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Prima l’uovo?

La vicenda dell’uovo lanciato da una macchina in corsa a Daisy Osakue, atleta italiana di origine nigeriana, è riuscita, in pochissimi giorni, a evidenziare lo spaventoso baratro sociale, politico e umano nel quale siamo sprofondati. O, meglio, in cui siamo saltati festosi a pie’ pari, come bambini in una pozzanghera.

L’opposizione, o quella che dovrebbe essere tale, ha dimostrato di non avere alcuna reale strategia o prospettiva al di là del cavalcare il singolo evento (che coinvolgeva una persona più o meno pubblica e una “straniera” “buona” e presentabile – per giunta attiva nello stesso PD). L’epitome è il tweet di Matteo Renzi che, spericolato, trasforma il fatto in un “pestaggio”, quando già si sapeva che quella non era stata la dinamica. Un’operazione goffissima che ha trovato la sua giustizia poetica quando si è scoperto che uno dei tre lanciatori di uova è figlio di un esponente del PD locale.

Tutto il sistema dell’informazione ha, per l’ennesima volta, confermato la propria dipendenza dalla droga del qui e ora: rilanciare qualsiasi notizia, qualsiasi voce, qualsiasi dichiarazione, subito. Una gara forsennata a riempire qualsiasi spazio cliccabile in barba a qualsiasi consuetudine e pratica di buon giornalismo. L’immediato framing della notizia come agguato a sfondo razzista si basava su un assunto che è tutt’ora difficilmente verificabile, pure con i rei confessi.

I primagli italiani, al solito, hanno dimostrato che anche se non c’è stato un intento razzista nel ferimento esiste un ENORME problema di razzista. È noto che per i primagli non può esistere italiano se non bianco e se non vittima. Quindi, a caldo, su Twitter e Facebook si è letto di tutto: che era tutta una montatura perché il bendaggio non andava bene; che in quella zona è pieno di prostitute e i residenti esasperati l’hanno colpita perché pensavano fosse una di loro e non ne possono più; che Daisy Osakue si lamenta troppo; che non può essere italiana; che comunque suo padre è un criminale. Insomma, alla fine è venuto fuori il solito processo alla vittima, che non può lamentarsi perché, in sintesi, è negra. E il razzismo è colpa dei negri perché sono negri e non stanno con gli altri negri.

In questo clima, si capisce perché Daisy Osakue abbia percepito l’attacco ai suoi danno come razzista. O almeno, lo si capisce se si prova a fare uno sforzo mentale e si entra per un attimo nella testa di una persona nera (o comunque visibilmente non di probabile etnia “italiana”) in Italia. Un Paese il cui ministro dell’interno, il giorno dell’anniversario della strage di Bologna, non trova di meglio da fare che spararsi selfie da ragazzino facendo battute sul “caldo africano” che neanche lui può fermare. Un Paese in cui dalla scorsa estate il razzismo è diventato qualcosa di cui non vergognarsi più, ma da esibire.

Certo, ci sono i casi eclatanti, ma se volete davvero vedere il razzismo di tutti i giorni, prendete un treno regionale in un orario di punta e fate caso accanto a quali persone restano sempre dei posti liberi.

Curioso, eh?

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Il Professionista

Gaetano Pecorella, già di Potere Operaio, poi avvocato di Berlusconi, poi parlamentare (dice di sé: “È vero, sono state fatte leggi funzionali a determinati processi. Abbiamo fatto il lodo Schifani, poi dichiarato incostituzionale e che in effetti in qualche parte lo era, per consentire a Berlusconi di governare”), è presidente della commissione d’inchiesta sui rifiuti. Se avete letto Gomorra (e se non l’avete letto, per favore fatelo) saprete che una delle principali fonte di reddito e potere dei clan camorristici sono proprio i traffici illeciti di rifiuti.
Di conseguenza, sapere che Pecorella sembra essersi impegnato con tutte le sue forze a dare addosso a chi gli chiede del clan dei casalesi mette addosso una tristezza e una rabbia infinite.
Cito dall’articolo di Saviano su Repubblica:

