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Ponte

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Ponte è uno strepitoso racconto di Alan D. Altieri, incluso nella raccolta Armageddon. È un curioso caso di thriller ingegneristico, perché racconta della costruzione di, appunto, un ponte, che diventa un simbolo della lotta tra l’ingegno dell’uomo e le leggi della Natura (con complicazioni). Il titolo della raccolta in cui è inserito potrebbe darvi un’idea di come vada a finire.

Un ponte è, ridotto all’osso, una struttura molto semplice. Diciamolo con la Treccani:

pónte s. m. [lat. pōns pŏntis]. – 1. a. Manufatto di legno, di ferro, di muratura o di cemento armato che serve per assicurare la continuità del corpo stradale o ferroviario nell’attraversamento di un corso d’acqua, di un braccio di mare, o di un profondo avvallamento del terreno.

I ponti sono quel genere di cose che nella nostra vita diamo un po’ per scontate e della cui esistenza ci rendiamo conto quando ci mancano. Per esempio, io mi sono sempre domandato quanto ci mettano i veneziani di laguna a imparare la disposizione dei ponti a loro disposizione per muoversi da una parte all’altra della città.
Oppure, a Genova.
A Genova, forse lo avrete sentito, c’era un gigantesco ponte autostradale che scavalcava il fiume (torrente) Polcevera, appoggiandosi a un paio di condomini, e che permetteva agli automobilisti di attraversare la città senza doverci entrare. Il che, per una città lunga e stretta, ne converrete con me, era un bonus non indifferente.
Il 14 agosto, una parte di questo ponte, che quel giorno ho scoperto chiamarsi ponte Morandi, è crollata. Ha ucciso 43 persone, ne ha ferite non so quante e ha scaraventato Genova, suo malgrado, sul palcoscenico nazionale.
Dal 14 settembre, il riassunto è questo:

Come vedete, non passa quasi giorno che non si senta qualche proclama su questo belin di ponte da rifare. L’arrivo del concentratissimo Toninelli ha portato il tutto su un piano astrale folle, quello del ponte autostradale come luogo di incontro. Come il ponte di Galata (un quartiere, per inciso, costruito dai genovesi) sul Bosforo a Istanbul. Uguale.
Ora, non è che il principio non sia brutto. Sarebbe bello se la tragedia diventasse occasione per fare qualcosa di più bello di quello che c’era prima. Sarebbe anche bello se Genova potesse trasformare il caos del traffico che dal 14 agosto attanaglia il Ponente in un’opportunità per pensare un nuovo modello di viabilità cittadina, di utilizzo dei mezzi pubblici.
Sarebbe tutto bellissimo, ma intanto la cosa che va fatta più in fretta è costruire un altro ponte che svolga le stesse funzioni di quello che ora non si può più usare.
Mentre scrivo, sembra che lo scoglio delle coperture finanziare sia stato superato e che non manchi molto a un decreto che permetta di inandiare la ricostruzione.
Inandiare, non cominciare. Inandiare è un verbo del genovese italianizzato che significa, più o meno, “iniziare a preparare”. È un concetto molto genovese, con la sua piccola prudenza e seraficità.
Vedremo come andrà a finire, ma intanto vorrei ricordare una cosa che, mi pare, nessun commentatore ha finora ricordato.
Nell’archeologico V Day dell’8 settembre 2007, in piazza Maggiore a Bologna, si parlò di edilizia pubblica. C’ero (come spettatore più che come partecipante) e ci scrissi un post*, in cui ricordavo così la faccenda:

Tra gli interventi che mi sono piaciuti di più, quello di un architetto (Massimo Majowiecki) che denunciava come l’edilizia pubblica (ponti, edifici per istituzioni, ecc) si orienti su soluzioni di design arditissimo che, se da un lato possono dare lustro e fare tanto avanguardia, dall’alto costano uno sproposito perché è ovvio che se fai un ponte con i sostegni fuori asse farlo stare in piedi non è semplicissimo. Non ho nulla contro soluzioni di design avveniristico, però in effetti pagare un viadotto sei volte di più di quello che potrebbe costare perché un architetto fighetto ha deciso che la linea più breve per andare da A a B è una curva e non una retta, fa un po’ girare i coglioni.

(L’architetto era Massimo Majowiecki, che è presente tra gli intervistati dal New York Times nell’inchiesta sul crollo del ponte Morandi)
All’epoca, insomma, Grillo sembrava sostenere l’idea che un ponte serva per andare da A a B e non che sia una specie di polo multifunzionale (in mezzo al nulla).

