. A un certo punto della storia, come sostengo emotivo alla storia di un soldato caduto prigioniero del nemico, viene fatta incidere una canzone folk con un vago collegamento con la vicenda per poi farla “ritrovare” nella biblioteca del Congresso come pezzo registrato negli anni Trenta. La cosa straordinaria è che la gente inizia a “ricordare” di avere sentito canticchiare il pezzo dal nonno, tipo. Film ancora molto bello, da recuperare assolutamente. Il vero autore di Good Ol’ Shoe è Edgar Winter.
The Rutles – Goose Step Mama
Restando in ambito beatlesiano, ai Rutles e al loro mockumentary “All you need is cash” avevo dedicato un post secoli fa. In generale, lo scimmiottamento dello stile dei Beatles è perfetto, prendo Goose Step Mama ma poteva essere qualunque altra.

PoP – Pop! Goes My Heart
Sta in Scrivimi una canzone, film del genere “commedia romantica con Hugh Grant”, in cui il mio Dylan Dog mancato preferito interpreta un cantante che aveva avuto un (nel senso di uno) successo enorme negli anni 80 per poi svanire nel dimenticatoio. La canzone è divertente, ma il video whammeggiante e carico di rimandi ad altri di quel decennio (compresa una sorprendente citazione del video di Breaking the Law dei Judas Priest) è imperdibile.

Drive Shaft – You all everybody
Chi ha perso dietro a Lost i migliori anni della propria gioventù non può dimenticare i Drive Shaft e la loro hit, presa di peso dal catalogo dei fratelli Gallagher.
Steel Dragon – Blood Pollution
Rockstar, con Mark Whalberg e Jennifer Anniston, è un filmaccio. Il tentativo di raccontare una storia ispirata alla sostituzione nei Judas Priest di Rob Halford con il cantante di una loro cover band, Tim “Ripper” Owens, ha avuto un esito abbastanza deludente, piena di cliché noiosi. Per fortuna la colonna sonora, tra cover e inediti, è invece godibile. Tra l’altro, alla chitarra c’è Zakk Wylde e alla batteria Jason Bonham.
Community – Dean’s Rap
Community è forse la mia sitcom preferita, per i suoi alti vertiginosi che riescono a far perdonare anche le ultime stagioni meno brillanti. Questo è uno dei momenti musicali più straordinari.
Infant Sorrow feat. Jackie Q – African Child
“La terza cosa peggiore mai successa all’africa, dopo guerre e carestie”, da In viaggio con una rockstar, è un gradevole pezzo pop “impegnato”, con un altro video perfetto.
Dewey Cox – Black Sheep
Walk hard, criminalmente ignorato dal grande pubblico, è la parodia definitiva dei biopic musicali, al punto che non capisco come sia possibile che continuino a farli tutti allo stesso modo dopo che nel 2007 tutti i loro trucchi erano stati ridicolizzati in modo così preciso. A ogni modo: usando come canovaccio la storia di Johnny Cash, Walk Hard racconta la lunga vita di Dewey Cox, che partendo dal country attraversa nei decenni tutti i generi (a volte anticipandoli, come quando scopre la cocaina e per un pomeriggio inventa il punk negli anni sessanta – un po’ come in Get Back si scopre che i Beatles nel pomeriggio in cui restano senza George Harrison sfogano la rabbia suonando qualcosa che assomiglia molto al futuro noise rock). Black Sheep fa parte del periodo psichedelico di Dewey, ispirato allo sbarellamento di Brian Wilson dei Beach Boys. La fedeltà al modello è garantita dal fatto che è scritta da Van Dyke Parks, che di Wilson è stato spesso collaboratore (anche in quegli anni).
Spinal Tap – Tonight I’m gonna rock you Tonight
E come si fa a non citare gli Spinal Tap? La credibilità del mockumentary che li vede protagonisti nasce anche da quanto le canzoni siano sì stupide ma musicalmente ben calibrate sui canoni dei generi che vogliono sbeffeggiare. Cosa che con il Metal fine anni settanta / inizio anni ottanta viene particolarmente bene.
Phoebe Buffay – Smelly Cat
Me l’ero in prima battuta dimenticata, ma forse è la canzone finzionale più influente e duratura di tutte, al punto che Lisa Kudrow è riuscita a farsi accogliere pure dal pubblico di Taylor Swift – cioè circa una generazione dopo l’epoca d’oro di Friends.

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I Roberto Saviano del non capire nulla

 

La prima cosa che ho scritto su Facebook appena saputo quello che stava succedendo il 13 novembre a Parigi è stata

Una buona tragedia non è tale se dentro non c’è almeno un pizzico di farsa. Come il fatto che un gruppo di allegri cazzoni come gli Eagles of Death Metal siano finiti in mezzo alla mattanza di Parigi.

Ognuno rapporta quello che succede a quello che conosce: sono stato una volta sola a Parigi, nel 1992 e non vado allo stadio, ma ho ascoltato parecchio “Death by sexy” degli EODM. È un disco che inizia con una risata, come fa a non piacerti un disco che inizia con una risata?
Sulle prime, l’identità del gruppo che suonava è stata in secondo piano, nel racconto e nei commenti. Giustamente. Poi, a mano a mano che si spolpava il grosso della carogna, qualcuno ha addentato “le aquile del metallo mortale”. Continua a leggere

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La recensione di “Jazz” dei Queen uscita su Rolling Stone nel 1979

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Avevo già dedicato un post alle stroncature presenti sulla Rolling Stone Records Buyers Guide del 1983.
Fanno molto ridere e sono una bella testimonianza del giornalismo rock americano che usciva dal punk ancora ubriaco del concetto di “autenticità”. Dei Queen si diceva che “Crazy Little Thing Called Love” era l’unico singolo decente in una carriera altrimenti squallida.
Oggi ho trovato la recensione che all’epoca David Marsh scrisse per Jazz. Non il disco migliore dei Queen, ma uno dei più curiosi, con dentro cose diverse che vanno dall’hard rock di Dead on time al pop di Seven Days, partendo con quella roba strana che è Mustapha e infilando i classiconi Bicycle Race e Fat Bottomed Girls.


Al recensore però non piacque e ne approfittò per levarsi un paio di sassolini dalla scarpa. Continua a leggere

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The next big thing – I Dictators, il rock and roll e tutto quanto – 1

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I Dictators sono uno dei segreti meglio custoditi del rock and roll. E incidentalmente uno dei miei gruppi di sempre, amati di un amore che non avrei mai creduto di potere provare per un gruppo scoperto ormai lontano dall’adolescenza. Ne ho parlato un paio di volte, qui e nel resoconto del viaggio a New York.
Ma siccome i Dictators (o meglio i Dictators NYC, formula dietro alla quale si nascondono alcune menate tra i membri fondatori e il fatto che della formazione originale sopravvivono solo due membri) sono appena sbarcati in Europa per un tour che toccherà anche l’Italia per ben quattro date, mi sembra giusto condividere questo segreto con il mondo (inteso come: quelli che curiosamente hanno ancora questo blog nel feed reader).