Ho letto in questi giorni sulla rivista Antimafia Duemila che due ragazzi, Dario Parazzoli e Alessandro Didoni, hanno chiesto durante una trasmissione Tv a Gaetano Pecorella come mai, quando era presidente della commissione giustizia, difendeva al contempo il boss casalese egemone in Spagna Nunzio De Falco, poi condannato come mandante dell’omicidio di Don Peppe Diana. Mi ha colpito e ferito sentire alcune dichiarazioni dell’Onorevole Pecorella in merito all’assassinio di Don Peppe Diana. In una intervista al giornalista Nello Trocchia per il sito Articolo 21, Pecorella dichiara: “Io dico che tra i moventi indicati, agli atti del processo, ce ne sono tra i più diversi. Nel processo qualcuno ha parlato di una vendetta per gelosia, altri hanno riferito che sarebbe stato ucciso perché si volevano deviare le indagini che erano in corso su un altro gruppo criminale. E altri hanno riferito anche il fatto che conservasse le armi del clan. Nessuno ha mai detto perché è avvenuto questo omicidio, visto che non c’erano precedenti per ricostruire i fatti. Se uno conosce le carte del processo, conosce che ci sono indicate da diverse fonti, diversi moventi”.

La difesa di Pecorella è qui.
La cosa da tenere a mente è che a fare i professionisti dell’antimafia si finisce sottoscorta, o sparati, o saltati in aria, di solito.
A fare i professionisti dell’anti-antimafia si può ottenere, evidentemente, qualcosa di meglio.

(ps: banca Rasini)

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Inventare la tradizione è una tradizione

C’è qualcosa che mi lascia sempre (molto) perplesso quando sento gente che va ciancicando di “preservare la nostra tradizione, la nostra identità, la nostra cultura” e fregnacce simili. Questo qualcosa è il fatto che cultura, tradizioni e identità sono tutt’altro che dei moloch inamovibili, ma organismi viventi, che mutano con il tempo.
Prendete la cucina. Qual è uno degli alimenti con cui identifichiamo la cucina italiana?
Il pomodoro.
Bene. Da dove viene il pomodoro?
Dall’America.
Quando si è iniziato a usare a scopi alimentari? Nel XVIII secolo. Prima si pensava che fosse velenoso.
Da quant’è che si usa diffusamente in tutta Italia? Da metà Ottocento.
Oppure la polenta. Prima che con il kebab, la Lega ce l’aveva con il cous-cous, a cui opponeva la polenta. Bellissimo, peccato che in tutte le immagini che realizzavano la polenta avesse un bel colore giallo dovuto all’uso di farina di granoturco, non propriamente una pianta indigena (anche se coltivata già dal XVI secolo, non era certo il cibo degli antenati celti).
Oh, e a proposito dei fratelli celti, il kilt è un’invenzione di metà Settecento.
Insomma, con buona pace di tutti quanti, il mondo che ci circonda cambia. E’ la sua natura, non può fare altrimenti. Quello che oggi diamo per scontato una volta (dieci anni, cento, trecento anni fa) è stato considerato uno scandalo. Il caffè, al suo arrivo in Italia, venne visto come una bevanda diabolica inventata dai maomettani e diversi cardinali chiesero al papa di bandirlo.
Uno dirà: ma stai facendo tutti esempi di secoli fa. Oggi è diverso, la nostra cultura ora è formata e dobbiamo difenderla.
Certo, come era formata per gli uomini del XVI secolo la loro, di cultura. E invece stava cambiando, non si può mai dire se in meglio o in peggio. Ma stava cambiando.
Esattamente come sta cambiando ora.
Quindi, più che arroccarsi a difendere improbabili oasi di purezza culturale , uno farebbe meglio a imparare a preoccuparsi di meno di chi sparge paura aggratis e cercare di capire cosa sta cambiando e perché.

