Verso Oriente – Bhaktapur e Patan (8.3)

Il 22 agosto partiamo di buon’ora dall’albergo con la guida e l’autista per percorrere i 13 chilometri circa che separano Katmandu da Bhaktapur.
Fondata nel XII secolo dal re Ananda Malla, fu la capitale del Nepal da XIV al XVI secolo. La cosa buffa, se si guarda una mappa della Valle di Katmandu, è che c’erano tre città in un fazzoletto di terra, ciascuna capitale di un proprio regno e in competizione le une con le altre.
Se oggi lo sviluppo di Katmandu ha finito per inglobare Patan, Bhaktapur resta ancora un centro autonomo e, per molti versi, meno frenetico e caotico della capitale.

La prima attrazione che si incontra arrivando, di solito, è un tempio subito fuori dalla piazza principale, nei cui rilievi sono raffigurati animali di diverse specie che si accoppiano in modalità decisamente poco adatte alle loro anatomie, come nel caso degli elefanti.
Si tratta di un tempio induista, religione nella quale la raffigurazione di atti sessuali non è (evidentemente) considerata un tabù nei luoghi sacri, ma anzi trattata come una benaugurante promessa di fertilità e prosperità.
Per esempio, in tutte e tre le piazze regali della valle di Katmandu, davanti al palazzo del re si trova un tempio induista con immagini di accoppiamenti in più o meno qualsiasi posizione possa venirvi in mente (e anche una o due in più, dipende dalla vostra fantasia). La funzione è quella di evocare la prosperità e la prosecuzione della dinastia, ma secondo me è anche un po’ un catalogo nel caso la fantasia del re faccia cilecca. Un esempio viene proprio dal tempio di Pashupatinath, copia in scala ridotta del suo omonimo di Katmandu (quello dove bruciano la gente, per intenderci).
(ATTENZIONE: MANDATE A LETTO I BAMBINI)

Questa è una posizione del Kamasutra nota come “quando la regina cerca di usare la scusa che deve lavarsi i capelli”

Il problema di queste Durbar Square è che, a un occhio poco allenato, sembrano un po’ tutte uguali, nel loro affastellarsi di palazzo, templi, colonne e pagode. Quella di Bhaktapur si differenzia un po’, se non altro, perché essendo stata duramente colpita da un terremoto nel 1934 è più ariosa delle altre due. Qui si trova anche una delle più celebrate opere d’arte del paese, la porta d’oro del palazzo reale, un trionfo di scultura (a dire il vero in rame dorato), che celebra la dea Taleju (sempre quella incarnata in una bambina a Katmandu – ma tanto per complicare le cose anche Bhaktapur e Patan hanno o avevano la loro dea-bambina). Siccome era impossibile fotografarla senza nessuno davanti, sono giusto riuscito a prendere la lunetta più alto

Dentro al palazzo reale, per la prima volta mi diventa davvero problematico il fatto che un miliardo e mezzo di cinesi ha le ferie in agosto (esattamente come gli italiani), si trova ovunque dovunque tu vada (esattamente come gli italiani) e tenda a occupare tutto lo spazio disponibile (esattamente come gli italiani).
Lo scenario è questo: nel palazzo reale c’è una vasca dedicata alle abluzioni del re, sotto la protezione e la benedizione dei serpenti – che nella mitologia induista hanno una valenza positiva e anche legata all’acqua e alla fine della siccità. Un cobra è di fatto un’alta colonna che svetta al centro dalla vasca, un altro gli sta di fronte, altri più piccoli decorano la cornice dell’abside – per così dire – di questa struttura aperta.
Ora, voi immaginatevi di arrivare in un posto che è la concretizzazione di un pezzo del vostro immaginario sword & sorcery, da Conan il Barbaro in giù, voler fare un paio di foto ben fatte e trovare invece un buon numero di persone con le quali, vuoi per inclinazione personale, vuoi per differenze culturali, non riesci a instaurare quel rapporto di “faccio un attimo una foto, poi vi fate l’ennesima foto a vicenda che non guarderete mai, eh?”