Dalla Rolling Stones Record Guide del 1982. D.M. è Dave Marsh, cofondatore di Creem e una delle 120.000 persone che si contendono il titolo di "prima persona ad avere usato il termine PUNK parlando di musica"

Dalla Rolling Stones Record Guide del 1982. D.M. è Dave Marsh, cofondatore di Creem e una delle 120.000 persone che si contendono il titolo di “prima persona ad avere usato il termine PUNK parlando di musica”

1. I Dictators sono stati fondati attorno al 1973 da Andy Shernoff, bassista e cantante, che a 16 anni aveva fondato la fanzine Teenage Wasteland Gazette, per la quale scrisse qualcosa anche Lester Bangs.

2. Il loro primo disco è del 1973, si intitola The Dictators Go Girl Crazy ed è stato prodotto da Murray Krugman e Sandy Pearlman, che all’epoca gestivano anche i Blue Öyster Cult. Non fu propriamente un successo commerciale, però ispirò due ventenni di nome John Holmstrom e Legs McNeil a fondare una fanzine sperando di potere un giorno intervistare la band. Quella rivista si chiamava “PUNK!”, forse ne avete sentito parlare. Per sfiga, quando i due chiamarono la Epic per chiedere un’intervista al gruppo si sentirono dire che il gruppo si era sciolto e tanti saluti.
Toh, ascoltatelo tutto, tanto è breve:

3. Un paio di canzoni del primo disco sono cantante da “Handsome Dick Manitoba”, al secolo Richard Bloom, amico di Shernoff e roadie tuttofare della band. Narrano le cronache come roadie Manitoba fosse un disastro, in qualsiasi mansione (dalla guida alla cucina); in compenso una sera del 1974 salì sul palco (per la prima volta in vita sua) per cantare Wild Thing. Doveva essere una specie di scherzo, ma il pubblico impazzì letteralmente, non tanto perché Manitoba sia un grande cantante (anzi), ma per il carisma promanato a profusione. Da lì, è diventato la “secret weapon del gruppo” e quando Pearlman e Krugman hanno messo sotto contratto il gruppo hanno preteso che diventasse un membro ufficiale.

4. Tra le altre bizzarre decisioni di Pearlman ci fu anche quella di cambiare il cognome di Ross da Friedman a Funicello, perché l’idea dell’italo-americana tirava di più. Il cognome gli resterà appiccicato almeno fino ai primi dischi dei Manowar.

5. L’ultimo concerto prima dello scioglimento temporaneo nel 1975 fu a una roba che si chiamava Miss All Bare America. Abbiamo una foto dell’edizione del 1977 (mandate a letto i bambini):

Foto di Roberta Bayley

Foto di Roberta Bayley

Edizione del 1975

Edizione del 1975

6. Si riformano all’inizio del 1976. Shernoff si fa un po’ da parte e si presenta come bassista Mark “The Animal” Mendoza. Ha una testa di capelli afro da fare paura e suona come un mastro ferraio. Probabilmente le due cose non sono collegate, ma qualche settimana dopo il palazzo in cui provano crolla mentre loro non ci sono.

7. Manitoba è il protagonista di uno degli eventi più citati nei libri sugli anni punk di New York: “The Wayne County Incident”. Wayne County era all’epoca un cantante transessuale e si stava esibendo con il suo gruppo al CBGB’s. Ubriaco, Manitoba si mette a insultarlo. Questo è il punto su cui tutti i testimoni concordano, perché poi le interpretazioni divergono: per alcuni era un attacco omofobo in piena regola, per altri aveva sempre fatto parte del gioco. Fatto sta che a un certo punto Manitoba mette un piede sul palco. Il CBGB’s era un buco, pare che per andare in bagno fosse una strada obbligata. Oppure voleva menarlo? Anche qui i resoconti divergono. Quello su cui tutti concordano è l’epilogo: Wayne County urla una roba tipo “CICCIONEDDIMMERDAHAIROTTOILCAZZO” e schianta l’asta del microfono addosso a Manitoba. La scena pare sia stata molto buffa, perché i due protagonisti sono questi:

Handsome Dick Manitoba (a sinistra, l'altro è Muddy Waters)

Handsome Dick Manitoba (a destra, l’altro è Muddy Waters)

Wayne County

Wayne County

Manitoba crolla a terra in un bagno di sangue. Il colpo gli ha sfasciato la clavicola.
Succede ovviamente un casino. I Dictators sono ostracizzati più o meno da chiunque, tanto che la rivista PUNK! si sente in dovere di fare qualcosa per il suo gruppo ispiratore. Per prima cosa, chiede un articolo a Lester Bangs. Bangs, che sta per trasferirsi a New York, manda una sbrodolata allucinante sulla “Mafia gay di New York”, poi rinsavisce e chiede che non venga pubblicato. Il pezzo si trova online e non è tra le cose migliori di Bangs. Tempo fa provai a tradurlo, ma è un inferno:

Ma questa non è una novità. Queste stronzate sono vecchie come Brian Epstein. Più vecchio. Se volessi tirartela davvero da artista e vantarti della tua erudizione potresti risalire a tutta la documentazione sul fatto che Nijinsky dovette lasciarsi fottere nel culo da Diaghilev per diventare “un successo”. È come tutte quelle stronzate che hai letto su Hollywood, le attricette e il divano per i provini, ed è tutto VERO, a parte che sono e sono stati i bei ragazzi quelli che qualcuno si vuole succhiare. Mi ricordo nel ’66, sto vedendo qualcosa su Warhol e i Velvet sulla tv pubblica, sono lì a fumare erba con mio nipote mentre guardiamo i Velvet al Dom che suonano un’ininterrotta jam “orientale” con Cale che incombe sulla sua viola accordata aperta e Lou Reed che strimpella davanti a una muraglia di amplificatori e poi c’è uno stacco sul pubblico che è tutto pieno di questi scenaioli warholiani che ballano come coglioni su questo bordone senza muovere gomiti e ginocchia, in una catatonia metamfetaminica, e con tutta l’ingenuità del 1966 guardo mio nipote e gli dico “cioè, mi domando come potresti mai entrare a fare parte di un gruppo di gente del genere”.

