Seven inches leather heels, fame and masquerade, but…

È il lato sinistro del volto.
Quello che non ami che venga ripreso. Quello che adesso reclama la tua attenzione, come un bambino trascurato che dà fuoco al tappeto del salotto.
Non so che cosa sia per te il dolore di tre etti di materiale denso e solido, tagliente, che impattano contro la carne, le cartilagini, i denti. Posso immaginare il suono dell’impatto, un tonfo piatto, ho vaghi ricordi della sensazione di un dente che si spezza quando avevo quattro anni, il segnale di allarme che risale dalle terminazioni nervose al cervello.
Immagino la confusione. Non capire perché, che cosa sia successo.
La ricostruisco da quella notte in cui in spiaggia, ubriaco, mi sono lasciato cadere sulla schiena da seduto e la mia nuca ha picchiato con forza contro un sasso. La sensazione di stordimento, il distacco dato dall’alcol che ti regala quel fugace fastidio per non essere riuscito a sdraiarti come volevi.
E quella specie di flash sensoriale che ti ricorda la presenza di una parte del tuo corpo che reclama la tua attenzione. Perché il dolore è questo: un messaggio d’allarme. Chissà quando è nato, nell’evoluzione, quel segnale che ti avvisa quando qualcosa sta minacciando la tua integrità fisica e che è il caso di fare qualcosa. E chissà perché non si può spegnere come fosse un avviso di sistema sul computer. Certo l’adrenalina funziona come un “ricordami più tardi”, ma non basta.
La confusione, dicevo.
Non capire. Gesti istintivi, portare le mani verso la parte colpita. Chissà come mai lo facciamo. Un gesto inconscio, come a fermare emorragie? Un’auto-pranoterapia?
E intanto gli altri che ti si fanno addosso. La preoccupazione sulle loro facce. Quella la conosco anche io.
Quello che viene dopo no, non so.
Ti portano dentro la macchina, al riparo.
Credo sia la prassi per un servizio d’ordine. Un servizio d’ordine che si è lasciato sfuggire un tizio che ha agitato in aria un aggeggio pesante per un paio di secondi. Magari leggo troppi romanzi di spionaggio, ma per me due secondi sono un’eternità per uno che fa quel lavoro. Da sempre chi lavora con te sa che sei l’incubo della sicurezza, con questa passione per i bagni di folla. Questo rende il loro fallimento ancora più gigantesco.
E poi, ecco, non so che cosa scatti dentro di te. Non so perché insisti per uscire dall’auto e issarti in piedi sul predellino. È un gesto che richiama un altro predellino, quello da cui avevi annunciato la nascita di un nuovo partito. Lo sai? Ne sei cosciente?
Lo sai solo tu.
Alcuni dicono che l’hai fatto per calcolo. Che volevi mostrare a tutti la tua faccia ferita, farne un’icona. Che persino in quel momento sei stato capace di voltare a tuo favore gli eventi. Secondo alcuni, non ci sarebbe stato nessun attentato, nessuna ferita, sarebbe stata tutta una messinscena. Una recita organizzata, fingere di venire colpito, precipitarsi in auto dove ti aspettava un truccatore che ti ha trasformato in una maschera tragica.
Tu qualcosa l’hai detto. Anzi, l’hai fatto dire ai tuoi. Volevi mostrare che stavi bene. Rassicurare i tuoi. Scongiurare il linciaggio di chi ti aveva ferito.
Io non lo so perché. Non posso saperlo. Non posso entrare nella tua testa.
Potrei immaginarlo. Montare insieme i fatti, assemblare una verità narrativa, eventi e pensieri tenuti insieme da una coerenza che dia un’impressione di verosimiglianza. Ma la realtà non è narrativa. La realta, mi pare lo dica Tom Clancy, può permettersi di essere incoerente. La narrativa no.
Tutto quello che posso fare è descrivere quello che vedo.
E quello che vedo è un uomo confuso, ferito, inebetito. Che si guarda intorno come se fosse sperduto. Come se quel caos sonoro in cui è immerso, che forse gli arriva lontano, ovattato, confuso in mezzo a un ronzio basso e persistente, fosse un mondo a lui alieno che gli si presenta davanti per la prima volta. Oppure no. Oppure lui l’ha già visto, quel caos. L’ha visto in televisione, l’ha sentito raccontare chissà quante volte dal suo protagonista. L’hotel Raphael. Il 30 aprile del 1993. La notte di Valpurga di Bettino Craxi, il suo “rogo” a suon di monetine, mirabile contrappasso.
È di quello che hai paura, vero? Che sia arrivata la tua fine, che sia stato organizzato qualcosa della stessa forza simbolica? È per quello che non vuoi andare via: non vuoi restare con il dubbio. Il dubbio e il dolore.
Mi amano? Mi amano ancora? Mi stanno amando?
Ecco quello che vedo, quando ti issi sul predellino e ti guardi intorno, per la prima volta sincero nella tua vita pubblica, per la prima volta libero dalla tua maschera. Vedo un uomo solo, che si guarda intorno domandando muto “mi amate ancora? Non mi state abbandonando? Non mi state voltando le spalle?”.
E mi fa uno strano effetto, perché penso che io così ti avevo già visto, da qualche parte. E mi ricordo anche dove.
Era una vignetta, nel mezzo delle vampate del Noemigate, quando tu rispondevi incazzato, feroce, pieno di energia. E ci voleva uno bravo davvero per riuscire a guardarti dentro, a smontare il cerone e a rivelare la persona, in quei giorni.
Ma Makkox è uno bravo. Sia a fare le linee e a colorare gli spazi sia a scrivere le lettere da metterci accanto. E anche, soprattutto, è uno bravo a guardare le persone e intuire quello che hanno dentro.
E quindi lui te l’aveva già fatto il ritratto di quegli attimi prima che decidessi di salire sul predellino. Sette mesi prima:

Ricordi la gioia? Ricordi?

6 commenti

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6 risposte a “Seven inches leather heels, fame and masquerade, but…

  1. porcaboia bello questo pezzo.

  2. Denghiu. Dovevo aggiungere in fondo “pedavena powered”, per onestà

  3. clumsy

    anche a Makkox che quella vignetta non la conoscevo

  4. uao ale

    (e makkox, obv, ma questo già lo sapevamo da queldì)

    btw, ti porto su fessbuk, non ti offendere

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