Archivi tag: martin mystère

Chile – 3 – Atacama (1)

La prima volta che ho sentito parlare del deserto di Atacama era il 1992, nel secondo incontro tra Dylan Dog e Martin Mystère. La pagina qui sotto contiene una verità (è una delle zone più aride della Terra) che serve a far passare meglio una beffa: il Pisum alatum non esiste, ma è una specie inventata da Guido Nolitta (ovvero Sergio Bonelli) in un episodio di Zagor.

IMG_6025.JPG

Cosa c’entra questo con il nostro viaggio? Quasi nulla, però è una bella coincidenza che il numero di pagina sia il 23, perché è il numero preferito di Lucilla, essendo la sua data di nascita.
Nella “divisione” delle zone del viaggio in Cile, il deserto di Atacama era un po’ di pertinenza di Lucilla, nel senso che è stata lei che, dopo che abbiamo prenotato i voli, un giorno mi ha mandato un messaggio con scritto: “Mi dai carta bianca per organizzare le escursioni nel deserto?”.
Lo sventurato rispose (positivamente) e, nel tempo che ci ho messo a rendermi conto che potevo essere stato imprudente, già Lucilla mi chiedeva di confermare il mio peso, il passaporto e i dati dell’assicurazione di viaggio. A quel punto ho preferito non sapere nulla di quello che ci avrebbe aspettato, almeno fino a che non saremmo stati sull’aereo per Calama, da cui poi si arriva a San Pedro de Atacama.
Quando l’ho scoperto, ho immediatamente rimosso l’informazione. Continua a leggere

4 commenti

Archiviato in cile, viaggio

Martin Mystère – Le Nuove Avventure a Colori

14991936_371639469844272_6356550175175749552_n

Copertina di Lucio Filippucci, colori di Daniele Rudoni

La prima cosa che ti viene in mente dopo la prima ventina di pagine del primo numero della nuova serie dedicata a (un) Martin Mystère è “va beh, ma questo non è Martin Mystère”. Subito dopo, appare al dottoressa Grazia Arcazzo che ci complimenta con te, visto che prima di iniziare la storia hai letto l’editoriale di Alfredo Castelli che ti spiega per filo e per segno la genesi della serie: nata dalle idee per una mai realizzata serie tv, reinventa MM come se fosse stato concepito oggi e non all’inizio degli anni Ottanta, rielaborando sia il personaggio (e i comprimari) sia il modo di raccontare le sue avventure.
Questo secondo aspetto è forse quello che, a fine lettura, colpisce di più. La serie classica di Martin Mystère è famosa (e/o famigerata, dipende dal gusto personale e dall’abilità dei singoli autori) per la verbosità: nelle storie del Detective dell’Impossibile si parla tantissimo, vengono spiegate tantissime cose in modo più che dettagliato. E può succedere che succeda non molto. Il ritmo narrativo delle Nuove Avventure a Colori (almeno da in questo primo numero – il secondo è già uscito ma solo a Lucca Comics e non ho pensato di chiedere a qualcuno di portarmelo) invece è indiavolato. Era una delle promesse degli autori, quella di usare una narrazione più serrata e “televisiva”, ed è stata ampiamente mantenuta. Il primo assaggio lo si trova proprio all’inizio dell’albo, quando Mystère spiega in un balloon che cosa sia La battaglia di Anghiari, il perduto affresco di Leonardo da Vinci per Palazzo Vecchio a Firenze; nella serie classica ci sarebbero volute almeno un paio di tavole in stile La Storia d’Italia a fumetti di Enzo Biagi. Poi la storia prende davvero il via e corre a rotta di collo fino alla fine dell’albo.

Continua a leggere

Lascia un commento

Archiviato in bonelliana, fumetti

Terra leggiadra. Due giorni in Liguria 4: Toirano

Oltre ventimila anni fa: all’inizio dell’inverno, spinti dall’istinto, orsi delle caverne, creature che popolavano l’Europa, delle dimensioni degli attuali grizzly, si inoltrano nel fondo di una grotta, fino alla stanza meno fredda e umida, dove fanno la loro tana. In primavera, i più deboli tra loro non riescono a rialzarsi. Succederà ogni anno, per innumerevoli anni.