Ma, di nuovo, quello che serve ora a Genova, e in fretta, è un ponte. Che risolva – con le conoscenze di quasi sessant’anni dopo – i problemi che avevano spinto l’ingegner Morandi a progettarlo in quel modo, con quei materiali e in quel punto.
Tutto il resto, le grandi opere che possano riqualificare pezzi di città, sono idee bellissime ma che non c’entrano nulla con un ponte autostradale che – per una sciagurata idea dell’epoca – passava sopra ad alcuni condomini civili.
Se ne siete capaci, fatelo nelle città che già amministrate.
Fatevi venire delle grandi idee per Roma, invece di gestirla come fosse Pavullo e annunciare trionfanti se avete riasfaltato una strada.
A Genova serve concretezza. E serve ora.
Volete dimostrare di sapere fare qualcosa o preferite prendervela con i poveracci (che tanto è a costo zero)?

 

* Nello stesso post scrivevo anche:

Più realisticamente, però, trovo inevitabile che da questo movimento nasca prima o poi una qualche forma di forza politica organizzato. Un partito, anche se a dirlo sabato in piazza si rischiava il linciaggio. A meno che qualcuno non decida seriamente di imbarcarsi in imprese disperate, l’unico modo per avere influsso sul sistema è entrare a farne parte, ci sono pochi cazzi. Prendete la Lega. Quando Bossi anni fa raccontava di avere fermato migliaia di valligiani bergamaschi pronti a scendere in armi contro Roma sicuramente raccontava una balla. Ma forniva anche un efficace racconto mitico (in senso classico) sul senso della Lega: un movimento nato sotto il segno dell’antipolitica che per far valere le proprie ragioni (chiamiamole così) si è costituito in partito e non si può dire che non si sia tolto le sue soddisfazioni.
Con buona pace degli idealismi, del radicalismo e delle grandi aspirazioni, secondo me lo sbocco naturale sarà questo (e del resto, come dice Serra, se raccogli firme per una legge…), con tutte le incognite e conseguenze del caso. Staremo a vedere che cosa ne verrà fuori, se qualcosa ne verrà mai fuori o se tutto si frantumerà al primo avvistamento della politica ufficiale.

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Autodifesa – Ottobre 2011

"Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare, zecca di merda! E te là dietro, omnia sunt communia, pure le mazzate, quindi adesso arriviamo"

Bentornati su Autodifesa, la rubrica dei libri di questo blog che ha come titolo una citazione sbagliata, perché la frase di Woody Allen è “leggo per legittima difesa” e non “per autodifesa”. Mi ci sono voluti dieci mesi per capire perché tutte le volte che scrivevo il titolo sentivo qualcosa di stonato, ma alla fine ci sono arrivato. Scommetto che a Nick Hornby queste cose non succedono.

More about Non ti meriti nullaNon ti meriti nulla” di Alexander Maksik (e/o) è uno di quei libri che ti spiazzano per il gap culturale tra il mondo dell’autore e quello del lettore. Uno dei suoi protagonisti, Will Silver, è infatti un giovane professore che insegna letteratura in un liceo internazionale di Parigi; non so se l’autore non ne dice esplicitamente l’età nelle sue prime apparizioni o se mi era sfuggito il dato, ma io sono arrivato a tre quarti del libro convinto che avesse minimo quarant’anni, età che immaginavo giusta per un “giovane” insegnante che ricopre, già da qualche tempo, un ruolo di responsabilità in una scuola di un certo livello. Poi a un certo punto ho letto che aveva trentadue anni e ci sono rimasto un po’ così.
Problemi generazionali a parte, il romanzo di Maksik non brilla di originalità, perché ruota attorno a una relazione tra il suddetto professore e una studentessa della scuola, ma recupera raccontando questa storia con un intreccio di punti di vista (quelli dei due amanti e quello di uno studente di origine araba affascinato da Silver) gestito con oculatezza e che serve anche a parlare di responsabilità, reputazione, crescita. Non è il genere di romanzo che di solito mi andrei a cercare ma è ben fatto e sono contento che qualcuno (grazie Silvia) mi abbia detto “toh, leggilo”.
More about InvisibileIn alcuni aspetti ci sono dei punti di contatto con “Invisibile” di Paul Auster (Einaudi), che porta all’estremo il gioco dei punti di vista con lo scopo di raccontare una storia in cui la “verità” è probabilmente impossibile da stabilire oggettivamente, ma resta solo una convinzione del singolo lettore. “Invisibile” racconta una storia che si dipana nel corso di quarant’anni, iniziando nella New York della fine degli anni Sessanta e spostandosi a Parigi prima e su un’isola del Pacifico poi. Auster impiega, non senza una giustificazione narrativa che lo tiene lontano dallo sterile esercizio di stile, tre tipi di narrazione: in prima, in terza e anche in seconda persona.
Date le premesse, si potrebbe pensare che il romanzo sia un pedante esercizio intellettualistico. E invece Auster, benché abbia comunque ambizioni alte, riesce a costruire una struttura narrativa che affascina, in cui rivelazioni ed enigmi sono dosati secondo il ritmo di un thriller (e alla fine una delle letture possibili è proprio che il romanzo sia un thriller raccontato da un’angolazione diversa da quella che ci si aspetterebbe), con personaggi ben descritti e vividi. È quel genere di libro che vorrei trovare più spesso, godibile e allo stesso tempo stimolante per come racconta il modo in cui si raccontano storie e si (ri)costruisce il mondo grazie a esse.