Okay, non ce l’ho con il fare i pompini e non ce l’ho con gli omosessuali. Una persona etero non può permettersi di fare nulla di neanche lontanamente vicino a una cosa del genere in questo momento storico, perché come per i neri la memoria delle terribili oppressioni è ancora troppo fresca – a dire il vero là fuori dove la maggior parte degli americani vive sono ancora cosa di tutti i giorni, il che vuol dire che mi scuso se suona paternalistico ma mi sento dispiaciuto per chiunque debba vivere tra completi rincoglioniti che ammiccano a loro con occhi che luccicano di gioia sadica solo perché capita che siano un po’ diversi in un modo o nel’altro. Ci sono delle sofferenze dietro all’essere alla moda, dietro alle stronzate S&M/D&D effeminate che qualunque sadico o masochista degno di questo nome dovrebbe odiare almeno quanto le odia l’autore di questo pezzo, dolori che hanno a che fare con sorrisetti alle spalle e individui chiaramente incompleti, coglioni repressi che ti vogliono fare mangiare merda perché ami o ami fare l’amore con persone del tuo stesso sesso o hai altre propensioni che non rientrano nelle strette maglie del loro eterno terrore…

Comunque l’altra cosa che fanno quelli di Punk! è organizzare ai Dictators un concerto, in un locale nuovo e fuori dal giro, che attira un sacco di gente incuriosita e che vuole vedere questi tizi di cui ha tanto sentito parlare.

8. Il secondo disco si chiama Manifest Destiny. Shernoff ci suona le tastiere. È il disco meno riuscito del gruppo, anche se contiene almeno due perle.
Una è Young, fast, scientific, che contiene il verso “rock and roll made a man out of me” che è talmente enorme che i KEAP hanno dovuto scrivere una canzone con quel titolo.

L’altra è la cover di Search and destroy degli Stooges che, beh, fate un po’ voi.

Neanche questo disco va bene e nel 1978 Mendoza se ne va, per finire poi nei Twisted Sisters. Shernoff torna a fare il bassista a tempo pieno e scrive le canzoni per un nuovo disco.

9. Bloodbrothers è il titolo del terzo disco, il primo in cui Manitoba canta TUTTE LE CANZONI. Il fatto che non sia un cantante è opzionale. Non ci fai quasi nemmeno caso.
Il disco è famoso per un featuring misconosciuto, quello di Bruce Springsteen.
New York in quegli anni era un posto dove succedevano un sacco di cose, musicalmente, e Springsteen era uno con le orecchie lunghe e frequentazioni variegate (come dovreste sapere, visto che scrisse Because the night per Patti Smith e Hungry Heart per i Ramones, salvo poi tenersela per sé) (se volete approfondire la NYC musicale di quegli anni, c’è un buon libro da poco pubblicato in Italia da Codice Edizioni: New York 1973-1978. Cinque anni che hanno rivoluzionato la musica). Fatto sta che Springsteen è nello studio di fianco che registra Darkness on the edge of town, in una pausa si affaccia e chiede se gli fanno fare qualcosa, nello specifico urlare ONE! TWO! ONE TWO THREE FOUR! alla fine dell’assolo di Faster and Louder.
Altri due pezzoni sono Stay with me, pezzo “alla Ramones”, e Baby Let’s Twist, che ebbe un minimo di vita radiofonica, una specie di Louie Louie in minore

(continua)

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Una canzone di Natale per la fine del mondo

Mayan Style

La tradizionale canzone di Natale dei KEAP di quest’anno ha un video realizzato grazie all’aiuto di un po’ di amiche e amici sparsi qua e là per il mondo e grazie a una certa quantità di pupazzetti e ciappini che infestano le nostre case.
Ora posso dire che in un video del mio gruppo compare Handsome Dick Manitoba, anche se in pupazzetto.

Io ho scritto la musica e suonato le chitarre, Dario ha scritto il testo (oltre che la battuta “Brian Mayan”) e ha fatto i cori, Enrico ha cantato e ideato il controcanto del ritornello.
Enjoy.

Chi volesse solo l’audio lo trova qui:

Per i completisti, l’intera saga di Natale è questa, nel corretto ordine di ascolto:

 

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Quando i Beatles erano un duo di urlatori

L’archivio della Stampa permette di fare ricerche su tutte le annate del giornale, dal 1867 a oggi.
Uno strumento potentissimo per fare ricerche su “come eravamo” senza spostarsi da casa per andare in biblioteca. Sono certo che ci sia gente che lo usa per cose altissime e utilissime. A me, invece, è venuto in mente di andare a cercare cosa scriveva il giornale della FIAT degli eroi della musica moderna.
Il primo esperimento è stato succosissimo:

Questa anonima “fotonotizia” del 28 ottobre 1963 è stata evidentemente passata senza sapere bene di che cosa si trattasse, visto che il redattore ha deciso che questi “Beatles” dovevano essere un duo, tipo gli Everly Brothers, visto che nella foto sono in due. Così Harrison non solo è immortalato brancato da una giovane svedese ma diventa persino titolare al 50% dell’impresa.
La seconda menzione dei Beatles in quel di Torino è di sfuggita, in un articolo sulla crisi del cinema inglese del 7 gennaio 1964:

Nel 1953 c’erano in Inghilterra oltre quattromilacinquecento cinematografi. Adesso ne sono rimasti duemila. Tutti gli altri sono stati trasformati in sale da ballo, dove la gioventù inglese impazzisce per i «Beatles», un gruppo orchestrale di quattro urlatori

La terza volta che si parla di Beatles, il 16 gennaio 1964, è con un articolo e una foto tutti per loro:

Di nuovo, nell’articolo, George suo malgrado sale sugli allori:

I «Beatles» sono quattro, tutti di Liverpool, hanno dai 20 ai 23 anni e si chiamano Ringo Starr, John Lennon, George Harrison e Paul Cartney. Il primo suona la batteria, gli altri tre suonano la chitarra. John, che è ammogliato ed ha una figlia, scrive con George le parole e la musica delle canzoni che mandano in estasi le ragazzine britanniche.

In riva al Po dovevano avere un debole per il Beatles schivo, ma dovevano essere anche parecchio spaventati da queste orde di giovani urlanti.
Il primo titolo dedicato ai Rolling Stones è un capolavoro, in questo senso:

È l’agosto del 1964 e nel sottotitolo c’è la parola “soqquadro”. Il resoconto è purissimo rock and roll:

I primi incidenti si sono verificati al termine di un’esibizione dei « Rolling Stones », cinque giovani inglesi che suonano le musiche moderne più vivaci e che appunto al Casinò di Scheveningen avevano raccolto migliaia di fanatici ascoltatori. Che cosa sia successo esattamente non è possibile sapere. La polizia, quando è intervenuta in forze, accorrendo persino dall’Aia, ha avuto il suo da fare a dividere gruppi di ragazzi e ragazze, che si picchiavano o si dedicavano ad atti di vandalismo contro i negozi, gli alberghi e le automobili. Una ragazza è. stata trovata completamente svestita e gli agenti l’hanno ricoperta alla meglio con un impermeabile. Altre due ragazze di sedici e diciassette anni si sono presentate spontaneamente alla polizia, piangendo e sostenendo di essersi trovate spogliate nel mezzo della mischia.