Circa dodicimila anni fa: alcuni uomini (Sapiens, quindi come noi) entrano in una grotta sul fianco di una valle che va verso il mare. Hanno con sé delle torce, avanzano in quell’ambiente ostile tenendosi sempre vicini alla parete sulla loro sinistra, a un certo punto si mettono a gattonare sul terreno fangoso. Arrivano fino a una stanza più ampia, tirano delle palle di argille sul muro.

1950: alcuni ragazzi di Toirano (SV) danno la caccia ai pipistrelli in una grotta poco fuori dal paese. Per caso scoprono un passaggio fino a quel momento rimasto inosservato, si inoltrano nel profondo della montagna e trovano…

Non è l’inizio di un numero di Martin Mystère (anche se probabilmente sarebbe un bel numero di Martin Mystère) ma è la storia dei tre eventi principali che riguardano le Grotte di Toirano, una delle meno note attrazioni turistiche liguri. La storia dovrebbe in realtà partire molto, molto, molto tempo prima, quando l’acqua iniziò a scavare la pietra della montagna e continuò fino a formare un sistema di cavità, ognuna con diverse formazioni geologiche.
Quella che ho raccontato è infatti solo la storia della grotta detta “della Basura”, cioè della strega (ma questa volta Triora non c’entra nulla): le altre tre grotte (Santa Lucia superiore e inferiore, Colombo) non sono mai state visitate dall’uomo preistorico e hanno interesse prevalentemente geologico.

La visita alle grotte di Toirano è una passeggiata sottoterra di un chilometro circa, alla confortevole temperatura di 16 gradi centigradi. Di fronte alle grotte, c’è il fianco di una montagna sfigurato da una cava, ma se aguzzate la vista potrete notare che dalla roccia spuntano dei volti dipinti; sono opera di Mario Nebiolo, un pittore specializzato in pittura acrobatica su grandi superfici.
Si entra nelle grotte dal versante nord, nella grotta della Strega e quasi subito si incontra la stanza che ha dato il nome alla grotta negli anni Cinquanta: il salotto della strega, un piccolo lago sotterraneo in cui si specchiano formazioni rocciose da copertina di disco progressive rock, tutte create dal lento colare dell’acqua calcarea, che una goccia alla volta ha depositato granelli di roccia.
Poco più avanti c’è il cosiddetto corridoio delle impronte, con i segni del passaggio degli esseri umani (e una zampata d’orso) impressi nell’argilla indurita. Poi il laghetto, nelle cui acque vive un piccolo crostaceo, il nifargo, cieco e depigmentato, molto diffuso nelle acque sotterranee. Nell’acqua ci sono alcune monetine (sigh) e la guida deve esplicitamente ricordare di non buttare monete perché il metallo può danneggiare l’habitat del bestiolino (oltre a essere un’usanza idiota) (la realtà è che siamo in Liguria: se la guida, ligure, vede qualcuno che butta dei soldi si tuffa per afferrarli e questo è molto traumatico per il povero nifargo).
Impressiona la zona successiva, il cimitero degli orsi. Dal terreno emergono ossa, gigantesche, per una profondità di settanta centimetri, concentrate in questa zona da una barriera naturale che le ha bloccate qui quando si è formato un fiume sotterraneo che ha spazzato la zona. I tre scopritori moderni della grotta portano a Toirano, come prova della loro scoperta, un femore gigantesco; dal terreno ne emergono un paio che fanno capire che l’orso delle caverne doveva essere davvero una bestia impressionante. Siccome si è estinto dopo la datazione delle tracce umane nella grotta, potrebbe essere che la spedizione preistorica avesse come lo scopo la caccia di qualche esemplare del bestione; o forse la grotta con il suo carico di ossa era considerata un qualche tipo di luogo sacro.
In questo senso, la penultima sala, quella detta “dei misteri”, sarebbe significativa, con le sue palline di argilla tirate contro il muro: pare che un rito in uso ancora in Lapponia nel XVII prevedesse di lanciare palle di fango contro una pelle d’orso come rituale magico (questa l’ho letta su wikipedia). A ogni modo, la sala dei misteri è da anni esclusa dal percorso di visita per questioni di conservazione delle impronte, che non si sono pietrificate e su cui le luci potrebbero fare nascere muffe e microorganismi che finirebbero per distruggerle.
L’ultima sala della grotta, prima del tunnel artificiale che conduce alla grotta di santa Lucia, è detta “antro di Cibele”, la dea della fertilità, per le formazioni tondeggianti che ricordano delle mammelle (e/o dei grossi peni); un altro luogo surreale.
Poi si entra in un pratico tunnel scavato nella roccia viva per creare un percorso turistico più pratico tra due grotte. La grotta di santa Lucia superiore, che viene percorsa a ritroso, dal fondo all’imboccatura, è più interessante dal punto delle formazioni geologiche, con cristalli simili a coralli che fioriscono sulle pareti, ma lo è meno dal punto di vista della storia: fino alla metà del secolo scorso era nota la prima parte, molto spoglia, ma nessuno si era mi accorto che la grotta proseguiva più in profondità. L’attrazione più brutalmente spettacolare di questa grotta è quasi in fondo, ed è nota come la “torre di Pisa”: una colonna di otto metri di altezza, formatasi circa due milioni di anni fa in un sacco di tempo. Nella stessa sala si vede un’altra colonna spezzata in due (e poi rinsaldata) da un terremoto di un sacco di centinaia di migliaia di anni fa (sempre per quella faccenda della terra leggiadra).
La parte terminale della grotta, o meglio il suo imbocco, è oggi usata come spazio per concerti e spettacoli. Da qualche anno un’azienda vinicola la utilizza come cantina per l’invecchiamento dello spumante.

