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Won’t you help to sing, these songs of revenge

La vicenda di Shakira che dissa il suo ex fidanzato paragonando se stessa a un Rolex e a una Ferrari e la di lui nuova fiamma a un Casio e a una Twingo mi sembra una buona occasione per rispolverare il blog e parlare di qualche revenge song, cioè quelle canzoni in un cui un’artista fa volare gli stracci verso un o una ex.
Non pretende di essere una trattazione esclusiva, sono solo quelle che mi vengono in mente (ovviamente, teniamo fuori Adele, la cui intera discografia ricade nella categoria).

You oughta know – Alanis Morrissette

La storia la sappiamo tutte/i: loro stavano insieme, lui l’ha lasciata per un’altra, lei gli chiede se la “versione più giovane di lei” gli faccia le stesse cose che gli faceva lui a teatro.
Ora, magari il problema era questo, Alanis: magari lui stava cercando di seguire l’Enrico VIII o quello che era.
Sul disco, ci suonava una specie di dream-team dell’Alternative Rock anni 90: Dave Navarro, Flea e Justin Hawkins, pronto a correre alla corte di Dave Grohl.

Quattro stracci – Francesco Guccini

A inizio anni novanta Francesco Guccini divorzia. Scrive sul rapporto con l’ormai ex moglie una canzone molto elegiaca e nostalgica, Farewell. Narra la leggenda che quando lei la sente risponde una cosa tipo “E quindi? Dovrei piangere?”.
Il Maestrone non la prende benissimo e butta giù quattro minuti di invettiva in sol maggiore, che raggiungono probabilmente l’apice con i delicati versi: “Nata di marzo, nata balzana, casta che sogna d’esser puttana” (ma c’è anche una delle massime gucciniane più citate, “ci vuole scienza, ci vuol costanza, per invecchiare senza maturità”.

Don’t think twice it’s all right – Bob Dylan

Suze Ruotolo (la ragazza che abbraccia Bob Dylan sulla copertina del suo primo disco, all’epoca sua fidanzata) decide di prolungare a tempo indeterminato la sua permanenza in Italia. Bob mette il capotasto alla chitarra, rispolvera un brano folk che ha imparato qualche tempo prima, ci canta sopra un testo nuovo e va all’incasso con la SIAE.
Sono tre minuti e mezzo passivo-aggressivi in cui Dylan dice che non c’è da stare a rimuginarci sopra, che va tutto bene, non è che fosse ‘sta gran cosa, “hai solo tipo sprecato il mio prezioso tempo”.
(poi Suze tornò dall’Italia e rimasero insieme ancora per un po’, lei ebbe un’aborto, lui iniziò una relazione con Joan Baez e tutto andò gambe all’aria. Dylan scrisse un’altra revenge song, Ballad in plain D, di cui poi si pentì – otto minuti e mezzo sul tema “tua madre e tua sorelle sono stronze”).

You’re so vain – Carly Simon

Lui è un inguaribile narciso convinto di potersele fare tutte, quando lei era più giovane l’ha illusa, ma comunque lui è così vanesio che penserà sicuramente che questa canzone parlerà di lui.
Nel 1972, anno della canzone, Carly Simon era spostata con James Taylor, e diceva che la canzone non parlava di una persona specifica, ma degli uomini in generale. Tuttavia, ci sono alcuni dettagli nella canzone che fanno pensare che si possa riferire a una persona specifica e così la stampa ha sempre cercato di identificare questo uomo misterioso. Ora sembra abbastanza appurato che alcune cose si riferivano all’attore Warren Beatty, ma c’è sempre stato un grande candidato al ruolo di protagonista di questa canzone (che tra l’altro ci canta pure): Mick Jagger. Nel 1983 Simon ha detto che la canzone non parlava di Mick, ma nel frattempo…

Star Star – The Rolling Stones

Nel frattempo, nel 1973 pubblicano una canzone che si chiama Star Star solo per ragioni di presentabilità ma il cui vero titolo è sempre stato Starfucker e in cui Mick Jagger sembra rispondere in alcuni punti alla canzone di Carly Simon, nel tratteggiare la figura di una groupie seriale di cui sembra conoscere molti dettagli.
Il testo è un trionfo di gioiosa volgarità, con cose tipo “Yeah, Ali McGraw got mad with you / For givin’ head to Steve McQueen”; mentre nelle versioni dal vivo (pazzesca quella del 1978 in cui gli Stones rivendicano di essere stati i New York Dolls prima dei New York Dolls) spunta pure il nome di Jimmy Page.

