Scrivere lo Spadaccino

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Intanto che mi preparo all’ultima revisione di Gatto e Libertà, faccio mente locale su alcune cose che riguardano lo Spadaccino e, per comodità, le metto per iscritto.

La prima storia dello Spadaccino è nata più o meno per gioco.
Era un periodo che stavo leggendo parecchie cose di Robert E. Howard in inglese, nelle belle edizioni Del Rey, e avevo voglia di provare di nuovo a scrivere qualcosa del genere, molti anni dopo aver smesso di produrre brevi fan fiction di Solomon Kane (che non linko perché oggi mi sembrano piuttosto deboli e non riesco a leggerle senza vederne i difetti e solo quelli). Ma siccome scrivere fan fiction è un vicolo cieco e l’idea era di avere qualcosa di buono abbastanza da potere essere venduto come ebook, ho deciso di tenere quell’estetica ma spostare un po’ di paletti per creare un personaggio che fosse più mio.
Cosa voleva dire tenere la linea delle storie di Solomon Kane?
Se avete visto il film con James Purfoy, ecco: quello non è Solomon Kane (del film parlai qui) e quelle non sono le atmosfere di Solomon Kane o della sword and sorcery in generale.
Sono molto grato a Davide Mana (scrittore, autore di giochi e blogger) per avere spiegato molto bene questa cosa in suo post:

Ma, qual’è la differenza fra la narrativa sovrannaturale e il fantasy?

La principale differenza è, abbastanza ovviamente, che nella narrativa sovrannaturale esiste il sovrannaturale, nel fantasy no.
Nel senso che nel fantasy propriamente detto, gli elementi fantastici – la magia, gli spiriti, i mostri – sono considerati naturali.
Che siano o meno parte dell’esperienza quotidiana dei personaggi, per quanto possano destare meraviglia o paura, sono parte dell’ordine delle cose.
Nella narrativa sovrannaturale è anche possibile che certe cose siano parte dell’esperienza quotidiana dei personaggi, ma non si tratta mai di esperienze normali.
Si tratta di infrazioni alle regole naturali, di eventi contronatura, che possono destare meraviglia ma destano certamente sempre paura, o disagio.
E magari tirano ad accopparti.
Chi pratica la magia impazzisce, o deve affrontare altre oscure conseguenze, c’è un prezzo da pagare e lo si paga sempre.

Idealmente, questo principio ce l’ho ben piantato nella bacheca mentale quando mi metto a scrivere una storia dello Spadaccino (che poi riesca sempre a rispettarlo è un altro paio di maniche): tutto ciò che non è del mondo che il lettore sa essere quello reale va trattato con le dovute pinze. È vero che probabilmente l’uomo rinascimentale era più propenso di noi (tolti sciechimisti, omeopatici e cose simili) ad accettare come possibili fenomeni magici, però lo stesso le cose strane devono restare strane. E sottili.

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In quanto giocatore di Dungeons & Dragons (non gioco da oltre dieci anni, ma giocatore una volta, giocatore per sempre), per esempio uno dei più grossi problemi che ho con la magia è quello di evitare la naturale tendenza a concepirla a incantesimi, “pacchetti” predefiniti di effetti.
Nell’Isola del Teschio, per gran parte della storia c’è della magia in atto ma è piuttosto sottile e il lettore, spero, non se ne accorge se non quando se ne rende conto il protagonista.
In Colei che Canta di nuovo eventi magici permeano la storia ma sono messi in atto da personaggi che benché apparentemente umani sono qualcosa di diverso (ma non troppo). Di fatto, la base della storia è quella di una ghost story. In Gatto e Libertà succederanno alcune cose piuttosto strane, ma quelle che succedono in città avranno un’origine diversa da quelle che succedono nei boschi. E anche qui ne saranno artefici personaggi al limite della società o al di sopra delle comuni conoscenze.
Insomma, l’idea è quella di fare in modo che il fantastico si innesti sul mondo reale in modo tale da non trasfigurarlo e resti misterioso, minaccioso e imperscrutabile quanto basta (senza però che diventi una scusa per giustificare qualsiasi cosa con “eh, è magia!”). Difficilmente troverete nelle storie dello Spadaccino un villaggio che sa che nel bosco vive una tribù di lupi mannari. Al massimo qualcuno che sospetta i monaci di un monastero di trasformarsi in lupi mannari e li teme (non so se è lo spoiler di una prossima storia, ma ho scoperto che nel XVI secolo alcuni monaci benedettini di un monastero nei pressi di Reggio Emilia avevano davvero questa nomea).