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New Italian Thing

Gola profonda non abita più qui

La Repubblica va all’attacco e cerca di creare il Noemigate.
10 domande a Berlusconi sulla natura dei suoi rapporti con la famiglia Letizia, tra l’interese pubblico e il tentativo di mettere nei guai il PresDelCons con uno scandalo a sfondo sessuale.

La memoria torna a dieci anni fa e all’impeachment di Bill Clinton.
Clinton rischiò di giocarsi la presidenza perché aveva mentito, ostacolando il corso della giustizia, nel processo per le molestie a Paula Jones. Clinton sostenne di “non avere mai fatto sesso” con Monica Lewinksy, poi disse che credeva che pensava che aver ricevuto del sesso orale non valesse come “sesso”. (ora, immaginatevi che personaggio meraviglioso deve essere uno che si inventa una supercazzola del genere).
Il fatto, dal punto di vista tecnico, era squisitamente etico, non morale: se il presidente mente di fronte alla legge, non può più fare il presidente.
Probabilmente, l’eco e lo squallore dello scandalo sessuale hanno avuto un ruolo non secondario nel far perdere ai democratici le elezioni del 2000 (assieme a tutti i casini che le caratterizzarono). Ma gli USA del 2000 erano una nazione assai meno dogmatica, nelle sue scelte di voto, di quanto non lo sia l’Italia di oggi. E soprattutto ai democratici si opponeva un partito vero, non un’informe e sempre più disorganizzata associazione di tizi.