Pretty tied up – Guns n’ Roses

Chiudiamo con una cosa un po’ azzardata, ma credetemi: Pretty Tied Up è una revenge song per una rock band, cantata dalla rock band stessa a cui è dedicata.
La storia è questa: Izzy Stradlin’ è amico di Axl Rose fin da ragazzino, insieme si fanno tutto di cui ci si può fare, vanno a Los Angeles, fondano i Guns n’ Roses, diventano rockstar, fanno tutto quello che hanno sempre sognato di fare. Poi succede che Izzy si renda conto che o ci dà un taglio con la droga o muore; si disintossica e, per la prima volta sobrio da anni, si accorge che Axl è un insopportabile coglione, che quella vita gli è insopportabile e che il gigantismo raggiunto dopo appena un disco dal gruppo non fa per lui. Fa in tempo a scrivere qualche canzone per i due Use your Illusion e suonarle, prima di levarsi di torno, a novembre del 1991. Una di quelle canzoni è questa, che parla di una ragazza che ha sempre più bisogno di essere maltrattata e legata per provare qualche piacere e in cui la seconda strofa parla di un gruppo rock che una volta era una forza, ma che con il tempo è diventato una barzelletta. È un mistero come Axl non abbia capito di che cosa parlasse la canzone – che sta nello stesso disco in cui sfida a singolar tenzone i giornalisti che hanno parlato male di lui, citandoli per nome e cognome.
Con una certa coerenza, Izzy non è mai rientrato in pianta stabile nei Guns, salvo per qualche concerto. Se Enrico Brizzi avesse intitolato il suo romanzo di esordio “Izzy è uscito dal gruppo” non si sarebbe trovato con l’eroe eponimo che gli sputtana uno dei passaggi più significativi rientrando nel gruppo in tempo per scagliarlo nei piani più alti dello star system.

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Beatles e Rolling Stones, quanta rivalità

Una delle più durature leggende della storia della musica pop è la rivalità tra Beatles e Rolling Stones.
Da un lato i bravi ragazzi, dall’altro i ragazzacci.
Facile, pulito, efficiente.
Peccato che, nella realtà dei fatti, tra Beatles e Rolling Stones c’erano in realtà delle larghe intese. Non solo le rispettive case discografiche cercavano di coordinare le uscite per evitare di sovrapporsi, ma anche perché tra i membri dei due gruppi c’era comunque una certa frequentazione che in alcuni casi è anche sfociata in vere e proprie collaborazioni. Sono cose che sapranno in molti, ma nel dubbio, una piccola carrellata.

Per dire: nel 1962 i Beatles scazzano un’udienza con la Decca. Negli anni l’evento passa negli annali come uno dei più clamorosi epic fail della storia della discografia, ma va detto che con Pete Best alla batteria i Beatles non sembravano pronti per la sala d’incisione (sì, Pete Best era un batterista molto peggiore di Ringo)

Comunque, un anno dopo i Beatles sono i Beatles e Dick Rowe, uno dei responsabili della Decca si sta ancora mangiando le mani per avere detto a Brian Epstein “l’epoca dei gruppi con le chitarre è finita”. George Harrison un giorno lo chiama e gli dice: “Ciccio, vai a fare un salto al Crawdaddy a sentire quei tizi che suonano”. Quei tizi si fanno chiamare “The Rolling Stones” e Rowe, nel dubbio, li mette sotto contratto.
Gli Stones esordiscono su disco con una cover di Chuck Berry, Come on, di cui non sono convintissimi perché loro si sentono musicisti blues e suonare quella roba commerciale per ragazzini li mette un po’ a disagio, a punto che si rifiutano di suonarla dal vivo. Per il secondo singolo, il loro manager Andrew Loog Oldham si mette in contatto con Paul Mc Cartney e John Lennon, per i quali aveva lavorato come ufficio stampa, e chiede se per caso non hanno una canzone che avanza.
Lennon e McCartney non ci mettono molto a mettere tra le mani dei futuri rivali I wanna be your man, completandola davanti a un esterrefatto Mick Jagger (che non aveva mai visto nessuno scrivere una canzone). Non è la migliore composizione del duo, tanto che, come dirà anni dopo Lennon “la nostra versione l’abbiamo fatta cantare a Ringo”, però gli Stones la interpretano con il giusto piglio. Brian Jones ci mette una chitarra slide, il basso di Bill Wyman pulsa come si deve, Keith Richard si ritaglia un assolo mordace, Mick Jagger sprizza ardore adolescenziale e Charlie Watts è la solita sicurezza.