More about ACABLa prima volta che ho sentito parlare di “Acab” di Carlo Bonini (Einaudi) è stato quando nell’homepage di Repubblica.it c’era tra le notizie un suo pezzo, quello relativo alla trascrizione (?) di messaggi del forum interno della Polizia di Stato. Una decisione editoriale che lasciava parecchio perplessi perché “Acab” era presentato come “romanzo” e Bonini è una delle firme di punta delle inchieste di Repubblica, quindi si creava uno spiacevole cortocircuito tra fiction e giornalismo. Ora che l’ho letto, mi rendo conto che il problema è complesso e merita un discorso un po’ più articolato. Continua a leggere

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I libri di luglio

Un’edizione dei libri del mese all’insegna, curiosamente di Sergio “Alan D.” Altieri: non solo c’è un suo libro recensito, non solo c’è l’ultima uscita della collana Epix da lui diretta ma è citato anche nei ringraziamenti del “libro del mese”, quello evidenziato.

Napoli nera. Cane rabbioso – Angelo Petrella (Meridiano Zero)
Petrella, con il suo romanzo “La città perfetta” (Garzanti) si è dimostrato uno dei più convincenti emuli italiani di Ellroy, sia per lo stile febbrile e frammento sia per la tensione e il vigore nel trattare di intrecci tra criminalità e potere, con una Napoli convincentissima a fare da sfondo. Tratti che si ritrovano, in nuce, in questo libro, che raccoglie due racconti lunghi precedenti al romanzo. Forse qui ogni tanto la mano è calcata un po’ troppo e alcuni personaggi ne escono troppo carichi, però è un bel leggere.

Killzone – Alan D. Altieri (TEA)
Russell Kane, il cecchino delle forze speciali inglesi, è forse il personaggio migliore uscito dalla penna di Altieri, titolare di tre romanzi pubblicati nella collana “Segretissimo” di Mondadori e poi ristampati da TEA. Che, in attesa del quarto episodio della serie, raccoglie in volume racconti di Kane apparsi qua e là nel corso degli anni, con l’aggiunta di un paio di inediti. È Altieri e, come si dice, prendere o lasciare: c’è uno stile unico, fatto di una lingua strana, scomoda e poco elegante, che a volte suona come la traduzione cattiva di un film d’azione del venerdì sera su Italia 1, ma che funziona dannatamente bene per raccontare il mondo di vento, fiamme e metallo, popolato da esseri umani spinti dal desiderio di sesso, droga, soldi, che Altieri mette in scena. Come si dice, for fans only.

Fighter – Craig Davidson (Giallo Mondadori)
A Davidson piace parecchio Chuck Palahniuk. Per certi versi questo romanzo è una variazione sul tema di “Fight Club”, per altri la versione estrema e decadente della tipica storia di boxe. E anche se forse la “caduta” del rampollo di una famiglia benestante verso i combattimenti clandestini non è originalissima, la resa è poderosa e il risultato finale è un romanzo che si legge con gran gusto. A parte l’edizione del Giallo Mondadori, è pubblicato da BD Edizioni (e su ibs è nei remainder al 50% di sconto).

Storia dell’assedio di Lisbona – José Saramago (Einaudi)
La descrizione in quarta di copertina è un po’ ingannevole, perché lascia intendere una storia più surreale di quello che in realtà questo romanzo è. Ma lo stesso, la vicenda di un correttore di bozze che, dopo avere deliberatamente falsato un saggio sull’assedio di Lisbona aggiungendo un “non” all’affermazione che i crociati diretti in Palestina aiutarono i lusitani a espugnare la Lisbona musulmana, si mette a scrivere davvero un romanzo in cui questo accade, è una bella storia sul raccontare storie e sul potere che questo ha sul mondo. Oltre a essere uno straordinario viaggio in una città bellissima. E anche una storia d’amore. Lo stile di Saramago, di cui non avevo mai letto nulla, è piacevole e discorsivo, anche se forse abusa del riferimento diretto al lettore, di tanto in tanto.