Usciti dalla grotta e tornati dai sedici gradi all’agosto ligure, si può salire ancora un pochettino e arrivare in un paio di minuti alla grotta di santa Lucia superiore, che sulle prime potrebbe non sembrare una grotta perché davanti al suo ingresso nel XV secolo è stato costruito un santuario. La grotta vera e propria si estende per circa 250 metri dietro all’altare e in alcuni giorni è visitabile. A noi è andata bene e, guidati da una ragazzina imbarazzatissima, ci siamo addentrati anche qui, per godere di ancora un pochettino di fresco.
La grotta non è paragonabile alle altre due: le poche formazioni geologiche interessanti sono state portate via nei secoli per decorare le “grotte” di ville e giardini della nobiltà ligure e restano solo alcune formazioni in cui la fede popolare ha voluto riconoscere gli “arredi” della santa durante la sua permanenza nella grotta. Abbiamo così il letto, il trono (santa Lucia aveva un sederino proprio piccolo), l’inginocchiatoio e il confessionale. Una tragica caratteristica della grotta è che è umidissima (all’ingresso c’è anche una piccola fonte di acqua ritenuta benedetta dalla santa e utile a guarire i disturbi alla vista) e che non ci sono passerelle, solo qualche ringhiera, così il visitatore potrebbe essere portato a credere che la colonna nella grotta inferiore sia stata in realtà spezzata da un’orribile bestemmia della santa, scivolata mentre andava in bagno di notte.
A ogni modo la grotta è stata molto frequentata nei secoli e sulle pareti si leggono firme di visitatori del santuario anche piuttosto antiche, roba del seicento, a cui si mischiano quelle degli abitanti della zona che usarono questa grotta e quella superiore come rifugi durante i bombardamenti del 1944. Addirittura su una parete c’è disegnato uno spartito con una melodia, che è un grazioso quasi-mistero (o un bello spunto per una qualche storia).

Toirano, che giustamente cerca di sfruttare le grotte per portare visitatori in paese, è un paesello grazioso che si gira in mezz’oretta intanto che cercate un posto dove mangiare qualcosa o bere. Non ha il fascino degli altri posti visitati il giorno prima, trovandosi banalmente in pianura e non arroccato su un qualche rilievo. Con il biglietto delle grotte si può visitare anche il museo etnografico, che noi abbiamo però bellamente snobbato.

Fine del breve resoconto sulla due giorni ligure.
Spero che possa servire come spunto a qualcuno che voglia farsi un paio di giorni in Liguria lontano dalle spiagge. Se devo fare una classifica delle cose che valgono lo spostamento, direi:

  1. Triora
  2. Dolceacqua
  3. Grotte di Toirano
  4. Bussana Vecchia
  5. Sanremo
  6. Seborga

Come al solito, grazie a Lucilla, la migliore compagna di viaggio (e non solo) possibile.

