Quel che resta

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C’è una novella di Boccaccio che cita Calvino nelle Lezioni americane, quando parla della leggerezza. Cavalcanti, poeta, è tormentato da dei nobili che vogliono assolutamente che faccia parte della loro compagnia. Un giorno questi lo bloccano da solo in mezzo a un cimitero e gli chiedono perché non voglia proprio saperne di unirsi a loro. Cavalcanti risponde serafico che lì a casa loro, tra i morti, possono chiedergli ciò che vogliono. E poi:

posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò.

Leggerissimo, con un gran salto si lascia le tombe e la compagnia, sui loro bei cavalli, alle spalle.
Ecco, a me sembra che quello che ha fatto Blu a Bologna tra venerdì e sabato sia molto simile al salto di Cavalcanti: qualcosa che gli inseguitori/scocciatori non si aspettano, che li spiazza perché non fa parte del loro orizzonte culturale e di cui non riescono a capacitarsi.
Basterebbe leggere l’intervista al curatore della mostra o a Fabio Roversi Monaco, entrambi piccatissimi e quasi incapaci, come i personaggi di Boccaccio, di accettare che qualcuno non abbia voluto avere nulla a che fare con loro.

Con la “distruzione” dei suoi lavori sui muri di Bologna, Blu ha scritto una pagina della storia di quella roba che chiamiamo “street art” che probabilmente si leggerà ancora tra tanti anni. Una delle dimostrazioni che Bologna, nonostante (e paradossalmente anche grazie a) un’amministrazione comunale sempre più patetica e vergognosa è un posto dove succedono cose grosse. Prima che andiate avanti a leggere qui, vi avviso che sul tema la cosa più bella l’ho letta su Bastonate.

È importante non perdere di vista il contesto in cui è maturata l’operazione: una fondazione organizza una mostra di street art che contiene anche opere “strappate” dalle pareti su cui si trovavano. Questo in una città dove non più tardi di una paio di settimane fa un’artista, AliCè, si è vista multare per delle opere fatte sui muri, dopo che un solerte magistrato ha letto una sua intervista e l’ha identificata come autrice delle stesse.

C’è da sempre un grosso equivoco di fondo su Bologna: la città aperta, progressista, “rossa”. In realtà la Bologna dei bolognesi-bolognesi è tendenzialmente una città chiusa, insofferente al continuo afflusso di studenti (salvo quando si tratta di ritirare l’affitto in nero) e il cui centro vorrebbe fare finta di essere un paesino da cartolina. È la Bologna che mette punte di metallo di trenta centimetri alla base dei portoni per non farci sedere la gente – salvo segarli via dopo qualche mese perché erano una minaccia alle caviglie dei condomini. È la Bologna che protesta contro la pedonalizzazione delle strade o l’estensione della ZTL perché poi altrimenti arrivano i negri (notoriamente terrorizzati dalle automobili). La Bologna che vorrebbe eradicare l’università dal centro cittadino e collocarla fuori, lontano dalla vita della città. La Bologna che raccoglie firme in un condominio per impedire che in una delle botteghe al piano terreno apra un kebabbaro. Tutto questo per citare solo episodi minimi in cui mi sono imbattuto negli ultimi anni, che fanno, per così dire, da bordone alla lunga litania di sgomberi. Questa Bologna qua non fa grosse distinzioni tra la tag sul muro, il “pezzo” e lavori come quelli di Ericailcane o Blu: sono sporco, degrado.
Infatti una delle opere cancellate, la più imponente, è esattamente la raffigurazione dello scontro tra queste due città e ha una storia emblematica.
Nel 2013 la sede del centro sociale XM24 doveva essere sgomberata e abbattuta per fare spazio a una rotonda. Blu dipinse sulla facciata un’opera gigantesca (qui esplorabile e zoomabile) che costrinse il Comune a prendere in considerazione un progetto alternativo e spostare la rotonda.
(Alla spiegazione del complesso lavoro di Blu avevano dedicato una serata i Wu Ming – l’immaginario tolkieniano dell’opera mi fa venire in mente che la cancellazione delle opere è un gesto non dissimile dalla distruzione dell’Unico Anello: qualcosa che il Nemico, che è animato dalla smania di possesso, non può prevedere perché non concepisce)

Insomma, la street art a Bologna, al di fuori di progetti come CHEAP che ha delle collaborazioni con il Comune, fa per lo più parte di una storia e di un ambiente culturale che non sono neanche da lontano quelli di Genus Bononiae.
Per esempio, questo era un palazzo occupato in via Avesella:

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Blu ha agito, allo stesso tempo, da attivista e da artista. Da attivista ha sottratto delle opere alla possibilità di essere depredate “per salvarle” (ma sappiamo tutti che la natura di queste opere prevede la possibilità dell’alterazione e anche della distruzione, diventando un elemento della città come gli altri); da artista ha agito in prima persone sul proprio lavoro.
Alla mostra di Roversi Monaco restano delle opere morte, estirpate dal loro ambiente dove avevano esaurito il loro ciclo vitale (i palazzi su cui si trovavano sarebbero stati demoliti). Per le strade di Bologna resta qualcosa che indica che prima lì c’era qualcosa. E che ora non c’è più. Non c’è più perché è stata sottratta, per sempre, prima che qualcuno potesse prenderla e farla sua. Non c’è più perché qualcuno ha deciso che non era il caso di rischiare che qualcuno usasse quelle opere per scopi diversi da quelli per cui erano state realizzate, che ne snaturasse o sminuisse il senso.
Questa cosa esplode con violenza nel caso del murales dell’XM24, la cui unica porzione rimasta scoperta è quella che raffigura Atlantide, un centro autogestito GLBTQ sgomberato a ottobre del 2015 dopo 15 anni di attività:

Questa faccenda, con la risonanza che sta avendo, è forse uno dei più grossi schiaffoni pubblici che Roversi Monaco abbia preso da un sacco di tempo a questa parte. E la botta lo fa vacillare al punto da lanciarsi in affermazioni bizzarre tipo:

io non sono un potere forte, non sono mai stato nominato da nessuno, sono sempre stato eletto e ho pagato sempre di persona. I poteri forti sono quelli che governano dal 1945. Punto e basta.

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(via)

Domenica ero a Ravenna e, giusto poco lontano dai due mosaici di Invader rimossi vicino a San Vitale, ho visto i primi manifesti della mostra di Bologna, che hanno in testa il nome di Blu (e come immagine un Banksy così sputtanato che l’ha usato pure Mondadori per la copertina del romanzo di Luca Casarini). Non so se nella storia dell’arte sia mai esistito un caso simile, quello di una mostra che mette al posto d’onore un autore che per esprimere la sua contrarietà all’esposizione di suoi lavori ne ha distrutti una così gran quantità.


 

Post scriptum: una storia interessante di qualche anno fa, sempre da Bologna, sulla ricezione di interventi di street art concordati con il Comune da parte degli abitanti di un palazzo dipinto.
Sull’argomento del rischio di “istituzionalizzazione della street art” per distogliere dai reali problemi dei quartieri, c’era un pezzo molto interessante su Il lavoro culturale.

 

 

 

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