Sul retro del singolo compare Stoned, uno strumentale blues (Mick Jagger dice giusto ogni tanto “Stoned” e “out of my mind”) composto dal gruppo al completo, compreso il pianista Ian Stewart (vero e proprio membro originario del gruppo, escluso dalla formazione ufficiale per questioni di immagine; già Oldham doveva fare i salti mortali per non fare scoprire che Bill Wyman era parecchio più anziano del resto del gruppo). Il primo germe della produzione autonoma Jagger/Richards.

Nel giugno del 1967, Brian Jones si presenta armato di sax a una sessione di registrazione dei Beatles. Incide una parte in una canzone che si chiama You know my name, look up the number, che è poco più che un momento di cazzeggio in studio e resta chiusa negli archivi del gruppo fino a quando non esce nel 1970 come B-side di Let it be.

Qualche giorno dopo, Lennon e McCartney ricambiarono la visita e, accompagnati da Allen Ginsberg, capitarono negli studi dei Rolling Stones mentre questi stavano registrando We love you, una canzone che era un beffardo messaggio alle autorità inglesi che quello stesso anno avevano arrestato Jagger e Richards per possesso di marijuana. Era successo a febbraio del 1967, a casa di Keith Richards nel Sussex: la polizia aveva fatto irruzione e trovato droga e Marianne Faithfull seminuda (lei stessa bolla come “fantasie di poliziotti segaioli” la leggenda urbana che avesse un Mars tra le gambe e Mick Jagger che lo mangiava; all’epoca, dice, non era una che si tirava indietro, ma quella era una stronzata). George Harrison e la fidanzata se ne erano andati da poco: secondo alcuni la polizia avrebbe aspettato che se ne andassero per non trascinare i Beatles nello scandalo, ma non c’è alcuna prova.
Comunque, non accreditati, Paul e John cantano nei cori.
La canzone ebbe anche un videoclip che richiama il processo a Oscar Wilde (quella cosa che i videoclip li avrebbero inventati i Queen è una stronzata o quantomeno una grossa imprecisione).

Il 1967 è anche l’anno in cui esce Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, sulla cui copertina, tra le altre cose, è visibile una bambola con una maglia con su scritto “Welcome the Rolling Stones”. A fine anno esce il disco “psichedelico” dei Rolling Stones, Their Satanic Majesties Requests: se si guarda bene la copertina si possono notare i volti dei quattro Beatles nascosti.

satanic_majesties

Nel dicembre del 1968 i Rolling Stones registrano per la televisione un lungo spettacolo con ospiti come i Jethro Tull (unica occasione in cui si esibirono con Tony Iommi alla chitarra), The Who e i Dirty Mac, un gruppo occasionale formato da Mith Mitchell (batterista di Jimi Hendrix), Eric Clapton, Keith Richards (nelle vesti non troppo insolite di bassista) e John Lennon.

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Settant’anni, cinque corde, due dita e uno stronzo


KEITH RICHARDS

All you need to play it is five strings, two notes, two fingers and one asshole

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Quando i Beatles erano un duo di urlatori

L’archivio della Stampa permette di fare ricerche su tutte le annate del giornale, dal 1867 a oggi.
Uno strumento potentissimo per fare ricerche su “come eravamo” senza spostarsi da casa per andare in biblioteca. Sono certo che ci sia gente che lo usa per cose altissime e utilissime. A me, invece, è venuto in mente di andare a cercare cosa scriveva il giornale della FIAT degli eroi della musica moderna.
Il primo esperimento è stato succosissimo:

Questa anonima “fotonotizia” del 28 ottobre 1963 è stata evidentemente passata senza sapere bene di che cosa si trattasse, visto che il redattore ha deciso che questi “Beatles” dovevano essere un duo, tipo gli Everly Brothers, visto che nella foto sono in due. Così Harrison non solo è immortalato brancato da una giovane svedese ma diventa persino titolare al 50% dell’impresa.
La seconda menzione dei Beatles in quel di Torino è di sfuggita, in un articolo sulla crisi del cinema inglese del 7 gennaio 1964:

Nel 1953 c’erano in Inghilterra oltre quattromilacinquecento cinematografi. Adesso ne sono rimasti duemila. Tutti gli altri sono stati trasformati in sale da ballo, dove la gioventù inglese impazzisce per i «Beatles», un gruppo orchestrale di quattro urlatori

La terza volta che si parla di Beatles, il 16 gennaio 1964, è con un articolo e una foto tutti per loro:

Di nuovo, nell’articolo, George suo malgrado sale sugli allori:

I «Beatles» sono quattro, tutti di Liverpool, hanno dai 20 ai 23 anni e si chiamano Ringo Starr, John Lennon, George Harrison e Paul Cartney. Il primo suona la batteria, gli altri tre suonano la chitarra. John, che è ammogliato ed ha una figlia, scrive con George le parole e la musica delle canzoni che mandano in estasi le ragazzine britanniche.

In riva al Po dovevano avere un debole per il Beatles schivo, ma dovevano essere anche parecchio spaventati da queste orde di giovani urlanti.
Il primo titolo dedicato ai Rolling Stones è un capolavoro, in questo senso:

È l’agosto del 1964 e nel sottotitolo c’è la parola “soqquadro”. Il resoconto è purissimo rock and roll:

I primi incidenti si sono verificati al termine di un’esibizione dei « Rolling Stones », cinque giovani inglesi che suonano le musiche moderne più vivaci e che appunto al Casinò di Scheveningen avevano raccolto migliaia di fanatici ascoltatori. Che cosa sia successo esattamente non è possibile sapere. La polizia, quando è intervenuta in forze, accorrendo persino dall’Aia, ha avuto il suo da fare a dividere gruppi di ragazzi e ragazze, che si picchiavano o si dedicavano ad atti di vandalismo contro i negozi, gli alberghi e le automobili. Una ragazza è. stata trovata completamente svestita e gli agenti l’hanno ricoperta alla meglio con un impermeabile. Altre due ragazze di sedici e diciassette anni si sono presentate spontaneamente alla polizia, piangendo e sostenendo di essersi trovate spogliate nel mezzo della mischia.

È invece il 19 luglio del 1968 la prima volta che Jimi Hendrix fa capolino sulle pagine della Stampa, in un box di micro-recensioni:

La mia notizia preferita su Hendrix però è quella successiva, su StampaSera del 3 dicembre 1968, intitolata “SACERDOTE FA SEQUESTRARE LA COPERTINA DI UN DISCO”:

Un sacerdote ha visto la copertina in un disco esposta in un elegante negozio della Crocetta, si è scandalizzato e dopo una breve discussione con il commerciante ha telefonato in questura ed ha chiesto l’immediato sequestro della fotografia incriminata che raffigurava donne nude. L’ispettrice di polizia e gli agenti che la accompagnavano erano imbarazzati ed hanno deciso di «ritirare» la copertina. Sulla singolare questione deciderà in giornata la magistratura. La fotografia a colori rappresenta un folto gruppo di donne nude, in una posa che ricorda certi famosi dipinti di Delacroix. E’ la copertina di un disco di musica psichedelica con interprete il capellone inglese Jimi Hendrix. Appartiene alla Casa «Track» e non viene normalmente distribuito in Italia. L’ha comprato, durante una recente visita a Londra, Mario Pecol, che è appunto titolare del negozio di corso De Gasperi n. “7-bis. L’altra mattina un sacerdote ha notato la copertina, è entrato nel negozio ed ha chiesto al Pecol di toglierla immediatamente dalla vista dei passanti. «Ma se va in una qualunque edicola — ha ribattuto il commerciante — trova fotografie molto più scandalose di questa». Il religioso ha insistito, quindi si è rivolto per telefono alla squadra del «Buon costume». Pochi minuti dopo l’ispettrice di polizia Giuliana Cervini era nel negozio in compagnia di due agenti. Era la prima volta che le capitava di dover intervenire per il sequestro di un disco. Si è consultata a lungo con i colleghi, quindi ha ritirato l’oggetto della contestazione rilasciando una ricevuta nella quale si legge che il provvedimento è stato preso «per far fotografare in questura la copertina». In giornata l’ispettrice-capo di polizia, dottoressa Meini, si reca dal procuratore della Repubblica di Torino perché decida se mantenere il sequestro oppure restituire al negoziante la copertina incriminata.