The name of the game

Ma in Italia, oggi, l’idea di leadership politica che incarna Berlusconi (digressione: Berlusconi è un cognome che riempie la bocca, che risuona grasso e invadente, che negli ultimi 15 anni abbiamo pronunciato o scritto tutti quanti talmente tante volte che mi stupisco che riusciamo a farlo ancora. A volte è come se questa parola grossa e unutosa fluttuasse nello spazio attorno a noi, strusciandosi sui nostri vestiti, sulla nostra pelle, i capelli. L’esplodere sonoro dell’occlusiva bilabiale /b/, che si prolunga per un istante nella chiusura sorda della /e/, il frizzare della vibrante alveolare /r/, dopo la quale la lingua si ferma un istante al centro della bocca per far passare l’aria ai lati e dare vita al suono della /l/, poi si sposta indietro ed è la /u/, lunga e cupa, poi il rapido soffio della /s/ che si infrange sull’occlusiva velare sorda /k/ a cui fa seguito una /o/ che per un attimo sembra allargarsi all’infinito, prima di impennarsi nella nasale alveolare /n/ e di chiudersi in /i/, un suono che costringe gli angoli della bocca a tendersi all’indietro in una specie di impercettibile sorriso. Ecco la danza con cui la nostra bocca modula l’aria che le arriva dai polmoni per riprodurre quel nome, un kata che abbiamo tutti ripetuto mille e mille volte, riempiendolo ognuno con la sua inflessione, con il suo insistere su un suono anziché un altro, di volta in volta sussurrando ammirati o facendo esplodere fortissima la prima lettera, colpo di cannone che annuncia guerra) ha pochissimo a che vedere con quella che è stata l’esperienza delle democrazie occidentali emerse tra il XIX e il XX secolo. Esperienza che, in fin dei conti, è poco più che una parentesi, rispetto a forme di governo più  spicce e dirette .
Quello che emerso dal lungo travaglio post-manipulite e che ha trovato forma compiuta dopo le elezioni del 2008 è uno scenario completamente nuovo, in cui il partito principale in Italia è un non-partito, che pur dialogando con partiti più strutturati e tradizionali (la Lega e quel che resta di AN) è in realtà qualcosa di completamente diverso da essi; al potere che esercita non si riescono ad applicare le vecchie categorie della vita politica.
Normalmente, un partito punta alla sua sopravvivenza spostando in posizioni di retroguardia i suoi membri meno presentabili, perché la reputazione dell’organizzazione è più importante di quella dei suoi singoli membri. E la reputazione si basa sulla credibilità: in ogni sistema politico la menzogna è strutturale, ma verso l’esterno si deve mostrare di ricorrervi il meno possibile.
Quello che sta facendo Repubblica è qualcosa che in linea teorica è assolutamente legittimo: dimostrare che il Presidente del Consiglio sta mentendo, sovrapponendo versioni discordanti che danno l’impressione che stia cercando di mascherare qualcosa di potenzialmente dannoso per la sua reputazione. Il che dovrebbe indurre in quella che si chiama “opinione pubblica” dubbi sulla credibilità di un leader che si smentisce da solo ogni due giorni e svariati malumori nel suo partito, con conseguente fronda interna per il bene dell’organizzazione qualora il malumore dovesse sembrare eccessivo.
Di politici la cui carriera è stata sbriciolati da scandali di varia natura è piena la storia. Uno fa una cazzata che dimostra che è una persona di cui ci si può fidare (o talmente stupida da fare cazzate e farsi beccare) e cortesemente il partito lo mette da parte e ne prende le distanze. Una versione in giacca e cravatta dell’esilio dalla tribù dei sacrileghi, se vogliamo.
Il punto è che Berlusconi di tutto questo può bellamente fregarsene. Chi lo vota lo vota a prescindere. Lui è l’apoteosi dell’autorità carismatica teorizzata da Weber: viene seguito perché è lui. Perché è il personaggio pubblico che ha saputo costruirsi addosso. E’ leader di un partito (e di una coalizione di partiti) non perché è stato scelto dall’apparato, ma perché si è imposto come tale. Forza Italia era davvero il sogno di un visionario (che cercava di scampare la galera) retto solo dalle capacità comunicative di una persona. Più che un partito è un comitato elettorale, una macchina che ha lo scopo di arrivare laddove il capo non può arrivare. L’esoscheletro di Berlusconi.
Il fatto che Berlusconi menta e lo faccia compulsivamente come fanno tutti i grandi venditori non preoccupa i suoi elettori. Di conseguenza, con buona pace di Ezio Mauro, le bugie su come conosca Noemi Letizia e la sua famiglia non scalfiranno minimamente il suo potere, come accadrebbe in una normale democrazia parlamentare. Non l’hanno scalfito menzogne ben più gravi sul livello pubblico, come il fatto che prima negò che Fininvest avesse società off-shore e poi, una volta sbugiardato, sostenne che fare società off-shore è il minimo per una grande azienda. In altre parole, lo Stato è governato da una persona che si è sbattuta per anni per trovare il modo di pagare meno tasse possibile allo Stato stesso.
E uno dirà: vabbeh, ma queste sono questioni alte, che magari la gggente non capisce, se invece andiamo sul privato, sul torbido, sul sesso con le ragazzine tocchiamo più il cuore della gggente.
Rido. Forte.
Perché anche questo fa parte dell’immagine del capo. Intanto, da un lato, lo zoccolo tosto dell’elettorato berlusconiano crede a Berlusconi. Non ai giornalisti (di Repubblica poi. Già di default non ci credo io ai “retroscena” e agli scoop di Mauro e soci, figuriamoci chi guarda il tg4). Se lui dice che Noemi l’ha vista sempre e solo con i genitori, così è. Punto. Ma il lato trombeur de femmes (la r in più è voluta) di Berlusconi è comunque visto come un pregio, o al limite un peccatino veniale. Le reazioni alle esternazioni della moglie sono state istruttive in questo senso e hanno svelato il permanere di una cultura che associamo a tempi più remoti: l’uomo è libero e cacciatore, la moglie cornuta stia zitta e mantenga un contegno (cultura che per inciso appartiene anche a chi Berlusconi non lo può soffrire. Gli idioti sul piano privato si distribuiscono equamente).
Io non penso che saranno queste cose a minare il consenso di cui gode. Anzi, non riesco proprio a immaginare che cosa sia.

Hop hop hop! Din din din!