È nata una star? – Nick Hornby (Guanda)
Le magie del marketing, per cui un racconto – uscito mi pare per una collana inglese di libriccini semplici pensati per chi non ha grande padronanza della lingua – viene vestito da romanzo breve e mandato in libreria così, sono sempre affascinanti da osservare. Comunque, è una piacevole e scorrevole (e non poteva essere altrimenti, date le premesse) storiella su una madre che scopre che il figlio sta intraprendendo una carriera nel porno. Vista l’esiguità del racconto, a dire di più si finisce per dire troppo. Basta quindi sapere che il tutto è divertente, a cuor leggero, con una punta di commozione e una morale eccellente. Prendetevi un quarto d’ora e leggetelo a scrocco in libreria. È eticamente corretto,

I Mille – Giuseppe Bandi (KINDLE)
Toscano, Bandi è stato uno dei volontari della spedizione dei Mille. Queste sono le sue memorie di quell’impresa, pubblicate, postume, a quarant’anni di distanza dagli eventi. Libro amatissimo da Bianciardi, che ne ha curato le note nell’edizione di Stampa Alternativa da me scaricata, è un resoconto preciso e partecipato di quelle vicende, dopo la lettura del quale non può non restare impressa la figura di Nino Bixio, che ne esce fuori come una specie di psicopatico soggetto a frequenti scatti d’ira, anche verso i suoi stessi uomini (ma curiosamente non si dice nulla di Bronte). Comunque, al netto della prosa ampollosa, un buona lettura.

Acqua in bocca – Andrea Camilleri & Carlo Lucarelli (Minimum Fax)
Magie del marketing, parte II. Secondo le mie modeste stime, con questo racconto la casa editrice romana ha sistemato i bilanci dell’anno. La collaborazione tra Grazia Nigro e Salvo Montalbano, a base di lettere scambiate con metodi inventivi (la parte migliore del tutto) si colloca in un mondo strano che, per capirci e a malincuore, definiremo “fumettistico”; il tema dei Servizi deviati – con cui entrambi gli autori si sono cimentati con risultati rispettabili – è ridotto a killer che lasciano la “firma” di fianco agli omicidi e il tutto si svolge in modo parecchio rocambolesco e sbrigativo. Tra le cose migliori una breve comparsata di Coliandro (quello grezzo, grezzo e ancora più grezzo delle storie originali di Lucarelli, molto più hard-core di quello della, pur divertente, serie tv) e, appunto, i metodi con cui i protagonisti si scambiano le lettere. Estivo e balneare, senza dubbio. Peccato che sia stato poco più che un passatempo per i due autori, le premesse per vedere qualcosa di più memorabile c’erano tutte.

Lupo nelle tenebre – Nicholas Pekearo (Urania Epix)
Con questo titolo, la collana Epix chiude dopo appena quindici uscite. Una morte annunciata per una collana che, come ammesso dallo stesso Giuseppe Lippi, è nata senza una vera progettualità: basta vedere come le prime uscite mettessero insieme saghe già iniziate altrove (quella roba di zombi di Wellington, Shannara – no, dico, SHANNARA), fantasy un tanto al chilo e un’antologia da grattata del fondo del barile di Evangelisti. In mezzo ci sono state delle iniziative interessanti (l’antologia curata da Arona, per esempio), ma mai niente di davvero imprescindibile. Ed è buffo che chiuda con un numero in cui si annuncia come sedicesima uscita un titolo che, forse, avrebbe potuto aprire la collana per dimostrare che si voleva fare sul serio, la riedizione di “Drago d’Acciaio” di Swanwick.
Comunque, l’onore di chiudere spetta, ed è abbastanza macabro pensarci, a un autore, agente di polizia, morto neanche trentenne durante una rapina. Chiude con un romanzo piacevole, che sta all’incrocio tra l’horror e il thriller, una specie di remake di Dexter in cui il protagonista è un licantropo invece di un “normale” serial killer. Niente di indimenticabile, ma piacevole. Fa un po’ sorridere trovare continue citazioni (Carpenter street, King street, i compagni di pattuglia in Vietnam Poe e Wells) e, soprattutto, il magico fenomeno della radio che ogni volte che viene accesa sta trasmettendo una canzone che piace al protagonista :-)
So long, Epix.