Così, finisce che – vuoi perché fa caldissimo, vuoi perché so che restiamo troppo fermi la guida inizia qualche discussione teologica/filosofica – decido di fare una cosa che di solito mi ripugna e inizio a gironzolare per fare le mie foto incurante di finire in quelle altrui. Capirete che dovevo fare delle foto molto importanti e serie.

I segni del terremoto sono ancora ben evidenti anche qui, con templi decapitati e macerie in alcuni casi ancora per terra. Su altri, ricostruiti, si trovano ancora blocchi con le sigle scritte dai restauratori per guidare chi doveva rimontarli. Ma c’è da dire che quello che è rimasto in piedi o è stato ricostruito ha una monumentalità che leva il fiato.

(obbligatoria foto con mamma e bimbo nepalesi)

La differenza principale con Katmandu, comunque, la si trova camminando per le strade di quella che è rimasta una piccola cittadina, dai ritmi più lenti, nella quale forse si coglie qualcosa di cosa doveva essere anche la capitale prima della sua crescita smodata.

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Un altro momento molto local è il mio assaggio del rinomato yogurt di Bhaktapur, il Juju dhau, “re degli yogurt”. Ne compro un vasetto dalla bottega (piuttosto polverosa) di un signore che lo tira fuori da un frigo che ha visto giorni migliori. Si presenta decisamente poco regale, nel suo barattolino anonimo di plastica, all’assaggio si capisce l’entusiasmo per questo che non è uno yogurt come siamo abituati a pensarlo. Non è nemmeno simile a quello greco; è fatto con il latte di bufala, è denso, cremoso e naturalmente dolce. Quasi un dessert al cucchiaio. Promosso a pienissimi voti.

Questo è un tizio a cui ho chiesto una foto insieme io, per testimoniare uno dei dei due misteri della zona: il primo è la grandissima quantità di loghi di batman su magliette, caschi, adesivi, ecc. Il secondo è che c’è più gente con la maglietta dei Nirvana che nel mio liceo nel 1995.

Finiti i nostri giri a Bhaktapur, ci aspetta la seconda parte della giornata: Patan (o Lalitpur), la più antica delle tre città. Anche qui c’è una Durbar Square, con il suo palazzo reale, i suoi templi e le sue colonne. A questo punto, chiedo scusa per una certa mancanza di entusiasmo, ma il caldo era davvero faticoso e dopo la relativa immobilità del Tibet, il Nepal era diventato quasi opprimente, con la sua opulenza e ridondanza di decorazioni.
Va detto, però, che il palazzo reale è forse il più bello dei tre.
Appena entrati, restiamo bloccati per quasi mezz’ora nel primo cortile perché c’è un gruppo molto numeroso a cui la guida sta facendo una lunga spiegazione in inglese. Io gironzolo perdendomi tra la quantità incredibile di figurine intagliate nel legno che lo decorano (Lucilla invece viene risucchiata dalla guida in una discussione/monologo sul suicidio)