Forse la prima cosa necessaria per minare il consenso a Berlusconi sarebbe avere dall’altra una forza di opposizione credibile, unita e coerente. Cosa che il PD non è. E che probabilmente, a meno che non compaia un leader assolutamente straordinario, capace di unire le diverse anime e di dialogare con la sinistra, non sarà nemmeno alle elezioni del 2013. E questo leader dovrebbe essere in grado di competere con Berlusconi sullo stesso piano della costruzione del personaggio, della capacità visionaria e di entrare in risonanza con gli altri. Saper dire agli altri che cosa devono desiderare.
C’è più poco da girarci intorno: Berlusconi ha determinato questi ultimi 15 anni. Non ha cambiato gli italiani, quello no: ha solo saputo comunicare con i loro desideri, con quello che forse prima si vergognavano a esprimere. Ma ha cambiato la faccia e i modi della competizione politica, sempre più nella direzione di una sorta di dispotismo para-parlamentare, già oltre il presidenzialismo. Più ancora che nelle presidenziali americane, chi ha votato ha votato per o contro un uomo, non un politico. Dal 1994, il modo di porsi di Berlusconi è sempre stato “io ho fatto questo e quello per il mio paese come imprenditore perché sono una persona che pensa questo e quest’altro e ha queste altre doti. Adesso datemi il potere e lo farò come vostro governante”. Berlusconi è entrato in politica non per andare in parlamento a discutere, a perdere tempo: non ha chiesto a Fini un posto in lista. Ha fatto un partito e si è proposto come suo leader. Una cosa assolutamente al di fuori della prassi politica che prevedeva un cursus honorum piuttosto definito: fai politica nel tuo paesello, diventi consigliere comunale, poi magari passi alla regione, poi forse prima o poi ti candidano al parlamento, se va bene al senato, o forse ministro o poi… un percorso che era anche un’alfabetizzazione alla politica, ai suoi riti, alle sue regole, alle sue convenzioni. Che certamente non sono/erano tutte giuste e/o perfette, ma che  servivano anche a ribadire l’esistenza di una tradizione.
Berlusconi quasi da un giorno all’altro è arrivato e ha spazzato tutto. Mentre scrivo queste righe leggo che da Confindustria ha detto che il Parlamento è un luogo dove si perde del tempo.
La prima cosa che viene in mente è il famoso discorso di Mussolini: “Potevo trasformare quest’aula sorda e grigia in un bivacco per i miei manipoli…”. Ma è sbagliata.
Berlusconi non è fascista. I fascisti duri e puri lo vedono come pluto-borghese fumo negli occhi. Non è nemmeno antifascista. Come disse tempo fa, l’intera questione è una perdita di tempo, per uno come lui che pensa a lavorare.
Il modello piuttosto è aziendalista; infatti i ministri sono “efficienti come membri di un CdA”.
E’ un culto del capo di nuova concezione, totalmente slegato da qualunque ideologia politica. Con scarsissime basi ideologiche, se non in negativo (“non siamo comunisti”). Berlusconi è il capo non in quanto inventore di una dottrina politica o suo massimo interprete: è il capo perché è il più bravo, per il suo curriculum, perché è quello che sa cosa va fatto. E’ il capo perché l’azienda è sua. Ha chiesto se poteva prendersela, gli hanno detto di sì e se l’è presa.
Gli altri sono collaboratori, ai quali si possono delegare dei compiti minori o messa in atto di disposizioni, ma che non devono interferire con il livello direzionale.
E soprattutto non va mai messa in questione in pubblico l’autorità del leader, perché questo crea discussioni, distrae energie e proietta all’esterno un’immagine negativa.
Il padrone è il padrone. C’è chi l’ha capito ed è contento di averlo come padrone e non crea problemi
Chi invece non ha capito e lo critica pubblicamente fa male all’azienda-Paese.
Punto.
Il padrone risponde a quello che vuole, quando vuole.

Shape of things to come

Rendiamoci conto: l’Italia, contrariamente a quello che pensiamo di solito, non è un posto noioso dove non succede mai nulla e dove tutto è fermo.
L’Italia è un posto in cui succedono cose interessanti (nel senso della famosa maledizione cinese).
Negli anni venti del XX secolo abbiamo inventato un modello totalitario che ha avuto una certa fortuna in Europa e nel mondo.
Oggi stiamo sperimentando una nuova e strana forma di governo, che dell’ordinamento democratico come l’abbiamo conosciuto mantiene una crosta esterna, che probabilmente diventerà sempre più sottile. Una forma di governo indissolubilmente legata a doppio filo a un uomo solo e alla sua biografia.
Tempi interessanti. Tempi interessanti.