Le rondini di Montecassino – Helena Janeczek (Guanda)
La battaglia di Montecassino, uno degli eventi-simbolo della seconda guerra mondiale in Italia, diventa per Helena Janeczek il centro attorno al quale fa ruotare il suo nuovo libro, che torna sui temi di “Lezioni di tenebra”: la memorià, la labilità delle identità, il rapporto tra la storia passata e il presente. Sono storie che stanno a metà tra il romanzo e la ricostruzione storica, tra l’autobiografia e l’inchiesta, in cui si parla di americani, polacchi (e dell’incredibile odissea del battaglione polacco che combattè in Italia), neozelandesi, indiani. Alternandosi tra il passato e il presente, tra i ragazzi di allora in guerra e quelli di oggi, il libro mette insieme uno spaccato inedito di aspetti poco conosciuti della seconda guerra mondiale e allo stesso tempo racconta pezzettini dell’Italia di oggi. La presenza di stranieri di allora e quella contemporanea. La Janeczek riesca a fare tutto questo con un linguaggio e un approccio mai pedante, mai ampolloso o sforzatamente letterario, ma mantenendo un tono, per quanto ricercato e studiato, “medio”, nel quale le citazioni dalla cultura “pop” non suonano mai fuori luogo o come strizzate d’occhio: sono solo i logici riferimenti che i personaggi hanno. È un libro denso, nel quale c’è tantissimo, ma che scorre veloce e appassionante come un racconto a voce, rimbalzando tra campi di battaglia e cimiteri di guerra, tra la Siberia e via Paolo Sarpi. Gran libro.

Swords and Deviltry – Fritz Leiber (KINDLE)
Ecco qualcosa che mi sarebbe piaciuto leggere in Epix: le storie di Fafhrd e del Grey Mouser. Barbaro (ma con l’amore per la civiltà) il primo, scaltro spadaccino il secondo, i due ladri/mercenari inventati da Leiber sono una delle punte più alte della narrativa sword & sorcery, condita con abbondanti dosi di ironia e avventura picaresca. Non stiamo parlando di eroi senza macchia e senza paura che vanno da un capo all’altro di una mappa per salvare il mondo. Stiamo parlando di due cialtroni che, in un modo o nell’altro, rimangon coinvolti in avventure rocambolesche dalle quali cercando di uscire vivi e con qualche moneta d’oro in più nella borsa. Questo è il primo volume della raccolta ragionata di tutte le loro avventure e inizia, ahinoi, un po’ in sordina, presentando due prequel in cui si raccontano le “origini” dei due personaggi, prima del loro incontro, mostrato nel terzo racconto. Ed è proprio questo, “Ill met in Lankhmar” (vincitore sia del Nebula sia dell’Hugo), il piatto forte della raccolta, che fa capire come i due funzionino meglio in coppia che separati, completandosi a vicenda (come Asterix e Obelix, come Hap e Leonard).

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I libri di dicembre

E con questi chiudiamo i libri letti nel 2009. Evidenziato il più consigliato.

Q – Luther Blissett (Einaudi)
Altai – Wu Ming (Einaudi)