È invece il 19 luglio del 1968 la prima volta che Jimi Hendrix fa capolino sulle pagine della Stampa, in un box di micro-recensioni:

La mia notizia preferita su Hendrix però è quella successiva, su StampaSera del 3 dicembre 1968, intitolata “SACERDOTE FA SEQUESTRARE LA COPERTINA DI UN DISCO”:

Un sacerdote ha visto la copertina in un disco esposta in un elegante negozio della Crocetta, si è scandalizzato e dopo una breve discussione con il commerciante ha telefonato in questura ed ha chiesto l’immediato sequestro della fotografia incriminata che raffigurava donne nude. L’ispettrice di polizia e gli agenti che la accompagnavano erano imbarazzati ed hanno deciso di «ritirare» la copertina. Sulla singolare questione deciderà in giornata la magistratura. La fotografia a colori rappresenta un folto gruppo di donne nude, in una posa che ricorda certi famosi dipinti di Delacroix. E’ la copertina di un disco di musica psichedelica con interprete il capellone inglese Jimi Hendrix. Appartiene alla Casa «Track» e non viene normalmente distribuito in Italia. L’ha comprato, durante una recente visita a Londra, Mario Pecol, che è appunto titolare del negozio di corso De Gasperi n. “7-bis. L’altra mattina un sacerdote ha notato la copertina, è entrato nel negozio ed ha chiesto al Pecol di toglierla immediatamente dalla vista dei passanti. «Ma se va in una qualunque edicola — ha ribattuto il commerciante — trova fotografie molto più scandalose di questa». Il religioso ha insistito, quindi si è rivolto per telefono alla squadra del «Buon costume». Pochi minuti dopo l’ispettrice di polizia Giuliana Cervini era nel negozio in compagnia di due agenti. Era la prima volta che le capitava di dover intervenire per il sequestro di un disco. Si è consultata a lungo con i colleghi, quindi ha ritirato l’oggetto della contestazione rilasciando una ricevuta nella quale si legge che il provvedimento è stato preso «per far fotografare in questura la copertina». In giornata l’ispettrice-capo di polizia, dottoressa Meini, si reca dal procuratore della Repubblica di Torino perché decida se mantenere il sequestro oppure restituire al negoziante la copertina incriminata.

È un quadretto bellissimo con il prete, l’ordine costituito, il negoziante che va a Londra a comprare i dischi che in Italia non si trovano. E mi piace pensare che in questura la fotocopia della copertina sia rimasta appesa in molti armadietti per anni. Purtroppo non ci sono più notizie al proposito.

E gli Who?
Facile. Stampa Sera, 24 agosto 1966, rubrica delle domande dei lettori:

Chitarre infrante
Perché i Beatles si chiamano Beatles?
Elena Delogu, Roma

«Beatle» significa scarabeo. I quattro cantanti hanno scelto per il loro complesso questa denominazione perché nell’abbigliamento e soprattutto nell’acconciatura dei capelli somigliano vagamente a coleotteri. Il mondo della musica leggera anglosassone (e per riflesso anche il nostro che lo imita molto) è pieno di simili stravaganze. In Gran Bretagna accanto ai Beatles sono celebri i Rolling Stones «pietre ohe rotolano», dal proverbio «a rolling stone gathers no moss»; cioè «pietra che rotola non prende muffa», gli «Animals», i «Pretty Things» (= «Cose carine», detto ironicamente, perché son molto brutti) i «Kinks» (= «grilli per la testa» o anche «accessi di tosse»), la chiassosissima «Band of Angels («banda di angeli») e, ultimi arrivati, i «Who» (= «Chi», cioè invece d’un nome han scelto un pronome). I «Who» hanno la caratteristica di spaccare deliberatamente le loro chitarre sulla scena. I «Beatles» al confronto paion musicisti da salotto del ‘700.

Si noti che il redattore sfata la cattiva traduzione “Beatles – scarafaggi” e che sembra essere decisamente sul pezzo per quello che riguarda la musica inglese.

I Beatles sono comunque ancora nel 1970 il perno attorno al quale far ruotare la spiegazione del rock. I Led Zeppelin, per esempio:

Londra, 17 settembre. E’ la fine di un’era: i Beatles hanno ceduto il trono della musica pop al quartetto dei Led Zeppelin. L’avvenimento è stato definito «una rivoluzione pop» dal settimanale «Melody Maker», i cui lettori hanno decretato il tramonto dei lungocriniti ragazzi di Liverpool. Ma, come dopo ogni rivoluzione, è valido anche in questo caso il detto «plus ça changen». Gli Zeppelin sono un complesso rock, nella tradizione dei Beatles. Essi, tuttavia, rappresentano la musica underground, cioè quella del mondo semi-clandestino hippie, più dei Beatles, che da sei anni facevano ormai parte dell’establishment musicale, e sociale, britannico. E’ stata una «rivoluzione nella rivoluzione». Gli Zeppelin hanno conquistato il primo posto tra i complessi inglesi ed internazionali, oltre a quello per il miglior album britannico. Al secondo posto, i Beatles, ormai divisi e in declino. Non hanno giovato loro i miliardi, le onorificenze, le attività cinematografiche, i litigi, il distacco anarchico dalla gioventù britannica in continua evoluzione. John Lennon dipinge e fa il rivoluzionario, Paul McCartney incide dischi per conto suo, George Harrison si occupa di filosofie orientali e Ringo Starr, il meno dotato musicalmente, suona la batteria a casa propria. I Beatles hanno rappresentato per la gioventù meno sofisticata d’Inghilterra ciò che fu il commediografo John Osborne («Ricordo con rabbia») per la classe media degli Anni Cinquanta. La musica, le idee, le evasioni oppiacee dei quattro musicisti hanno effettuato una rivoluzione nei costumi della gioventù britannica. Il mondo dei Beatles, prima romantico, si stemperò nella magia allucinogena di Sergeant Pepper, quindi nella delicatezza formale di Abbey Road, per scivolare nella relativa mediocrità di Let it be. Gli Zeppelin raccolgono l’eredità dei Beatles e portano nuovi valori, sia pure incerti e talvolta eccentrici, della ribellione underground, non solo musicali. Non nasce quella società alternativa che promuovono con le loro attività, ma in compenso si arricchiscono. I Led Zeppelin hanno già guadagnato tre miliardi di lire. I loro nomi forse diventeranno famosi quanto quelli dei loro predecessori. Jimmy Page è il chitarrista, John Bonham è il batterista, John Paul Jones si avvicenda ai vari strumenti e Robert Plant è un ottimo cantante. I loro dischi più famosi sono Whole gotta love e How many more times. Sono ragazzi capaci di sviluppare una musica emotiva con ritmi piacevoli non privi d’un forte swing. Non amano le luci della ribalta, non hanno mai inciso un disco a 45 giri, né sono mai apparsi alla televisione britannica. La loro musica, dicono i fans, fa «partire» chi ascolta, è capace cioè di dare sensazioni simili ad un «viaggio» psichedelico. Anche sul loro conto, tuttavia, già circolano voci di una probabile scissione. Ieri sera gli Zeppelin sono venuti appositamente dalle Hawaii, dov’erano in vacanza, a Londra, per partecipare ai festeggiamenti in loro onore al Savoy Hotel. Robert Plant è stato anche nominato il cantante più popolare della Gran Bretagna. Al ricevimento mancavano i Beatles sconfitti. Dalle loro lussuose dimore di campagna, John, Paul, Ringo e George non hanno commentato la sconfitta. Con gli Zeppelin, tuttavia, non si ripeterà la «beatlemania». I nuovi idoli della musica pop non hanno nuovi messaggi da dire ai giovani inglesi. Venderanno più dischi, ma saranno sempre i Beatles ad avere rappresentato una svolta determinante nella musica pop dei nostri tempi.