Una cosa che Lucilla voleva comprare in questo viaggio era una campana tibetana. Scartata l’ipotesi di comprarla in Tibet, perché sapevamo che la avremmo trovate a un prezzo migliore in Nepal, abbiamo chiesto a Hiragyan se conosceva un buon posto e lui ci ha garantito che conosceva un artigiano di Bhaktapur che faceva al caso nostro.
Comprare una campana tibetana in Nepal e non in Tibet sembrerà bizzarro ma, come ho scoperto poi, non lo è, per il semplice fatto che di tibetano hanno solo il nome. Banalmente, nessun viaggiatore “storico” del Tibet le ha mai citate e non compaiono in nessun repertorio di immagini e oggetti rituali buddisti (inoltre, in Tibet nei templi non ne abbiamo vista neanche una a pensarci bene). L’origine è in realtà cinese, ma oggi sono fatte per lo più in Nepal o nell’India del nord – e il loro uso “rituale” e meditativo è più new age che storico.
A ogni modo, Hiragyan ci porta nella bottega di Sudeep Lamsal, una delle tante botteghe piene di oggetti in metallo che puoi trovare in giro per la città. Sudeep è un signore molto gentile che parla un buon italiano, ci fa accomodare e inizia una dimostrazione che sulle prime ci porta alla mente una sciocca leggerezza che abbiamo fatto nella Medina di Tunisi (di cui non vorrei parlare troppo a lungo, ma per chi ci è passato dico solo “terrazza, tappeti, profumi”). Per fortuna, invece, Sudeep ci dà un’ottima dimostrazione delle caratteristiche di questi oggetti, che al di là di tutto sono affascinanti, facendo “friggere” l’acqua all’interno della ciotola passando il mazzuolo di legno sul bordo, poi prende Lucilla come cavia, le mette in testa una di queste ciotole rovesciata e la fa risuonare come una campana, gliela appoggia sulle ginocchia e fa lo stesso (per tutto il giorno e quello dopo Lucilla scoprirà che il ginocchio che le ha fatto male da quando siamo partiti non si è più fatto sentire).
L’intera performance è la stessa che si può vedere qui:

Salutiamo questa signorina per sempre immortalata così nella preview di youtube

Finisce che ne compriamo una a testa, del formato più piccolo – che non fa il trick dell’acqua, purtroppo. Io volevo comprare anche una statuetta di Ganesh, ma mi sono dovuto accontentare di un modello (molto) più piccolo.

Alla fine torniamo in albergo per le 16, dopo avere organizzato con Hiragyan la giornata seguente, che non rientrava negli accordi con l’agenzia: lui è impegnato, ma ci consiglia un suo amico che ci accompagnerà in un altro paio di località della valle, per sfruttare l’ultima giornata piena in Nepal.
In albergo, al quarto piano, troviamo una signora delle pulizie che, in piedi sui moduli esterni dell’aria condizionata, pulisce le finestre. Evidentemente qui il cavalier Beghelli non è mai arrivato.

Si vedono anche le impronte dei piedi
Anche fare l’elettricista deve essere considerato mestiere usurante, tipo lavorare con l’amianto.

Ci facciamo un altro giretto serale per Thamel, che quando si accendono le luci diventa un gran bel posto da fotografare, e andiamo a recuperare tra le altre cose la bandiera del Tibet ordinata il giorno prima (e, ovviamente, mi prendo pure un paio di libri, uno con il repertorio simbolico buddista e induista che dicevo prima e una raccolta di racconti di autrici e autori tibetani, Old Demons, New Deities)

Ceniamo in un posto che si chiama Momo Hut, segnalato dalla Lonely Planet, specializzato appunto in momo, i ravioli tibetani che sono uno dei piatti tipici anche del Nepal. Il servizio è LENTISSIMO, ma puoi passare il tempo tenendo d’occhio uno scarafaggio che ogni tanto fa capolino tra i tavoli, però i momo erano buoni (e li fanno in un sacco di varietà).

Una cosa che non avevamo capito era perché per terra fosse sempre bagnato come se avesse piovuto, anche se di pioggia non ce n’era stata. Poi siamo incappati nei camion che portano l’acqua alle case e abbiamo capito: ne perdono per strada tantissima. Il rifornimento è reso necessario dalla scarsa affidabilità della rete idrica, alla quale per altro non tutti sono allacciati. La cosa paradossale è che il Nepal è una delle regioni del mondo più ricche d’acqua, ma mancano le infrastrutture per distribuirla – oppure è troppo inquinata per poter essere usata.

Con questi pensieri in testa (non è vero, sono cose che ho letto dopo ma mi serviva una chiusura) ce ne andiamo a letto.
Il giorno dopo ci aspetta un’altro dei luoghi classici dell’immaginario collettivo: un tempio della dea Kali.
In bagno, da solo, ripasso le mosse da fare se qualcuno ti aggredisce alle spalle per strangolarti con un laccio di seta.

SPOILER: in realtà è così

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