(nota: dopo aver letto Altai, ho caricato Q sul kindle e l’ho riletto. Unifico i due discorsi, ma Altai è, ovviamente, leggibile anche senza sapere nulla di Q)
Per tornare nel mondo narrativo di Q, i Wu Ming scelgono di passare dall’Europa al Mediterraneo. Da un mondo di identità rigide e segmentate a uno in cui le identità sono una cosa molto più confusa e complicata. Se per il narratore di Q (e per il suo antagonista) essere figure multiformi, mai uguali a se stesse era un tratto distintivo rispetto agli altri personaggi, in Altai c’è grande confusione sotto il cielo, la confusione appunto nel mediterraneo del XVI secolo e di Costantinopoli. La stessa confusione di cui parlano altri due romanzi italiani degli ultimi anni: “Cristiani di Allah” di Carlotto e “La luce di Orione” di Valerio Evangelisti, che cercando di mostrare come sia esistito un passato in cui i confini tra le civiltà che si affacciano sul mediterraneo erano molto più sfumati di quanto non crediamo di solito. Altai è la storia della fuga dell’agente di un immaginario “servizio segreto” di Venezia, accusato – perché ebreo – di essere coinvolto nell’esplosione dell’Arsenale, verso Costantinopoli, dove si troverà a prendere parte a un tentativo di creare una nazione ebraica a Cipro. Questo in grossa sintesi.
Rispetto a Q, è evidente la maturazione della scrittura avvenuta in questi dieci anni (oltre al fatto che uno degli autori del primo romanzo ha lasciato la compagnia e che nel frattempo se ne è aggiunto un altro, WM5, che portava in dote un’identità di autore già abbastanza formata), che si riflette anche nell’impianto del libro: Q è un romanzo in cui si avverte quasi tangibile il desiderio irruente di scrivere una storia d’avventura attorno ai concetti di cui si interessava il Luther Blissett Project. E come tale contiene diverse sequenze che si rifanno esplicitamente alla tradizione della narrativa d’avventura, con tanto di contrabbandieri del delta del Po che non hanno nulla da invidiare a thug salgariani. Altai, invece, è un romanzo che scorre più pacato, tra molti dialoghi e riflessioni; in questo senso è decisamente figlio dell’esperienza di “Stella del mattino” (e infatti a una presentazione è stato detto che WM4 è stato parecchio attivo nella revisione dei capitoli). Non che non ci siano momenti di azione (l’assedio di Famagosta, la battaglia di Lepanto per dire), ma non sono così al centro della narrazione. Come Q, anche Altai è una storia di fallimenti, di corruzione di ideali; ma se in Q c’era una vena quasi consolatoria (la degenerazione di Münster era eterodiretta), Altai non offre appigli di questo genere e mostra come un ideale possa corrompersi da sé.
Altai è un bel romanzo, una storia in cui si respira l’aria di molte avventure di Dago, il personaggio a fumetti creato da Robin Wood: sogni, tradimenti, violenze, oasi di salvezza solo temporanee da un destino ineluttabile. Non ha (e forse non cerca neanche di avere) la stessa forza d’urto di Q, ma ne affronta i temi sotto un’altra prospettiva, con una sensibilità differente, più matura e consapevole.

L’arte di uccidere un uomo – Giaime Alonge (Baldini & Castoli Dalai)
Seconda metà degli anni novanta: una squadra di mercenari, a diverso titolo reduci dallo smembramento dell’URSS viene assoldata per una vendetta tra clan rivali nel nord dell’Iraq. Da questo spunto, Alonge tira fuori una storia crepuscolare sulla fine di un mondo e dei suoi protagonisti, pronti a essere rimpiazzati d qualcosa di nuovo e meno comprensibile. Prendendosi tutto il tempo necessario per tratteggiare i suoi personaggi, l’autore dà vita a una storia drammatica e credibile, che ondeggia tra crudo realismo e momenti quasi elegiaci e sospesi nel tempo (la tappa al villaggio fortificato, la morte di uno dei personaggi tra antiche rovine). Se piace un certo tipo di storie di guerra, con soldati invecchiati e disincantati che continuano a praticare il “mestiere delle armi” perché è l’unica cosa che sanno fare, è una lettura perfetta per ritrovare quel tipo di atmosfera, unita a scene d’azione ben orchestrate e descritte. Il personaggio dell’inglese è forse la cosa migliore del romanzo e, in più occasioni, ruba la scena a quello che dovrebbe essere il vero protagonista.

Il mio vizio è una camera chiusa – AA.VV. (Gialli Mondadori)
Antologia di autori italiani, curata da Stefano Di Marino, dedicata al “thrilling”, cioè ai thriller italiani degli anni settanta, la cui storia è ricostruita in un saggio contenuto all’interno del volume, opera dello stesso curatore. E proprio quel saggio è la cosa migliore del libro, che per il resto si snoda in una serie di racconti più o meno anonimi che cercano di ricreare piuttosto stancamente l’immaginario tipico del genere.

Sarà vero – Errico Buonanno (Einaudi)
Cosa è, esattamente, la “realtà”? E cosa è “falso”, se nella storia una miriade di invenzioni mendaci, concepite con intenti più o meno truffaldini, hanno finito per portare radicali cambiamenti nel corso degli eventi, nelle vite delle persone, degli stati, delle organizzazioni? Con uno stile ironico e scorrevole, Bonanno dipinge una lunga panoramica sul tema, ricostruendo la storia e le fortune di alcuni dei “falsi” più importanti della nostra storia. Divertente, ben documentato e con alcune parti, come il debunking di Rennes-le-Chateau, da applausi a scena aperta.