L’ho copiato tutto perché comunque è un bel pezzo in diretta dalla fine di un’epoca. Il 24 novembre del 1970, “Led Zeppelin III” figurava come disco da regalare “alla ragazza beat”.

A sorpresa, i Deep Purple appaiono per la prima volta in un box di consigli discografici,il 25 febbraio 1969, così:

E i Black Sabbath? La loro prima citazione è in un articolo del 4 agosto 1970 sui riti satanici (figuriamoci):

Le mode girano. La stregoneria è ormai l’ultimo grido della generazione pop e i « figli dei fiori » stanno cedendo il passo ai «figli di Satana». Un avido commercialismo già sfrutta la nuova voga demenziale: gli  opuscoli sulle pratiche occulte e le ristampe dei vecchi trattati di magia nera si moltiplicano; l’arte informale volge al «prisma magico» (proprio a Roma un pittore esperto in astrologia e geomanzia ha tenuto una mostra) e abbiamo i dischi della dannazione ritmica, abbiamo i complessini musicali, come Black Sabbath e Black Widow (inglesi, naturalmente: da dove, se non dalla Gran Bretagna può partire l’offensiva degli spettri?), specializzati in «messe nere» sceniche e così via.

C’è anche il resoconto di un travagliato festival palermitano del 1971 in cui i nostri hanno diviso il palco con, tra gli altri, Bobby Solo, nel settembre del 1971:

Assenti i Circus 2000, assenti i Mungo Jerry, rinunciatari gli Osanna per non essere stata accolta la loro richiesta di esperti addetti alle luci, mentre dal canto loro i Black Sabbath facevano le bizze perché pretendevano di  giungere alla Favorita in «Rolls Royce». In queste condizioni, Joe Napoli si è visto costretto a ripresentare Claudio Rocchi, i «Delirium» e Bobby Solo, i quali si erano già esibiti nella seconda serata. Le esecuzioni dei «Delirium» e dei «Black Sabbath » hanno salvato lo spettacolo dal grigiore, ma la loro esibizione ha avuto come risvolto un’ondata incontenibile di entusiasmo. Le transenne sono siate abbattute e il palcoscenico è stato invaso dal pubblico.

(continua? Continuerà?)

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In Dublin fair city (3 di 3)

Il Gallagher migliore è quello morto.

Si diceva che a Dublino tendenzialmente si mangia presto, specie se vuoi spendere poco.
Con il senso del tempo completamente partito, ci infiliamo a cena attorno alle 19.30, ma per me potevano essere le due di notte o le nove. Era buio, di più non so.
Affrontiamo una leggera cena locale a base di stufati, pane di segale e ciotole di burro salato (ho dovuto contenermi per non dare spettacolo, ma giuro che avrei chiesto dell’altro pane per finire tutta la ciotola) e siamo pronti a buttarci di nuovo nella rutilante vita notturna dublinese!
(scusate il punto esclamativo e il grassetto, per un attimo ero convinto di stare scrivendo per nuok.it)

Prima torniamo verso Occupy Dame Street, dove c’è della gente che suona. Come ovunque a Dublino.
Poi scendiamo di nuovo per Grafton Street, dove c’è dell’altra gente che suona. Anzi, che Suona, con la S maiuscola: sono in due, batteria e basso, quarant’anni in due a dir tanto e sparano del funk precisissimo e orecchiabile come se niente fosse. Gli lascio degli spicci che se li meritano davvero.
Arriviamo fino in fondo alla via, a St Stephen’s Green e ci troviamo davanti a un hen party, un addio al nubilato, organizzato con i fiocchi: una trentina di donne dai venti ai cinquant’anni che sbarcano da un pullmino a noleggio, tutte vestite coordinate con cappello di pailettes, giarrettiera rosa in vista sulle calze. Portano come in trofeo un bambolo gonfiabile gonfiato e pronto all’uso, che si divertono a puntare verso i passanti. Seguiamo la comitiva a debita distanza per vedere dove vanno, c’è un momento molto WTF quando passano davanti a un teatro da cui stanno uscendo bimbette di una scuola di danza che hanno appena fatto il loro saggio e da un lato hai tutte queste bambine in abito da ballerina e dall’altro il bambolo. Oscar Wilde avrebbe scritto un aforisma meraviglioso, lo so.

Dopo avere gironzolato ancora un po’, chiudiamo la serata al Temple Bar Pub, dove c’è, indovinate un po?, una tizia che suona. Il Temple Bar è stato teatro, nel luglio del 2011, di un Guinness World Record: un tizio, Dave Browne, è salito sul palco per suonare la chitarra e ha smesso dopo cinque giorni (ogni 8 ore poteva fare una pausa di 40 minuti, più 3o secondi tra un brano e l’altro) e spiccioli, per un totale di 114 ore e 20 minuti.
Qui sotto lo potete ammirare, sulla destra, alla 93ima ora:

Quando la cantante l’ha annunciato sul palco c’è stata una meritata standing ovation per l’impresa compiuta. Come chitarrista invece non è che sia eccezionale, nel senso che è parecchio veloce ma anche parecchio inespressivo. Ma l’importante è che comunque posso spuntare dalla mia lista di cose da fare nella vita “stonare The Wild Rover in un pub irlandese” (resta Whiskey in the Jar, però).
È anche divertente notare l’allegra disinvoltura con cui chi suona da queste parti mette insieme brani tradizionali, grandi classici (tipo Sweet Home Alabama), vecchi successi da one hit wonder (ho sentito Save tonight di Eagle-Eye Cherry in almeno due pub diversi) e cose contemporanee (la tizia ha fatto una Someone like you di Adele da pelle d’oca). Rispetto all’Italia e alle pletore di cover band di Vasco o Ligabue o alla tristezza del pianobar con le basi midi c’è un abisso gigantesco di cultura musicale e rapporto con la musica.