2 commenti

Archiviato in liguria, viaggio

Sergio Bonelli, Guido Nolitta

Il mio primo albo Bonelli.
Era il luglio del 1988, avevo quasi nove anni e mi ero storto un piede in un modo così stupido che non lo rivelerò neanche sotto la minaccia di venire lasciato da solo con Tiger Jack e il suo coltello.
Mia nonna mi portò un numero di Tex per farmi passare il tempo. Chissà perché. Forse era andata in edicola e si era stupita di trovare ancora un fumetto che leggevano i suoi, di figli (narrano leggende di famiglia che mio zio avesse ricopiato con sorprendente fedeltà il frontespizio di Tex con i quattro pard sulla sua scrivania, da ragazzo). Quale che fosse il motivo, io inizio a leggere e la testa, tipo, mi esplode.
Abituato a Topolino e, al massimo, al Giornalino, per la prima volta mi trovavo tra le mani un fumetto in cui il protagonista ammazzava gente senza porsi grossi problemi. Anzi: ci scherzava pure su.
Nelle ultime 40 pagine dell’albo inizia una storia straordinaria, ambientata in una missione abbandonata della California del sud, “La maledizione di Escondida”. Imparo tutto quello che c’è sapere di spagnolo: sangre y muerte, maldido, vamos, bruja, amigos, hasta luego hombre.
Poche settimane dopo parto con la mia famiglia per gli Stati Uniti: California, Arizona e Colorado. Vorrei avere un Winchester, una camicia gialla, sparare a candelotti di dinamite protetto dalle rocce.
Leggo Tex ancora per un annetto buono, poi non so perché smetto. Un paio di anni dopo comprerò il mio primo Dylan Dog. Ma questa è un’altra storia.

Sergio Bonelli, con il giubbotto di Mister No, visto da Leo Ortolani

Casualmente, il luglio del 1988 è anche la data in cui nasce “ufficialmente” l’etichetta “Sergio Bonelli Editore”. Fino ad allora, infatti, la casa editrice, fondata da Gian Luigi Bonelli nel 1940 e portata avanti prima dall’ex moglie Tea e poi dal figlio Sergio, aveva avuto altri nomi (Audace, Cepim, Daim Press, tra gli altri). È solo nell’estate del 1988, dopo 31 anni che dirige la casa editrice, che gli albi pubblicati da Sergio Bonelli iniziano a portare il suo nome.
Come editore, Bonelli ha pubblicato più o meno di tutto. Tantissime serie hanno avuto vita breve, ma non si può dire che non abbia lasciato nulla di intentato; basta vedere la cronologia sul sito. E basta guardare la sezione fumetti di un’edicola per rendersi conto della potenza di una casa editrice che ha di fatto imposto un formato (quello “bonelliano”, che nasce dalla sovrapposizione di tre albetti a striscia) all’intero mercato. Una casa editrice che ha portato sempre avanti una politica che non si può che definire con l’abusata (ma in questo caso veritiera) formula di “innovazione nel rispetto della tradizione”.
In Bonelli i cambiamenti sono fatti a passi piccoli, quasi minimi. Ma alla lunga accadono: guardate gli anni Novanta e Duemila e pensate che è in cantiere la prima miniserie interamente a colori, una cosa che ancora qualche anno fa sembrava inconcepibile per una casa editrice che si identificava con il bianco e nero e usava il colore solo per i numeri celebrativi o per occasionali progetti speciali (gli albi di Cavazzano e Bonvi, per esempio o Leo Pulp). Senza dimenticare che in passato erano state varate collane “d’autore” come “Un uomo un’avventura” o la collana dei Texoni, che doveva ospitare grandi disegnatori esterni alla casa editrice (che adesso si alternano con artisti “di casa” per cui è un po’ come venire chiamati a giocare in nazionale). E che Bonelli rilevò una casa editrice come L’Isola Trovata, che pubblicava cose con un taglio decisamente differente dai suoi albi.

Ma in cosa consiste, di preciso, la “tradizione” bonelliana?