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Papi was a rolling stone

In questi giorni sto leggendo I tre moschettieri, che non avevo mai letto. Sono un po’ dopo la metà, sto odiando il fatto che i pezzi che Dumas scriveva perché voleva scrivere sono divertentissimi ma sono affogati da pagine e pagine in cui lui e i suoi ghost writers devono allungare il brodo per portare a casa la pagnotta, ma questo vuol dire che ho superato la prima parte, quella in cui c’è la vicenda della collana della regina.
E sono contento di averlo fatto proprio un paio di giorni fa, perché quella vicenda cortigiana mi ha dato gli strumenti per apprezzare al meglio il polverone di ieri e oggi. Nel romanzo, il re e la regina si danno del voi, sono ognuno una piccola potenza autonoma, con i propri intrighi, i propri intrallazzi, le proprie mosse politiche. Un po’ come Silvio e Veronica. Peccato che nel XVII non ci fossero ancora i mass media, altrimenti le dinamiche sarebbero ancora più simili. Comunque è andata così, che la Regina ha deciso di farla pagare un po’ al Re bacchettandolo in pubblico (fossimo stati in Dumas sarebbe accaduto a un ricevimento, il concetto non cambia), il Re ha accusato potenze stranieri (la sinistra) di manipolare la Regina e per dimostrare il suo potere ha deciso di non darle ascolto. Non è bellissimo?
Questi, mettiamolo in chiaro, sono i meccanismi della messa in scena. Se poi il “litigio” sia vero o sia uno specchietto per le allodole, ognuno lo decida da sé. Per quello che mi riguarda, propenderei per la seconda ipotesi, a pelle.

Però la notizia del giorno (a parte quella sciocchezza sul referendum, che importa solo ai leghisti, e quell’altra robetta del federalismo fiscale, che interessa solo a chi paga le tasse) è il para-scandalo collegato all’intervista: Berlusconi che va alla festa dei diciott’anni di una ragazza di Napoli, aspirante valletta-velina-attrice-parlamentare-ministro (insomma, Qualcuno).

gli articoli più letti su corriere.it il 29 aprile 2009. Sasha Grey potrebbe pensare a prendere la cittadinanza italiana.

gli articoli più letti su corriere.it il 29 aprile 2009. Sasha Grey potrebbe pensare a prendere la cittadinanza italiana.

L’abbiamo sbirciata un po’ tutti, si direbbe. Abbiamo visto le foto di questa ragazza troppo truccata, con il glitter sulle unghie finte (inciso: passo tutti i giorni davanti a un’estetista che fa solo la french manicure, che di recente ha raddoppiato le dimensioni della botteguccia, comprandosi il negozio di fianco che ha chiuso), abbiamo letto la sua sciagurata intervista. E abbiamo elaborato delle teorie.
A me piace elaborare teorie, che poi è imbastire delle storie. Parti da dei punti fissi e tiri dei fili per unirli. Il risultato non è la verità. Può esserlo, ma secondo me lo scopo è un altro: costruire un percorso che ti permetta in mettere in luce qualcosa che ritieni interessante sul mondo in cui vivi. (Alan Moore ha fatto qualcosa del genere con From Hell, la sua serie sugli omicidi di Jack lo Squartatore: non ha cercato di scoprire un secolo dopo l’identità del serial killer, ma ha scelto tra le teorie quella che più si prestava a tracciare un ritratto della società vittoriana e delle sue ombre).
Ora, prendiamo quello che abbiamo, che sono affermazioni confermate da tutti gli attori della vicenda:

  • Berlusconi è stato a quella festa;
  • Berlusconi conosce la ragazza e la sua famiglia

Poi abbiamo due versioni diverse di cose accadute (o cose che non hanno una conferma esplicita):

  • Berlusconi sostiene di essere stato lì perché era in zona e di essere rimasto bloccato dalle troppe persone che gli chiedevano di fare delle foto;
  • Berlusconi conosce il padre della ragazza, che sarebbe stato l’autista di Craxi;
  • la ragazza sostiene di avere un rapporto privilegiato con Berlusconi, di vederlo spesso e di chiamarlo affettuosamente “papi”.