La mattina dopo, affrontiamo la seconda colazione irlandese della nostra vita con una certa disinvoltura (Lucilla chiede se è possibile non prendere le salsicce e per punizione le portano doppia razione di uova), lasciamo i bagagli in albergo e andiamo a prendere l’autobus per Howth.
Cose da sapere per prendere l’autobus a Dublino: se non avete comprato il biglietto da qualche parte, lo fate a bordo. Dovete avere il denaro contato, in monetine. Se non le avete contate l’autista vi dà una ricevuta con cui potete andare a ritirare il resto in O’Connell street.
Howth, dicevo, è un’idea come un’altra: o per essere più precisi un borgo di pescatori a una quarantina di minuti da Dublino, su un promontorio circondato da scogliere. La cosa migliore da fare è prendere il 31 nei pressi della Custom House e scendere all’ultima fermata, in cima a una collina. Da lì si sale ancora un po’ e si arriva a un parcheggio da cui si dipartono i sentieri sulla scogliera, che offrono percorsi più o meno lunghi a seconda di quanto tempo si ha disposizione (e quanta voglia di camminare). Noi scegliamo quello più breve, che comunque regala un buon assaggio di quelle cose a cui pensi quando pensi all’Irlanda.

In fondo alla passeggiata, quando si entra a Howth, c’è un condominio che tiene in bella mostra un esempio di raffinato buongusto nell’arredare gli spazi esterni:

Dannati Lannister

Stremati dalla passeggiata e dalla frugale colazione, ci fiondiamo nel primo posto che troviamo per della caffeina zuccherata con il latte e un dolcetto: e lì mi scontro per la prima volta con le deviazioni dallo standard della pronuncia locale, quando la signora mi chiede se nel mio scone ci voglio “potter”. Era come se mi parlassero nell’incomprensibile caricatura dell’accento liverpooliano di Yellow Submarine, ma senza sottotitoli. Alla fine capisco che “potter” sta per “butter”, ma credo che invece non ci sia nulla da fare per la distinzione tra “white coffee”, “latte”, “cappuccino” e altre mille robe che alla fine hanno tutte lo stesso sapore.
Se vi piace fotografare gabbiani e affini, come dovrebbe piacere a qualsiasi persona nel pieno delle facoltà intellettiva, Howth è un bel posto: i pennuti sono ovunque e sono abituati agli umani quanto basta per fare delle foto ravvicinante (avere una compatta con uno zoom ottico da 26x aiuta, poi).

Ma l’attrazione zoologica di Howth, quella che ci ha portato lì, è un’altra: le foche. Da uno dei due moli del porto, dice la guida, è possibile vedere le foche, che gironzolano lì aspettando che qualcuno gli tiri da mangiare. “Ma figurati se le vedremo”, dicevo io la sera prima e mi tornava in mente di quando nell’estate del 1988 feci un viaggio con i miei in California.
Durante uno degli spostamenti in macchina sulla costa mio padre insiste per fermarci in un posto che si chiama “Baia delle foche”. Mia madre, con sano scetticisimo genovese per cui la fregatura è sempre dietro l’angolo, scende dalla macchina dicendo “ma figurati se ci sono le foche”. Pochi metri al largo, un nutrito gruppo di foche prende il sole su uno scoglio.
Tredici anni e passa dopo, la scena è la stessa: a ridosso del molo due foche se ne stanno beate in acqua a guardare verso i turisti aspettando del pesce. Poco dopo ne arriva una terza, che si piazza anche lei lì a fissarci con l’espressione un po’ da here we are, entertain us.

Restiamo un po’ a lì a guardare le foche che ci guardano mentre le guardiamo, poi passeggiamo fino in fondo al molo, irrigidendoci ogni volta che passano degli italiani.
Facciamo un salto alle bancarelle del mercatino che offrono un sacco di roba che sarebbe bello assaggiare, se non fosse che la colazione irlandese è ancora lì che aspetta. Poi però dopo un altro po’ che camminiamo ci viene un po’ di fame e ci diciamo che sarebbe un peccato andarsene senza avere mangiato neanche un po’ di fish and chips.
Il risultato è questo:

La cosa positiva è che abbiamo tirato tranquillamente avanti fino alla colazione del giorno dopo senza mangiare altro.

(e niente, finisce così. L’Irlanda voglio ricordamela così, con il sole in faccia e il fritto in panza)

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Autodifesa – marzo 2011

La mattina del 7 marzo, mentre dormivo in treno, qualcuno ha avuto la bella idea di fregarmi la borsa dove tenevo il Kindle e scendere al volo alla stazione. Io dormivo. Un signore seduto dall’altra parte del corridoio ha visto la scena ma non ha fatto niente perché pensava che il tizio seduto davanti a me (di cui io non ho memoria) fosse un mio amico. Stupido lui, stupido io a dimenticarmi di tenere bene a tracolla il borsello invece di lasciarlo sul sedile di fianco a me. Stupido io.
More about La Musica LiberataComunque, l’ultimo libro letto sul mio primo Kindle (nel frattempo sono arrivato al terzo, perché quello ordinato per rimpiazzarlo si è rivelato difettoso, ma ne ho già parlato) è stato “La musica liberata” di Luca Castelli, pubblicato da Arcana ma messo a disposizione lo scorso dicembre come pdf gratuito per un periodo limitato. Una scelta coerente con l’argomento del libro, vale a dire gli scenari aperti per il music business dalla diffusione di internet e la storia del processo di digitalizzazione della musica. Il racconto di Castelli ha il pregio di presentarsi, appunto, come un racconto, i cui capitoli prendono sempre il via dalle esperienze personali dell’autore, che è del 1976: le vicende narrate, dall’affermarsi del cd a quello dell’iPod e dei servizi di musica in streaming, vanno di pari passo con i cambiamenti reali portati nel modo quotidiano di rapportarsi con la musica di un’intera generazione. Infatti, dal punto di vista “nostalgico”, l’impatto è fortissimo. Per dire, leggendo il capitolo sulla nascita del p2p, mi sono trovato di colpo il ricordo delle prime, avventurose, connessioni a Napster con il 56k, le mezz’ore per tirare giù un brano, i file “incomplete” che bivaccavano nell’hard disk, le bestemmie quando qualcuno a cui eri collegato si sconnetteva, il senso di colpa quando dovevi proprio staccare la connessione e c’era qualcuno che stava scaricando da te, l’emozione di trovare finalmente pezzi rari che non avrei mai saputo dove recuperare altrimenti (la versione originale di Defender dei Manowar – e Orson Welles – tanto per dire, o la Stayin’ Alive di Ozzy e Dweezil Zappa). Ma in generale, quella di Castelli è una storia dell’industria discografica degli ultimi vent’anni, dei suoi errori e dei suoi tentativi di riguadagnare forme di controllo sulla diffusione dei propri prodotti. Il difetto principale è forse quello di peccare un po’ di ottimismo, specie per quanto riguarda l’Italia, dove giganteschi limiti strutturali (disponibilità di connessioni veloci) e culturali (“minchia oh, con Internet puoi avere tutto gratis, tipo che invece di andare di andare al cinema puoi scaricare il film ripreso dal cinema con il cellulare, troppo figo ahahahah”) temo che freneranno sempre la diffusione di servizi di streaming legalizzato a pagamento. Ma l’ottimismo entusiasta credo serva anche per provare a convincere chi legge a provare ciò di cui si parla. Scritto bene, scorrevole, divertente quanto serve, senza nemmeno fastidiosi picchi di indie-fighetteria. Per chi si interessa di musica, è un libro da leggere.