Tex in azione

Uno sarebbe portato a pensare che nasca, per questioni di anzianità, dalla formula di Tex. In realtà no. Tex è stato creato da Gian Luigi Bonelli, padre di Sergio, che al fumetto ci arrivò un po’ come ripiego dalla narrativa. Tex è un personaggio che si rifà in linea diretta alla tradizione del romanzo avventuroso, da Dumas (Tex e i suoi pard sono come D’Artagnan e i moschettieri) a Salgari (per il fascino delle ambientazioni esotiche). Ha le sue suggestioni che vengono da altri generi (maghi, morti viventi, alieni, improbabili eredi dei conquistadores, dinosauri – per ben due volte) ma è nel complesso una serie che ha lasciato un’eredità nella casa editrice che si ritrova in poche serie (Dampyr, per esempio, ha un che di texiano nella composizione della squadra dei protagonisti); anche perché è talmente irripetibile la personalità del suo creatore che persino chi è riuscito dopo di lui a scrivere un buon Tex ha comunque dato sfumature diverse alle storie. Tex è una roccia, spara sempre dritto e non ha mai avuto un dubbio che sia uno (al massimo sul modello di Colt più adatto a una determinata missione) – e sono da ritenere immaginarie eventuali storie in cui viene catturato al lazo, per esempio.
Il canone bonelliano che conosciamo oggi nasce invece dal secondo personaggio più longevo della casa editrice, Zagor, creato da Guido Nolitta nel 1961. Chi sia Nolitta è presto detto: è lo stesso Sergio Bonelli, che per evitare confusioni con il padre si scelse uno pseudonimo. In Zagor, il protagonista è affiancato da un personaggio radicalmente diverso da lui (Cico, un messicano pigro, truffaldino e ghiotto che funge da spalla comica; ma la regola generale è di avere un personaggio secondario caratterizzato in modo complementare a quello principale) e ha un carattere per alcuni versi ambiguo: difende gli indiani ma li inganna facendosi credere una specie di divinità (“Lo spirito con la scure”) e ha ucciso gli indiani che avevano assassinato suo padre, prima di scoprire che in realtà il padre era stato uno sterminatore di indiani che meritava la morte.

Una storia classica di Tiziano Sclavi

Molto più che Tex, Zagor è un vero calderone di generi diversi, in cui Nolitta ha versato tutte le suggestioni del cinema, dei fumetti, della letteratura, con cui è cresciuto e con cui veniva in contatto. E questo è un tratto che è rimasto forte nell’identità delle serie successive pubblicato da Bonelli, anche se non sempre con risultati positivi: pur da grande ammiratore della casa editrice, mi rendo conto che il suo limite maggiore è quello di non essere mai riuscita a dare vita a un immaginario inedito – come ha saputo fare uno Stan Lee, per esempio – preferendo invece nutrirsi di stimoli esterni rielaborati. In questo senso, Dylan Dog è l’erede più diretto di questa tradizione zagoriana, così come Martin Mystère. E che la formula di Zagor funzioni benissimo lo dimostra il fatto che dopo 50 anni il personaggio gode ancora di buona salute e si presta, per esempio, alle poderose contaminazioni con l’immaginario howardiano e lovecraftiano a cui lo sottopone Mauro Boselli (che è incidentalmente anche uno dei migliori autori all’opera oggi su Tex).
Come autore, Nolitta ha anche realizzato il primo fumetto della Bonelli ambientato non più nel west (a dire il vero Zagor sarebbe un “eastern”, ma il concetto è quello) ma “quasi” nel presente: Mister No. Ex pilota dell’esercito americano rifugiatosi a Manaus a fare il pilota di aerei turistici nei primi anni cinquanta, Jerry Drake è il primo vero anti-eroe bonelliano: uno che non va a cercarsi l’avventura ma uno a cui capita di venire tirato in mezzo e che cerca di uscire con la pelle intatta.