The girl next door – Jack Ketchum (Leisure Books)
“Tratto da una storia vera” solitamente è un segnale che indica la boiata, declinata in una qualsiasi delle forme che questa può assumere. Se si tratta della storia di una ragazzina americana che, negli anni cinquanta, viene segregata dalla zia con cui vive in uno scantinato, dove è sottoposta dalla donna, dai figli di lei e dai loro amici a sevizie, umiliazioni e violenze di ogni tipo, beh, il rischio del torture porn è giusto lì dietro l’angolo. Con queste premesse, il lavoro fatto da Ketchum è di altissimo livello, paragonabile come impatto e come abilità nel riutilizzo della “storia vera” per indagare nella psicologia e nella società alla “Dalia Nera” di Ellroy. L’intuizione vincente dell’autore è quella di raccontare la vicenda attraverso le parole e gli occhi di un ragazzino che rimane invischiato a poco a poco nella catena di umiliazioni e violenze sulla ragazza, senza mai riuscire veramente a ribellarsi a queste, come se in fondo, nonostante la sua precedente amicizia con la ragazza, sia affascinato da quello che sta succedendo e incapace di vederlo come l’orrore che è. E la bravura è anche quella di mettere il lettore in una posizione simile. Molte scene del libro sono autentici pugni nello stomaco. E la fine è inevitabile, lo si intuisce dal fulminante capitolo iniziale. E ci sono dei momenti in cui vorresti mettere giù il libro e dire “ok, ho capito cosa deve succedere, preferirei non pensarci e non pensarci che è successo davvero a una persona in carne e ossa e sangue”. E invece vai avanti. Fino a che Ketchum non ti gela: un capitolo si interrompe con la preparazione di una scena terribile, ma il capitolo dopo è una frase sola, in cui il narratore si rifiuta di descrive ciò che vide. Un trucco vecchio come la narrativa horror stessa, ma che qui deflagra con la potenza di un quintale di tritolo, perché in un colpo solo ti lascia da solo a immaginare una scena che qualsiasi descrizione avrebbe solo reso più banale e normalizzata e ti accusa anche di essere una specie di guardone che non aspettava altro che di vedere descritta quella cosa orribile.
Era molto tempo che non leggevo qualcosa che riuscisse a giocare così con le sensazioni del lettore, così vivido nel trasmettere orrore, non solo fisico ma anche morale, così potente e lucido come riflessione sul “male”. In Italia l’ha tradotto la Gargoyle Books (che ha degli ottimi titoli, ma che fa dei libri che mi piacciono davvero poco) come “La ragazza della porta accanto”. Online si trova in inglese a meno di 5 euro.
(Un grazie a Elvezio Sciallis per la segnalazione)

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I libri dell’estate – parte seconda

Seconda parte del riepilogo. Evidenziati con il rientro, i Gran Fighi.

Hellgate – Alan D. Altieri (TEA)
Seconda raccolta di racconti di Altieri, questa volta dedicata ad Andrea Calarno, poliziotto apparso per la prima volta in “L’uomo esterno”. Raccogli diversi racconti “d’occasione” (tra cui uno che ha come protagonista Duca Lamberti, personaggio-icona di Scerbanenco) e spesso il tono sarcastico e sopra le righe va un po’ troppo sopra le righe – come nel romanzo breve che chiude il volume.

La regina dei castelli di carta – Stieg Larsson (Marsilio)
Conclusione della trilogia di Larsson, di fatto è la seconda parte del secondo libro. Il problema più grosso è che, a un certo punto, c’è troppa roba. Troppe coincidenze, troppe sottotrame. E, per un lettore italiano, un’inspiegabile fiducia nella legge e nell’ordine costituito. Oltre a un manicheismo che stona con il realismo delle parti dedicate ai rapporti tra politica, economia e giornalismo. Però lo stesso si va avanti una pagina dopo l’altra, intrappolati dalla macchina macina-trama di Larsson.

Guida alle case più stregate del mondo – Francesco Dimitri (Castelvecchi)
Nei primissimi anni novanta, il secondo Almanacco di Dylan Dog ospitava un lungo speciale dedicato ai fantasmi e al ghost-hunting. Questo libro ne è un po’ l’erede spirituale: non solo recensisce una gran quantità di dimore e luoghi infestati in giro per il mondo, ma fornisce anche all’aspirante cacciatore di fantasmi una certa quantità di nozioni su come affrontare il suo nuovo hobby. La parte più interessante, però, è quella teorica, in cui Dimitri spiega come la realtà che percepiamo sia, a grandi linee, costruita da noi stessi e da ciò in cui crediamo (o vogliamo credere).

Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi – Tom Robbins (Baldini & Castoldi – Dalai)
È la prima volta che leggo qualcosa di Robbins. E ne sono stato completamente rapito. Personaggi sopra le righe ma allo stesso tempo credibili, ambientazioni esotiche e sospese tra sogni e realtà, veloci cenni sulla storia delle religioni, dialoghi spumeggianti. Da leggere.