Ora, a me vengono in mente tre storie che potrei raccontare con questi elementi:

  1. Lolita reloaded: la ragazzina è un’amante di Berlusconi. Delle tre è la meno interessante (se volete peparla, in precedenza era la madre a essere un’amante di Berlusconi. Siete liberi di immaginare cose a tre).
  2. Quasi come Dumas: la ragazzina è la figlia illegittima di Berlusconi. Il padre di facciata se ne sta zitto e buono perché pagato o perché sterile o perché è un vigliacco. Già diventa più interessante, immaginatevi la scena di Silvio che si presenta a questa festa di compleanno come se fosse una scena de Il Divo di Sorrentino e ne capirete le potenzialità. Però in fondo non mi piace più di tanto, alla fine anche questa è limitata (e bisogna trovare una buona motivazione per il padre ufficiale).
  3. I wanna be somebody: Berlusconi, che conosce il padre della ragazza, va a quella festa per motivi elettorali. Magari c’è qualche di importante in zona, gente che fa girare grossi pacchetti di voti o forse perché comunque è il genere di cose che gli piace fare. La notizia gira, arriva nelle redazioni, la domanda viene posta a Veronica Lario, la madre della ragazza (che pare appurato le faccia da “manager” nei suoi tentativi di accesso al mondo dello spettacolo) prepara la figlia all’incontro con i giornalisti, mettono insieme delle risposte da manuale dello squallore, l’intervista esce, ci si buttano a pesce tutti. Berlusconi non smentisce nulla perché comunque il vecchio satiro è una figura che ha sempre la sua presa, la ragazza da un istante all’altro è Qualcuno. Giusto alle porte dell’estate, in tempo per qualche paparazzata, per buttarsi su un calciatore qualsiasi. Poi chissà, un’Isola dei Famosi, una Fattoria, un po’ di Uomini e Donne, si vedrà. Mi piace, questa ipotesi perché è una storia con i cattivi e i cattivi, in cui c’è gente squallida che usa altra gente squallida per sgomitare sulla strada per la Notorietà. Se dovessi raccontare la storia di quello che è successo oggi lo farei così, penso.

Chiudo citando Diego Cajelli:

La domanda, come sempre, non è se io ci credo.
E’: Quanto ti può essere utile tutto questo per raccontare una storia.

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25

Insomma, la buona notizia è 15 anni dopo la discesa in campo Berlusconi (nel frattempo diventato la personalità pubblica più importante del paese) ha trovato una mattinata libera per informarci che ritiene la Resistenza un valore fondante della nazione.
Malfidenti noi.
Nel frattempo, però, è tornato sul cavallo di battaglia della destra, i “ragazzi di Salò”:

E con rispetto dobbiamo ricordare oggi tutti i caduti, anche quelli che hanno combattuto dalla parte sbagliata sacrificando in buona fede la propria vita ai propri ideali e ad una causa già perduta.
Questo non significa naturalmente neutralità o indifferenza. Noi siamo – tutti gli italiani liberi lo sono – dalla parte di chi ha combattuto per la nostra libertà, per la nostra dignità e per l’onore della nostra Patria.