È un quadretto bellissimo con il prete, l’ordine costituito, il negoziante che va a Londra a comprare i dischi che in Italia non si trovano. E mi piace pensare che in questura la fotocopia della copertina sia rimasta appesa in molti armadietti per anni. Purtroppo non ci sono più notizie al proposito.

E gli Who?
Facile. Stampa Sera, 24 agosto 1966, rubrica delle domande dei lettori:

Chitarre infrante
Perché i Beatles si chiamano Beatles?
Elena Delogu, Roma

«Beatle» significa scarabeo. I quattro cantanti hanno scelto per il loro complesso questa denominazione perché nell’abbigliamento e soprattutto nell’acconciatura dei capelli somigliano vagamente a coleotteri. Il mondo della musica leggera anglosassone (e per riflesso anche il nostro che lo imita molto) è pieno di simili stravaganze. In Gran Bretagna accanto ai Beatles sono celebri i Rolling Stones «pietre ohe rotolano», dal proverbio «a rolling stone gathers no moss»; cioè «pietra che rotola non prende muffa», gli «Animals», i «Pretty Things» (= «Cose carine», detto ironicamente, perché son molto brutti) i «Kinks» (= «grilli per la testa» o anche «accessi di tosse»), la chiassosissima «Band of Angels («banda di angeli») e, ultimi arrivati, i «Who» (= «Chi», cioè invece d’un nome han scelto un pronome). I «Who» hanno la caratteristica di spaccare deliberatamente le loro chitarre sulla scena. I «Beatles» al confronto paion musicisti da salotto del ‘700.

Si noti che il redattore sfata la cattiva traduzione “Beatles – scarafaggi” e che sembra essere decisamente sul pezzo per quello che riguarda la musica inglese.

I Beatles sono comunque ancora nel 1970 il perno attorno al quale far ruotare la spiegazione del rock. I Led Zeppelin, per esempio:

Londra, 17 settembre. E’ la fine di un’era: i Beatles hanno ceduto il trono della musica pop al quartetto dei Led Zeppelin. L’avvenimento è stato definito «una rivoluzione pop» dal settimanale «Melody Maker», i cui lettori hanno decretato il tramonto dei lungocriniti ragazzi di Liverpool. Ma, come dopo ogni rivoluzione, è valido anche in questo caso il detto «plus ça changen». Gli Zeppelin sono un complesso rock, nella tradizione dei Beatles. Essi, tuttavia, rappresentano la musica underground, cioè quella del mondo semi-clandestino hippie, più dei Beatles, che da sei anni facevano ormai parte dell’establishment musicale, e sociale, britannico. E’ stata una «rivoluzione nella rivoluzione». Gli Zeppelin hanno conquistato il primo posto tra i complessi inglesi ed internazionali, oltre a quello per il miglior album britannico. Al secondo posto, i Beatles, ormai divisi e in declino. Non hanno giovato loro i miliardi, le onorificenze, le attività cinematografiche, i litigi, il distacco anarchico dalla gioventù britannica in continua evoluzione. John Lennon dipinge e fa il rivoluzionario, Paul McCartney incide dischi per conto suo, George Harrison si occupa di filosofie orientali e Ringo Starr, il meno dotato musicalmente, suona la batteria a casa propria. I Beatles hanno rappresentato per la gioventù meno sofisticata d’Inghilterra ciò che fu il commediografo John Osborne («Ricordo con rabbia») per la classe media degli Anni Cinquanta. La musica, le idee, le evasioni oppiacee dei quattro musicisti hanno effettuato una rivoluzione nei costumi della gioventù britannica. Il mondo dei Beatles, prima romantico, si stemperò nella magia allucinogena di Sergeant Pepper, quindi nella delicatezza formale di Abbey Road, per scivolare nella relativa mediocrità di Let it be. Gli Zeppelin raccolgono l’eredità dei Beatles e portano nuovi valori, sia pure incerti e talvolta eccentrici, della ribellione underground, non solo musicali. Non nasce quella società alternativa che promuovono con le loro attività, ma in compenso si arricchiscono. I Led Zeppelin hanno già guadagnato tre miliardi di lire. I loro nomi forse diventeranno famosi quanto quelli dei loro predecessori. Jimmy Page è il chitarrista, John Bonham è il batterista, John Paul Jones si avvicenda ai vari strumenti e Robert Plant è un ottimo cantante. I loro dischi più famosi sono Whole gotta love e How many more times. Sono ragazzi capaci di sviluppare una musica emotiva con ritmi piacevoli non privi d’un forte swing. Non amano le luci della ribalta, non hanno mai inciso un disco a 45 giri, né sono mai apparsi alla televisione britannica. La loro musica, dicono i fans, fa «partire» chi ascolta, è capace cioè di dare sensazioni simili ad un «viaggio» psichedelico. Anche sul loro conto, tuttavia, già circolano voci di una probabile scissione. Ieri sera gli Zeppelin sono venuti appositamente dalle Hawaii, dov’erano in vacanza, a Londra, per partecipare ai festeggiamenti in loro onore al Savoy Hotel. Robert Plant è stato anche nominato il cantante più popolare della Gran Bretagna. Al ricevimento mancavano i Beatles sconfitti. Dalle loro lussuose dimore di campagna, John, Paul, Ringo e George non hanno commentato la sconfitta. Con gli Zeppelin, tuttavia, non si ripeterà la «beatlemania». I nuovi idoli della musica pop non hanno nuovi messaggi da dire ai giovani inglesi. Venderanno più dischi, ma saranno sempre i Beatles ad avere rappresentato una svolta determinante nella musica pop dei nostri tempi.

L’ho copiato tutto perché comunque è un bel pezzo in diretta dalla fine di un’epoca. Il 24 novembre del 1970, “Led Zeppelin III” figurava come disco da regalare “alla ragazza beat”.

A sorpresa, i Deep Purple appaiono per la prima volta in un box di consigli discografici,il 25 febbraio 1969, così:

E i Black Sabbath? La loro prima citazione è in un articolo del 4 agosto 1970 sui riti satanici (figuriamoci):

Le mode girano. La stregoneria è ormai l’ultimo grido della generazione pop e i « figli dei fiori » stanno cedendo il passo ai «figli di Satana». Un avido commercialismo già sfrutta la nuova voga demenziale: gli  opuscoli sulle pratiche occulte e le ristampe dei vecchi trattati di magia nera si moltiplicano; l’arte informale volge al «prisma magico» (proprio a Roma un pittore esperto in astrologia e geomanzia ha tenuto una mostra) e abbiamo i dischi della dannazione ritmica, abbiamo i complessini musicali, come Black Sabbath e Black Widow (inglesi, naturalmente: da dove, se non dalla Gran Bretagna può partire l’offensiva degli spettri?), specializzati in «messe nere» sceniche e così via.

C’è anche il resoconto di un travagliato festival palermitano del 1971 in cui i nostri hanno diviso il palco con, tra gli altri, Bobby Solo, nel settembre del 1971:

Assenti i Circus 2000, assenti i Mungo Jerry, rinunciatari gli Osanna per non essere stata accolta la loro richiesta di esperti addetti alle luci, mentre dal canto loro i Black Sabbath facevano le bizze perché pretendevano di  giungere alla Favorita in «Rolls Royce». In queste condizioni, Joe Napoli si è visto costretto a ripresentare Claudio Rocchi, i «Delirium» e Bobby Solo, i quali si erano già esibiti nella seconda serata. Le esecuzioni dei «Delirium» e dei «Black Sabbath » hanno salvato lo spettacolo dal grigiore, ma la loro esibizione ha avuto come risvolto un’ondata incontenibile di entusiasmo. Le transenne sono siate abbattute e il palcoscenico è stato invaso dal pubblico.

(continua? Continuerà?)

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