La Torre Nera – Stephen King (Sperling&Kupfer)
E così un lungo viaggio arriva alla fine. Il giudizio è per tutta la serie, non per il libro in sé che ha dei momenti anche un po’ imbarazzanti (lo scontro con il Re). Ma King ha davvero costruito un incredibile monumento (anche a se stesso e al suo lavoro), un atto di amore verso la scrittura e le storie da levare il fiato.

Monster nation – David Wellington (Mondadori)
Il primo della serie iniziava lento e si impennava solo verso i tre quarti della storia. Questo inizia lento e resta uguale fino alla fine. È difficile sbagliare con gli zombi, ma qui Wellington ce l’ha fatta.

Acque oscure – Valerio Evangelisti (Mondadori)
Antologia un po’ (molto) altalenante, dove per fare volume è stato infilato di tutto, compresi due raccontini d’occasione come quelli su Palahniuk e Dan Brown. Il piatto forte è il racconto finale, che però miscela “Il nodo Kappa” e “Sepultura”, racconti già editi. Divertente il racconto, molto fantascienza vecchio stile, “Stanlio e Ollio terror detectives”.

Let it be – Paolo Grugni (Mondadori)
“Noir” all’italiana, che mescola semiotica e canzoni dei Beatles. Sulla carta, un capolavoro. Ma Grugni appesantisce il tutto abusando di quella che gli anglosassoni chiamano “purple prose”, vale a dire infiocchetta tutto con uno stile che cerca di mescolare la durezza del noir con un lirismo assolutamente fuori luogo. Si arriva alla fine con una certa stanchezza.

Animere nere reloaded – AA. VV. (Mondadori)
Seconda puntata dell’antologia di racconti crudeli curata da Altieri. L’accumulo di sesso, violenza, sesso, violenza, sesso, violenza produce rapidamente una certa noia. Qualcosa di interessante c’è, ma va cercato bene. O forse sono racconti che andrebbero letti uno ogni tanto e non tutti di seguito.

Settanta – Simone Sarasso (Marsilio)
Rispetto a “Confine di Stato”, il balzo in avanti di Sarasso è notevole. Se il primo romanzo era tutto scritto come fosse un film d’azione tradotto, qui c’è un’attenzione alla resa delle diverse parlate dei personaggi (a seconda della loro provenienza) del tutto inedita – e che non sfocia mai nella macchietta. Sterling fa un passo indietro, non è più il motore principale delle vicende, e tutta la storia ne guadagna in credibilità e incisività. Anche il pastiche di stili e prestiti altrui (in CdS c’era un pezzo di “54” di Wu Ming e il racconto di una famosa storia con Superman di Garth Ennis) lascia posto a una scrittura più organica e compatta – resta ancora qualche debito con Genna, evidentissimo in una scena con lo Svedese.

La ragazza dai capelli strani – David Foster Wallace (Minimum Fax)
Tanto mi piace il DFW saggista e articolista, tanto ho difficoltà con le sue storie. Non so cosa sia di preciso, forse che applicata alla narrativa la sua capacità di analizzare e scomporre le cose mi annoia, fatto sta che non riesco a godermi i suoi racconti come i suoi saggi. Racconti che pure sono tutt’altro che disprezzabili. Sono io che non ce la faccio.

Al servizio di chi mi vuole – Giorgio Scerbanenco (Garzanti)
Scerbanenco è stato uno dei grandi artigiani della narrativa italiana, capace di sfornare pagine su pagine, di qualsiasi genere. Questo è un romanzo di guerra che racconta l’assalto di una banda di mercenari a un deposito d’armi in Florida per conto dei ribelli cubani, dal punto di vista di un ex paracadutista italiano. Solida narrativa di genere, con quel tono di fondo malinconico tipico dei romanzi noir di Scerbanenco e la durezza tipica di tempi in cui il “politically correct” non esisteva. In appendice, un racconto, altrettanto duro e malinconico, di ambientazione partigiana.

La città perfetta – Angelo Petrella (Garzanti)
Uno dei più convincenti tentativi di adattare gli stilemi di Ellroy alla narrativa in italiano che mi sia capitato di leggere. Petrella racconta la Napoli dei primi anni Novanta intrecciando tra loro le storie di tre personaggi (un poliziotto corrotto, uno spacciatore, un ragazzo che passa dal movimento studentesco alla lotta armata) e nel farlo lascia intravedere l’Italia che sta sorgendo. Ellroy lo si ritrova non tanto nella forma ma nel tono generale, nella voce dell’autore, nel modo in cui riesce a raccontare la città. Gran romanzo.

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