Il Piper di Mister No

Il primo numero, del 1975, inizia con una lunga sequenza (una trentina di pagine almeno) in cui si aggira per Manaus con il solo scopo di trovare una bottiglia di whisky decente visto che per il ritardo di un battello in città si trova solo della cachaça. Una scena che in Zagor era forse accettabile con Cico, ma che qui è la presentazione del protagonista della serie. Drake beve, prende botte dalla polizia, ha una fidanzata in ogni bar, ha come amico un ex soldato della Wermacht (che per sfottere chiama Esse-esse), spesso si trova contro a suoi connazionali e ai loro tentativi di arricchirsi calpestando la gente del posto. È un personaggio in cui Bonelli mette il suo amore per i viaggi e per un mondo che stava scomparendo, con echi di anti-imperialismo.
In pratica è come se Bonelli aprisse delle porte ai suoi autori, allargando lo spettro delle cose che potevano far fare ai loro personaggi. Ken Parker inizierà a portare più avanti e rendere più espliciti i discorsi politici, Martin Mystère è finalmente ambientato nel presente, Dylan Dog nel quinto numero mette in scena il legittimo massacro del consiglio d’amministrazione di un’azienda da parte del protagonista… (sia in Martin Mystère sia in Dylan Dog sono stati inseriti prima o poi degli espliciti riferimenti a Mister No; in particolare in Ananga Tiziano Sclavi scrisse il seguito di una sua storia per Mister No, inserendovi anche un cammeo di Martin Mystère).

Nei prossimi giorni, o forse già mentre scrivo queste righe, qualcuno romperà il coro di lodi per Sergio Bonelli e, non necessariamente senza tatto, parlerà anche dei suoi difetti come editore, della sua difficoltà a stare al passo con i tempi, dell’immobilismo, dei fallimenti, del buonismo. Per certi versi è anche giusto: le persone non sono cristalli perfetti, hanno anche i loro difetti.
Però siamo sempre tutti bravi a dare addosso, sminuire, trovare difetti.
Per una volta prendiamoci un po’ di tempo per celebrare una persona che ha diretto per cinquant’anni una delle più importanti industrie culturali di questo paese, i cui fumetti tutti prima o poi abbiamo letto e il cui formato, quelle 96 pagine “a quaderno”, è quello che associamo ai fumetti. Uno dei rari casi di leader di mercato che tratta economicamente i suoi dipendenti meglio della concorrenza.
Uno sceneggiatore che ha scritto migliaia di pagine a fumetti senza mai sognarsi di chiamare “romanzi” le sue storie per darsi un tono e che ha creato un personaggio che sta in edicola da quarant’anni.
Un gigante, uno di quelli che dopo che se ne vanno, una volta asciugate le lacrime, non si può che stare lì in silenzio a pensare “e ora?”

Di Sergio Bonelli ho un solo ricordo diretto.
Ero a Mantova Comics nel 2009, allo stand della Tunuè, una piccola casa editrice di Roma. Stavo comprando un libro e a un certo punto io e la ragazza che me lo stava vendendo ci siamo accorti che Bonelli era lì che guardava i loro volumi. Ricordo di aver pensato che fosse molto bello che alla sua età fosse ancora lì a girare per fiere e guardare quello che facevano le case editrici nuove. Ripensandoci ora, mi viene in mente una frase di Roland Barthes: “Ho avuto la fortuna di unire mestiere e passione, che secondo Stendhal equivale alla felicità”.
Ecco, credo che Bonelli sia stato un uomo felice, che ha reso il mondo un posto un po’ più divertente e piacevole per un bel po’ di gente, almeno a botte di mezz’ora per volta.
E di questo non posso che ringraziarlo.

(Se qualcuno volesse scrivere qualcosa per un ebook in memoria di Bonelli, è il benvenuto)

Bonus: il film turco su Zagor (rigorosamente pirata, nel senso che fatto senza avere i diritti sul personaggio)

 

7 commenti

Archiviato in fumetti, il cotone nell'ombelico

Well NYC really has it all (8 di 10)

Il bello di dilazionare così tanto i resoconti delle vacanze è che in fondo è un po’ come prolungare la vacanza: guardi le foto, gli appunti, torni almeno per un po’ a quei giorni in cui la tua preoccupazione massima è non confondere le linee locali con quelle espresso e trovare un buon posto dove mangiare la sera.
Il brutto è che più ti avvicini alla fine più diventa faticoso scrivere perché la malinconia per la fine della vacanza si raddoppia: a quella provata allora devi sommare anche quella che stai rivivendo.
Comunque. Bando alle ciance.

Continua a leggere

2 commenti

Archiviato in New York, viaggio