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Risolta la questione dell’ambientazione, restava però da definire il personaggio.
Solomon Kane è un eroe classico: vaga per il mondo alla ricerca del Male, inevitabilmente ci si imbatte e lo distrugge. Lo fa perché è quello che la sua fede gli dice sia giusto fare (in una delle fan fiction ho cercato, goffamente, di affrontare questa cosa in modo un po’ più approfondito di quanto faceva Howard, pasticciando più di quanto avrei dovuto con il tema della predestinazione in ambito protestante) e questo è più o meno tutto quello che lo definisce come personaggio. Non lo definirei propriamente una brava persona, però è indubbio che cerchi di fare il bene di chi ritiene lo meriti, anche a rischio della sua stessa vita.
Quello che volevo fare era quindi creare un personaggio che non avesse alcuna motivazione in comune con Solomon Kane. La primissima scena dell’Isola del Teschio ha esattamente quello scopo: lo Spadaccino si accorda per salvarsi la vita e non batte ciglio quando un ragazzino viene ucciso a sangue freddo di fianco a lui. Una cosa che mi è venuta in mente leggendo l’ultima storia di Ken Parker pubblicata ad aprile da Berardi e Milazzo è che se qualcuno ha letto l’Isola del Teschio credendola una fan fiction di Solomon Kane (può succedere, in effetti) probabilmente ha aspettato pagine e pagine per vedere vendicato il povero ragazzino al momento buono. E invece no.

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Lo Spadaccino è vendicativo, più avanti, ma per questioni private. Non si pone il problema del Bene e del Male, ma quello della sua sopravvivenza. È un avventuriero di tipo più classico, se vogliamo più simile a Conan, spinto dalla curiosità e dalla voglia di arricchirsi. Non è un idealista: mi diverte l’idea che nelle avventure ci finisce più o meno trascinato per i capelli mentre sta cercando di prendersela comoda o fare dell’altro. L’idea è quella del kit “Swashbuckler” del Complete Fighter’s Handbook di AD&D 2nd Edition: un tipo agile, bravo a combattere ma che attira i guai come il miele attira gli orsi.
È una scelta che scrivendo Gatto e Libertà ho maledetto ogni minuto perché mi rendeva complicatissimo dargli un ruolo durante un tipo di evento lontanissimo dal suo sentire; e che rende in generale scrivere le sue storie allo stesso complicato e divertente perché devi arrangiarti a dargli il minor numero possibile di vie d’uscita, perché quello se la squaglierebbe a gambe levate da certe situazioni. Sia in Colei che Canta sia nella prossima Gatto e Libertà è quasi un comprimario che mi serve per raccontare le storie di altra gente. In questo, mi piace pensare sia un po’ simile a Dago, il personaggio di Robin Wood che in qualche modo gli viene parente.

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Una cosa che sto cercando di portare avanti è l’evoluzione del suo carattere: i personaggi seriali di solito sono monolitici, non invecchiano e sono quasi sempre uguali a se stessi. Il personaggio che si incontra nell’Isola del Teschio è un luogo comune che mi piace molto: l’eroe invecchiato. Il Batman di The Dark Night Returns di Miller, per intenderci. O il Ken Parker della storia citata sopra. Fa quello che può, non ha più tempo o voglia per le stronzate. In questo, mi rendo conto, il cupo Spadaccino di quella storia è simile a Solomon Kane.
È per questo che nella storia successiva, Colei che Canta, ho portato le lancette indietro di parecchi anni e ho presentato un personaggio appena ventenne, più scanzonato e leggero. La sfida nelle prossime storia sarà quella di adattarne il comportamento e il carattere all’età, in modo tale che un personaggio solo mi dia la possibilità di esplorare più sfumature. Difficile, ma ci proverò.

E loro cosa c'entrano? Un glorioso non-premio a chi è arrivato fin qui e saprà dare la risposta corretta.

E loro cosa c’entrano? Un glorioso non-premio a chi è arrivato fin qui e saprà dare la risposta corretta.

Dal punto di vista “tecnico” le storie dello Spadaccino sono, per ora, scritte in “terza persona soggettiva“: il punto di vista adottato è quello di un personaggio e il narratore “sa” quello che sa il personaggio in questione. Si tratta di una forma di narrazione molto diffusa nell’ambito della scrittura di genere (tutte le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R.R. Martin, per dire) perché è tutto sommato semplice ed efficace. In storie del genere un narratore onnisciente sarebbe troppo invasivo; in questo modo invece si segue la storia e le sue scoperte come il protagonista. Dico come il protagonista perché finora il punto di vista è sempre stato quello dello Spadaccino. In Gatto e Libertà ci saranno un paio di cambi di prospettiva, che hanno la funzione sia di variare uno schema sia di dare spiegazioni che sarebbero state altrimenti macchinose da fornire. In futuro, vorrei provare a scrivere almeno una storia in cui parte della narrazione sia in prima persona, da parte dello Spadaccino o di qualcuno che ne racconta le avventure.
Sempre dal punto di vista tecnico, cerco di “mostrare” il più possibile e “raccontare” il meno possibile. Il principio dello show don’t tell è oggetto di una specie di guerra di religione ed è brandito dai suoi sostenitori come una clava. Io non sono così drastico: per il mio gusto e il mio modo di scrivere funziona, ma non lo ritengo un dogma. Se mi rendo conto che per mostrare lo stato d’animo di un personaggio devo farlo agire come un pazzo iper-attivo, beh, preferisco che il narratore si faccia avanti e dica al lettore come deve immaginare quel personaggio. Ho studiato semiotica del testo a Bologna, quindi per contratto devo credere nel testo come macchina pigra e fidarmi del fatto che il lettore non aspetta altro che riempire con la sua immaginazione i buchi nel mio testo.
E con questo, per ora, ho finito.

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