Io sarò settario, rancoroso, vendicativo. Ma penso che se in un giorno stai celebrando quelli  che hanno combattuto per una causa non puoi contemporaneamente pensare a quelli che combattevano anche per l’altra (mi stupisco che Berlusconi riesca a concepire un pensiero simile: è lo stesso che quando diventò presidente del Milan si lamentò di dover vendere i biglietti di San Siro anche alle squadre ospiti).
Punto.
Questo non ha nulla, per me, a che vedere con l’aspetto umano: provo umana pietà anche per le vite di quegli esseri umani travolte dalla guerra.
Però il 25 aprile, e il valore pubblico della festa, è un’altra cosa.
I soldati della Repubblica Sociale erano nemici del nostro paese. O meglio. Erano nemici di quella parte del Paese che ha portato allo stato che conosciamo oggi.
Certo, è la storia raccontata dai vincitori. Non può essere altrimenti.
Ma una nazione (“complesso di persone che, avendo in comune caratteristiche quali la storia, la lingua, il territorio, la cultura, l’etnia, la politica, si identificano in una comune identità a cui sentono di appartenere legati da un sentimento di soliderietà”) si definisce sia positivamente (“noi siamo questo”) che negativamente (“noi non siamo questo”).
E la festa nazionale che celebra il “mito fondante” dell’Italia repubblicana non può annullare questa dicotomia.
Il 25 aprile si celebra la sconfitta dei nazi-fascisti. Dei nazisti e dei fascisti.
Il problema nasce quando ci si rende conto che in Italia un giorno erano tutti fascisti e il giorno dopo tutti anti-fascisti. Ho visto un filmato terribile di una parata di partigiani in una città liberata: a un certo punto un uomo si avventa su un altro che sta sfilando tra i partigiani, lo strappa dal corteo con l’aiuto di altre persone e gli spara. Pare che si trattasse di un noto fascista che cercava di farsi passare per partigiano.
Tremendo, no? Da qualunque parte la si guardi.
Però in Italia è andata più o meno così, che da un giorno all’altro ci si è auto-assolti di qualunque cosa. La Resistenza è stata una specie di agnello di Dio, che con il sacrificio di pochi ha lavato i peccati di molti. L’Italia non è come la Germania, si dice, perché noi abbiamo avuto un movimento partigiano che si è opposto alla dittatura anche su larga scala, militarmente e in modo organizzato. Curiosamente, i tedeschi dopo la guerra e per un lungo tempo (fino alle porte degli anni settanta) hanno fatto duramente i conti con la loro storia e oggi non si sognerebbero mai di eleggere sindaco di Berlino uno che va in giro con una croce celtica al collo.
Il 25 aprile è sempre stato una festa, tutto sommato, di pochi. Di quelli che sapevano di “averlo fatto”, il 25 aprile. Una festa sentita soprattutto dove la Resistenza era stata più forte (Emilia, Toscana, Liguria), non tanto perché regioni “rosse”, ma perché lì i tedeschi c’erano stati per più tempo. Il resto l’ha sempre vissuta con indifferenza o grande fastidio.
Il mito del tradimento della Patria, che per i fascisti di ieri e di oggi si identificava con Salò, ha sempre portato una parte del paese a vedere i partigiani come traditori o codardi che erano venuti meno al loro dovere, sovversivi. Banditi.
E dagli anni novanta, da quando ha aumentato il suo potere politico, la destra cerca di spingere in direzione del riconoscimento della parità tra i due schieramenti. Il che vorrebbe dire ammettere – in soldoni – che lo stato italiano è figlio anche della Repubblica di Salò. Certo, anche quella era una repubblica, ma su basi radicalmente diverse da quelle poste dalla nostra Costituzione.

I morti, una volta morti, sono tutti uguali.
Ma il 25 aprile non celebra dei morti in sé. Celebra dei morti ricordando quello per cui sono morti.
E la distinzione è semplice: i partigiani sono morti lottando per dare vita al nostro presente. Gli altri mentre cercavano di creare un altro mondo.
Se una nazione, nelle persone delle autorità che la rappresentano, non ribadisce con forza questa distinzione (e non fa di tutto per spiegarla ai suoi membri) non è una nazione, ma un insieme di tizi che vivono nello stesso posto.

(discorso politico: Berlusconi ha cercato di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. E non mi stupisce. Oggi, può permettersi di allentare il suo legame con la destra e presentarsi come una figura più ecumenica, di Grande Statista)

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