More about Lasciami entrareUn po’ un indie-fighetto, invece, lo deve essere John Ajvide Lindqvist, il cui “Lasciami entrare” (Marsilio) in originale riprende il titolo da un verso degli Smiths (“Let the right one in”), oltre a schifare più volte i Kiss. Però glielo si può anche perdonare, perché con questo romanzo (da cui è stato tratto un film svedese, bellissimo, nel 2008 e un remake americano nel 2010) (non si sa se il remake uscirà in Italia; forse, se esce, si chiamerà “Amami, sono un vampiro“) ha scritto l’anti-Twilight definitivo. Ma anche senza pensare a Twilight, ha comunque scritto una delle migliori storie di vampiri di sempre: Eli, la creatura co-protagonista della storia, è feroce e minacciosa, inquietante. La sua presenza porta morte e distruzione, sconvolge vite. Cerca di ristabilire una qualche forma di umanità, certo. Ma l’happy ending non c’è. Ambientato in una grigia periferia svedese degli anni ottanta, il romanzo è una storia d’amore sui generis tra un dodicenne complessato e vittima di bulli che sembrano usciti dritti dritti da un romanzo di Stephen King e quella che sembra essere una sua coetanea, ma vampira, che arriva nell’appartamento vicino al suo insieme al servitore umano che la aiuta a procurarsi il sangue. In mezzo, sangue, morte, alcolismo, grigiore, neve, freddo. Il titolo si riferisce a una credenza sui vampiri, quella secondo la quale non possono entrare in un’abitazione se non vengono invitati. Lindqvist la inserisce nel romanzo e la scena in cui Eli dimostra a Oskar che cosa succede se lei entra se lui non le dà il permesso è un capolavoro di inquietudine. Su schermo come su carta. La scrittura distaccata e asettica del libro aumenta il senso di disagio della storia: si assiste ad atrocità e a gesti di tenerezza come osservandoli da lontano, per non disturbare. È un libro potente,  che forse si dilunga un po’ troppo nella parte centrale, ma che riesce a ridare nuova linfa alla povera figura del vampiro, restituendogli fascino, ferocia e spessore.

More about Harry Potter and the Half-Blood PrinceMentre dormivo ignaro del furto di cui stavo cadendo vittima, di fianco a me c’era “Harry Potter and the Half-Blood Prince” di J.K. Rowling (Bloomsbury), sesto e penultimo tomo della saga, ormai quasi finito. Credo che, dopo il secondo libro, sia il primo della serie che non mi convince del tutto: difficile sorpassare le vette di Goblet of Fire e, soprattutto, Order of the Phoenix, però sembra che qui la Rowling si sia dedicata principalmente a sviluppare un lungo antefatto per il volume finale. La caratterizzazione dei personaggi, qui in un momento fondamentale della loro crescita per quanto riguarda i ragazzini, è sempre degna di ogni ammirazione, però, salvo l’accelerazione degli ultimi capitoli, succede davvero poco: ci si trascina da una visione sul passato di Voldemort all’altra, aspettando la fine dell’anno scolastico che, da che mondo è mondo, è il momento in cui a Hogwarts succede la qualunque. Avevo già visto il film, quindi sapevo che cosa sarebbe successo alla fine, ma lo stesso il modo in cui la Rowling lo racconta è toccante e misurato. Peccato appunto che tutto quello che viene prima sia non così interessante.

More about Il Vangelo secondo Gesù CristoChiudo con “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” di José Saramago (Feltrinelli). Tra me e Saramago c’è una sorta di lotta: mi piace il suo tono, mi piace il suo sguardo sul mondo, il modo discreto e minimale che ha di raccontare, ma soffro tantissimo ad affrontare le sue pagine fatte di infiniti muri di testo, con le frasi lunghissime, i dialoghi senza virgolette, pochissimi punti a capo. Però trovo che spesso valga decisamente la pena di affrontare queste vere e proprie pareti di parole per ascoltare il suo modo di raccontare le storie. Come in questo caso. Il tema della riscrittura della vita di Gesù è sempre carico di fascino per gli scrittori (vi ho già detto che “Il Vangelo secondo Biff” di Christopher Moore è un capolavoro?), forse anche per l’incredibile laconicità dei Vangeli canonici, che fanno venire voglia di “tappare i buchi”. Alcuni lo fanno appoggiandosi ai vangeli apocrifi (a volte in modo un po’ cialtrone, vedi alla voce Dan Brown, o sfornando dei capolavori, vedi La buona novella di Fabrizio de André).

Saramago, invece, ha preso una strada diversa. Ha preso alcuni elementi fondamentali della vita di Gesù e li ha impastati in un romanzo che interpreta il rapporto tra uomo e Dio (e Diavolo). Il Gesù di Saramago non nasce da una madre vergine, si salva dal massacro voluto da Erode perché Giuseppe ascolta per caso una conversazione tra due soldati e nasconde la famiglia (invece di scappare in Egitto perché avvertito da un angelo), perde il padre crocifisso dai Romani perché confuso per un ribelle; soffre la fame quando ancora ragazzino abbandona la casa della madre per cercare fortuna altrove, vive insomma per lungo tempo al normale vita di un palestinese qualunque della sua epoca. In questo quadro realistico, tratteggiato con molta attenzione, Saramago fa entrare il divino come una presenza misteriosa, inquietante, che lascia segni agli uomini il cui senso sfugge (la misteriosa terra luminescente) e che non è mai possibile capire con esattezza se sia benigna o maligna. Dio e il Diavolo, così come gli angeli dell’uno e dell’altro, non sono facili da distinguere. E lo stesso Dio è un personaggio ambiguo, più simile alla sua versione bibilca (immensamente potente) che a quella cristiana (immensamente buono).
Per quanto mi riguarda ci sono due vette straordinarie, nel libro: una è quando Gesù spiega che, sì, potrebbe resuscitare Lazzaro ma che non lo farà perché nessuno dovrebbe meritare di provare due volte l’esperienza del morire. Una frase buttata lì che deflagra come una mina, sempre più potente ogni volta che ci si ripensa. L’altra è il dialogo che Gesù ha con Dio (alla presenza del Diavolo) su una barca in mezzo al lago di Tiberiade. Dio spiega a Gesù che ha bisogno di una morte in suo nome perché possa venire venerato al di fuori dei ristretti confini della Palestina. Gesù chiede “e basterà la mia morte per questo?”. Dio dice che, in effetti, no, ci sarà bisogno anche del sangue di qualcun altro. E partono cinque-sei pagine fitte fitte di martiri cristiani, con le cause della loro morte, indifferenziati per epoca (compare persino Maria Goretti); è un elenco vertiginoso e sanguinoso di atrocità. A cui seguirà poi la notizia che, una volta diffusa la fede, oltre a chi ha creduto in Dio, dovrà morire anche chi non vi ha creduto: eretici e miscredenti. La storia della fede diventa così una lunghissima scia di sangue, di cui Gesù è solo la primissima tappa.
È un libro per niente amichevole, come già detto, ma che ripaga il lettore con una storia potentissima che trasuda intelligenza e forza polemica (mai fine a se stessa) da ogni parola, senso dell’umanità e pietà. Non sorprende più di tanto che questo libro non sia amatissimo (eufemismo) nel mondo cristiano o che su ibs si trovino commenti rancorosi come questi:

Sconcertante la descrizione. Scrivendo “ritenuto blasfemo da alcuni cristiani ortodossi” spero che l’autore di questa descrizione stesse scherzando. Il libro assume un’ideologia materialista che appare evidente a qualsiasi persona sia minimamente informata sul Gesu’ vissuto nella storia, neanche credente. Se poi uno crede, non ne parliamo neanche. Altro che “ortodossi” :-)

Sono stupefatto da quanto riportato nella descrizione in quarta di copertina: «Questo libro è ritenuto blasfemo da alcuni Cristiani Ortodossi…». Il contenuto di questo libro è osceno e blasfemo per qualunque cristiano, a qualunque confessione appartenga. Saramago si diverte a sputacchiare sul Cristianesimo e a sporcare la figura di Gesù; c’è tutto il livore di un fallito ideologico comunista come il nostro caro “coraggioso” autore. Dipinge il Cristianesimo come male assoluto, mentre si è guardato bene dallo scrivere qualche riga sugli islamici dopo l’11 Settembre, Beslan, Madrid, Bali etc… A mio parere non vale la carta su cui è stato scritto. Brutto, volgare, banale, oscenamente penoso!

Una rara immagine del blogger impegnato nella lettura del Vangelo secondo Gesù Cristo

È anche un grandissimo romanzo fantastico; è un tratto che si prende poco perché Saramago è uno scrittore “serio” e quindi la “letterarietà” ingloba tutto, però va detto che il modo che ha lo scrittore portoghese di usare l’elemento sovrannaturale in questo romanzo è davvero potente e intrigante. Se si prova ad astrarre la storia dal suo ri-raccontare il mito fondativo di una religione realmente esistente e la si immagina come una vicenda originale, ci si accorge di quanto sia misterioso e intrigante il lato sovrannaturale della vicenda, quanto siano ben tratteggiate le figure di Dio e del Diavolo. Se non fosse così faticoso (vedi la foto di fianco) da leggerlo, potrebbe anche essere consigliato come un grande romanzo fantastico (come i testi da cui è ispirato, si potrebbe dire); ma anche se è fatico, forse è il caso di consigliarlo come grande romanzo fantastico.
Fate uno sforzo, concentrazione, e sarete ricompensati da un grande libro.

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Bevi bevi bevi

Grazie ai buoni uffici della Lega, probabilmente diventerà legale farsi la grappa in casa.
Oggi l’operazione è illegale per due motivi: il primo, di ordine economico, riguarda l’evasione della tassa sui distillati. Il secondo è il fatto che l’operazione non è esattamente sicurissima e si rischia di lasciare nella bottiglia del metanolo.
Il disegno di legge invece fa uscire dalla clandestinità i produttori “artigianali” già esistenti, previo invio di una comunicazione all’ispettorato provinciale. Si rivolge a quelle aziende agricole che producono, per esempio, vino o frutta e già oggi solitamente, dicono quelli della Lega, si fanno la loro grappina da far degustare ai clienti o agli amici o. La soglia massima di produzione annua (calcolata non ho capito se a individuo o a nucleo familiare o) è una damigiana da cinquanta litri, con il divieto di vendere quanto prodotto.
Onestamente, non conosco abbastanza la situazione per dare un giudizio sulla legge in sé, se danneggerà i produttori “industriali”, se sarà pericolosa per la salute dei consumatori o altro. Come sempre, mi aspetto tutto il male possibile, ma sono io che sono tarato così.

Quello che mi interessa di più è il paragone che è venuto in mente a molti leggendo la notizia: perché la grappa sì e la marijuana no? Un privato che si metta nella serra delle piante di canapa e si produce “erba” per sé e i suoi amici (esattamente come prevede il disegno di legge sui distillati) commette automaticamente il reato di spaccio. E poi magari lo ammazzano pure di botte in carcere.
Dice: ma la marijuana è una droga!
Anche l’alcol. Sono sostanze psicotrope. Solo che su una lo stato ti fa pagare le tasse. Vai a dire a uno che ha in famiglia un alcolizzato che l’alcol non è una droga e poi corri via veloce che se ti prende c’è da ridere.
Dice: ah, ma la cultura del vino, della grappa, il bouquet.
Conosco gente che ti parlerebbe per ore delle diverse varietà di canapa con toni quasi lirici.
Dice: ma un goccio di vino fa sempre un sacco bene.
Una volta frequentavo una ragazza che soffriva di forti emicranie. Aveva due modi per farsele passare: il primo era un terrificante pastiglione che costava una cifra e che la lasciava intontita in un modo piuttosto inquietante per mezza giornata. Il secondo erano due tiri di erba. E del resto l’uso terapeutico della cannabis è tutt’altro che una novità.

Insomma, per quello che mi riguarda il disegno di legge non fa altro che far stridere ancora di più l’ipocrisia dell’atteggiamento che da sempre c’è verso le due sostanze. E fa ridere che mentre si annuncia “tolleranza zero” verso chi guida dopo aver mangiato anche solo una caramella al rosolio (con il bizzarro effetto a spirale che più abbassi il limite più trasgressori troverai da urlare ai telegiornali) con l’altra mano si riempie il bicchiere in nome delle “tradizioni”.

Ma lasciamo la parola al mio gruppo preferito delle ultime due settimane, i Ministri:

ps: la storia di come la marijuana venne messa fuorilegge negli Stati Uniti, terminando contemporaneamente la coltivazione stessa della canapa (che per millenni è stata una delle piante più utili all’uomo) , è molto interessante. La linko da Encarta, che non è esattamente l’organo di informazione del vostro CSOA di quartiere. Qui sotto, un video d’epoca:

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